THE 
LAST
OF US

- La Serie TV: Recensione -

Certe storie vanno lasciate in pace: devono iniziare e finire in un determinato modo, senza ripensamenti e passi indietro. Devono essere e basta: efficaci, lineari e appassionanti nella loro dimensione, così come sono state pensate originariamente. Altre storie, invece, meritano di vivere una seconda vita, e di finire in televisione o al cinema. Se sono libri, devono conservare la forza della scrittura; se sono videogiochi, devono partire dall’esperienza interattiva.
The Last of Us” è, sotto tanti punti di vista, un’eccezione. Già come videogioco, appena uscito, era perfetto – e non usiamo questa parola a caso. Aveva i suoi picchi narrativi, un gameplay non particolarmente rivoluzionario ma intelligente; e due personaggi, Joel ed Ellie, capaci da soli – senza dettagli, ambientazioni particolari e mostri famelici – di entrare nell’immaginario comune e di conquistare il pubblico. La serie tv, disponibile su Sky e NOW dal 16 gennaio, va – se possibile – oltre. E lo fa splendidamente, senza rinnegare il passato ma aggiungendo qualcosa – qualcosa di, lo diciamo subito, essenziale – al racconto.
Neil Druckmann di Naughty Dog, il demiurgo, è stato coinvolto anche in questo progetto; e al suo fianco è stato chiamato uno degli showrunner, e scrittori e creativi, più bravi di questi anni: Craig Mazin, già autore di “Chernobyl”. Da un lato, in questo modo, abbiamo qualcuno pronto a supervisionare – e a proteggere, lo sottolineiamo – la storia. Dall’altro, invece, abbiamo due occhi nuovi, freschi, in grado di contestualizzare e ancorare la narrazione alla nostra realtà. Poi ci sono i due attori protagonisti: Pedro Pascal, che interpreta Joel, e Bella Ramsey, che interpreta Ellie. Entrambi hanno qualcosa dei loro personaggi, ma sono, allo stesso tempo, differenti. Soprattutto Bella Ramsey. 

Per scivolare nella propria parte, non basta la somiglianza fisica; serve altro – serve uno slancio creativo ed emotivo particolare, ed è esattamente quello che Ramsey ha. Ma andiamo con calma. Torniamo, per un attimo, al videogioco di “The Last of Us”. Non ha senso nasconderlo, né ha senso metterlo da parte; è importante tenerlo sempre presente, e accettare di buon grado il confronto – perché è una cosa che, presto o tardi, succederà comunque.
Quando è uscito per la prima volta, “The Last of Us” ha venduto milioni di copie e ha conquistato un pubblico enorme. Questa non è la solita storia di zombie e resistenza; è una storia intima, inserita in un’ambientazione più ampia, dove due estranei, un uomo adulto e un’adolescente, imparano a conoscersi e a volersi bene. Come due amici. Come un padre e una figlia.
Quando una mutazione del fungo Cordyceps si è diffusa nel mondo, portando l’umanità sull’orlo dell’estinzione, Joel ha perso tutto. E con suo fratello Tommy ha dovuto ricominciare. Da zero. Senza più un sistema a proteggerle, le persone sono state costrette ad adattarsi: a tornare indietro, a essere pronte a tradire i loro vicini per avere una razione in più; a rubare, uccidere e mentire. Joel, spezzato nell’anima e nel cuore, è stato fin da subito uno dei più abili. E nonostante ciò, al suo incontro con il destino, con Ellie, ha capito di essere impreparato. Insieme a Tess, la sua socia-compagna, è partito per un viaggio di sola andata, ingaggiato dalle ribelli Fireflies.
La serie tv riprende questa trama fedelmente, quasi uno a uno. Il racconto parte diverse anni prima, con il primo, importante intervento di Craig Mazin: bisogna rendere la diffusione di un fungo credibile, e bisogna renderne l’idea accettabile per gli spettatori, specialmente per quelli che non hanno mai giocato ai videogiochi – ricordiamocelo sempre: la serie punta a un pubblico ancora più ampio e trasversale. Poi, con calma, si passa a Joel e a sua figlia, Sarah, interpretata da Nico Parker. Li seguiamo nella loro quotidianità, capiamo chi sono, li riconosciamo; sappiamo subito che il loro rapporto è un rapporto speciale, profondo, quasi viscerale; e sappiamo anche che Tommy (interpretato da Gabriel Luna) fa parte della loro famiglia. C’è qualcosa di palpabile che li unisce: oltre il sangue, oltre la carne; oltre le abitudini. 

Quando il fungo comincia a diffondersi e le persone a impazzire, sono loro tre, da soli, contro tutti. Il cambiamento di Joel avviene sotto i nostri occhi, e anche questo è fondamentale: il linguaggio della televisione è molto più esplicito del linguaggio dei videogiochi; può lasciare delle domande in sospeso, senza risposta, certo; ma deve pure dare abbastanza elementi al pubblico per permettergli di seguire l’andamento del racconto.
Dopo un salto temporale di alcuni anni – anche qui: del tutto simile a quello del videogioco – ritroviamo Joel in un futuro prossimo, non remoto, dove le città si sono riorganizzate, il governo federale ha cominciato a usare il pugno di ferro e la resistenza rappresenta una minaccia costante. In questo mondo, Joel non è un padre: è un predatore. Ellie è una sorpresa. E quando lui e Tess (interpretata da Anna Torv) vengono contattati da Marlene (Merle Dandridge) e dalle sue Fireflies, si rifiuta, dice di no; non vuole cedere la sua indipendenza per una sconosciuta. Alla fine, però, accetta per ritrovare Tommy. E così comincia il viaggio.
Mazin e Druckmann ci danno continuamente elementi su cui riflettere; a un certo punto, addirittura, ci portano in quello che senza esagerare potremmo definire “il dietro le quinte” dell’epidemia. Così la serie tv acquisisce sostanza e consistenza. Non si allontana dal sentiero tracciato dal videogioco; ne imbocca un altro, parallelo, molto simile ma pure unico. La riflessione che ora tocca fare è su questo: qual è il modo più intelligente – non più giusto, non migliore: più intelligente – di passare da un linguaggio a un altro?
Nella serie, ovviamente, lo spettatore è passivo; non può intervenire in prima persona in quello che sta succedendo. Nel videogioco, al contrario, l’immersività è indispensabile. Il filo rosso che tiene unite queste due cose, questi due approcci, è la scrittura. Nella serie tv molti passaggi vengono ripresi e adattati; quando ci sono dei cambiamenti, sono cambiamenti sostanziali ed evidenti oppure piccole sfumature – non c’è una via di mezzo, e va bene. La regia – firmata da Abi Abbasi, Jeremy Webb, Peter Hoar, Liza Johnson, Jasmila Zbanic e dagli stessi Neil Druckmann e Craig Mazin – trova immediatamente un equilibrio: non è mai insistente o oppressiva; è invitante, attenta e meticolosa. Le grandi inquadrature permettono allo spettatore di avere un’idea più chiara dell’ambientazione e dello stato in cui versano le varie città degli Stati Uniti. I primi piani, invece, favoriscono il lavoro degli attori, e nei campi e controcampi inizia un fraseggio fatto di parole, silenzi ed espressioni

La fotografia di Eben Bolter, Ksenia Sereda e Nadim Carlsen riesce in ogni momento a impreziosire le immagini e a renderle, se possibile, ancora più profonde e credibili. L’effettistica è dosata con cura: gli zombie non vengono utilizzati costantemente, ma solo quando il tono, più che la trama, del singolo episodio lo richiede. In questo modo, le risorse possono essere distribuite con criterio, senza rischiare di impoverire la messa in scena. Perché tutto, e lo ripetiamo ancora una volta, è legato alla credibilità di quello che vediamo. E Pedro Pascal e Bella Ramsey, in questo, sono fondamentali.
Nel giro di poche puntate – di poche scene, anzi – sintetizzano e stabiliscono una chimica incredibile tra di loro. Sono Joel ed Ellie. Nei silenzi, nelle espressioni contorte e nelle battute stupide. Sono un uomo e un’adolescente, e sono soli. E devono imparare a fidarsi l’uno dell’altra. Per le Fireflies Ellie è l’ultima speranza dell’umanità; ma per Joel è una seconda possibilità per fare meglio come padre dopo la scomparsa di Sarah.
Se questa serie funziona (e – credetemi – funziona) è merito di questi due attori. Come abbiamo già detto, la somiglianza fisica con i personaggi del videogioco non è tutto; anzi, anche queste differenze permettono alla serie di trovare la sua direzione e la sua indipendenza. La visione di Druckmann e Mazin è cristallina: “The Last of Us” non è l’ennesima storia ambientata dopo la fine del mondo, tra zombie e assassini; è la storia di una famiglia, di una rinascita e di una riscoperta.
Anche sull’orlo del disastro, le persone conservano la loro umanità. Non è sempre così, e ne abbiamo la prova: la fine di “The Last of Us” ce lo mostra con precisione; i veri mostri non sono gli infetti, ma gli uomini e le donne che per sopravvivere sono disposti a fare qualunque cosa. Ma ci sono delle eccezioni. Un episodio, in particolare, dove compare il personaggio di Bill (interpretato da Nick Offerman), mette in risalto il nostro lato migliore.

Questa serie riprende il primo videogioco di Naughty Dog, e si chiude quasi nello stesso modo: non diremo come, ma la musica di Gustavo Santaolalla dimostra nuovamente di essere perfetta per questa storia. Non ci troviamo davanti all’ennesimo, fiacco adattamento; non ci troviamo davanti a una produzione che, per sfruttare la comunità e il successo che un videogioco ha saputo raccogliere negli anni, fa scelte facili e banali. Ci troviamo davanti a una serie tv scritta meravigliosamente e retta dalle interpretazioni del suo cast.
Dire che Pascal e Ramsey sono i volti di “The Last of Us” è una banalizzazione: ma è esattamente così. Le loro interpretazioni non si fermano al minimo sindacale, a quel tanto che basta per portare a casa la giornata e le scene: è vera, totale, potente. Ed è grazie a essa che, più volte, viene facile sorvolare su piccole sbavature come il taglio troppo netto e definitivo di alcune sequenze.
C’è spazio anche per Troy Baker e Ashley Johnson, i doppiatori originali di Joel ed Ellie. E c’è soprattutto spazio per l’anima del videogioco: la sua straordinaria abilità di attualizzare qualunque argomento e qualunque questione, dalla politica alla società, dal sesso alla violenza, e di farne una parte integrante della narrazione.
Questa serie non è una rivoluzione per il piccolo schermo; è sicuramente, però, un passo in avanti importante nella costruzione di un rapporto sano e duraturo tra l’industria videoludica e quella televisiva. “The Last of Us” è quello che, come spettatori e videogiocatori, stavamo aspettando da molto, molto tempo. Ed è il caso di dirlo: finalmente.

Pubblicato il: 10/01/2023

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21 commenti

Faccio una domanda non inerente alla qualità o meno della serie, ma al casting di alcuni personaggi. Mi chiedo come mai alcuni personaggi come la figlia di Joel oppure la moglie di Tommy abbiano ricevuto un cambiamento etnico. Ovviamente non discuto …Altro... Faccio una domanda non inerente alla qualità o meno della serie, ma al casting di alcuni personaggi. Mi chiedo come mai alcuni personaggi come la figlia di Joel oppure la moglie di Tommy abbiano ricevuto un cambiamento etnico. Ovviamente non discuto la qualità degli attori e l'opera non subisce assolutamente alcuna alterazione, tuttavia mi domando se siano state fatte delle pressioni da parte della HBO (come i Velaryon in House of the Dragon), in quanto già nel videogioco sono presenti numerosi personaggi di colore e se una persona ci fa caso non succede quasi mai il contrario.

Lo reputate un capolavoro?

Bellissima recensione, complimenti!

Faccio una domanda forse stupida, ma non sapendo nulla né del gioco né della serie, chiedo: non ho ancora giocato a Last of us sulla ps5, sebbene lo abbia preso da poco insieme alla ps5 stessa, causa backlog. La serie segue la trama del gioco, e qu …Altro... Faccio una domanda forse stupida, ma non sapendo nulla né del gioco né della serie, chiedo: non ho ancora giocato a Last of us sulla ps5, sebbene lo abbia preso da poco insieme alla ps5 stessa, causa backlog. La serie segue la trama del gioco, e quindi evito fino a che non l'ho giocato, oppure, come la serie the Witcher su Netflix, mi permetterebbe comunque di vederla? Grazie

Con Mazin e Druckmann al timone non avevo poi tanti dubbi, ottimo però sapere che sia andata effettivamente così. Aspetterò marzo o giù di lì per poterla vedere con i miei ritmi e non a scadenza settimanale (che secondo me fa un po' perdere il s …Altro... Con Mazin e Druckmann al timone non avevo poi tanti dubbi, ottimo però sapere che sia andata effettivamente così. Aspetterò marzo o giù di lì per poterla vedere con i miei ritmi e non a scadenza settimanale (che secondo me fa un po' perdere il senso della narrazione da una settimana all'altra), ma comunque non vedo l'ora.

Gran pezzo e felicissimo per il fatto che abbiano fatto un bel lavoro!

Complimenti per la recensione, sono davvero speranzoso per questa serie tv.

Bellissimo articolo.
Non vi ringrazierò mai abbastanza per non mettere voti nelle recensioni.,..❤️

Grazie Gianmaria, avevo ancora qualche dubbio sulla serie, ma con questa recensione sono un po' più sereno... anzi un pochetto in hype dai...

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