Il Futuro dell'Intrattenimento
passa dai Videogame
“I videogiochi sono arte. Finalmente stanno ricevendo la giusta attenzione e la giusta considerazione. Sono una cosa quasi accettata. Non sono più un’eccezione o un incidente di percorso. Se giochi a The Witcher 3, o se giochi ad Assassin’s Creed: Valhalla, l’esperienza di gioco è estremamente vicina a quella di un film o di una serie”.
Henry Cavill, 7 dicembre 2021
Per molto tempo il cinema e la televisione hanno considerato i videogiochi come delle scatole: ottime per essere riempite, schiacciate e sfruttate per la loro visibilità. Erano cornici, non quadri, e in quanto cornici avevano un solo scopo: attirare il pubblico; convincere la fanbase a investire il proprio tempo. Poi è successo qualcosa. Uno slittamento di piani e punti di vista. I videogiochi hanno continuato ad andare bene e sono diventati un punto di riferimento, un faro nel mondo dell’intrattenimento: qualcosa da tenere in alta considerazione e da non sottovalutare.
Prendete ad esempio una saga come “Resident Evil”, che al cinema è stata letteralmente stravolta. Commercialmente è andata bene: al momento è uno dei franchise che, sul grande schermo, hanno guadagnato di più. Ma che cosa ne è stato della storia originale e della trama? Di quei personaggi e quelle ambientazioni? Sono stati risucchiati da una visione particolare, distorta, che ha usato solo alcuni elementi originali e ne ha aggiunto altri. Al primo posto, in questo caso, è stato messo il linguaggio del cinema, e sono state fatte considerazioni piuttosto ragionevoli ma banali: sono state seguite le regole del genere, l’effettistica, ancora limitata, è stata inizialmente utilizzata con il contagocce; e la protagonista, interpretata da Milla Jovovich, è diventata l’espressione di un sistema intero. Prima incerta, poi forte, quasi invincibile ed eroica.
Se per molto tempo questo è stato l’unico modo per portare i videogiochi su un altro medium, adesso non è più possibile: i videogiocatori vogliono fedeltà e vogliono rivedere precisamente quello che hanno vissuto; non sono pronti a scendere a compromessi. E perché, poi? I videogiochi contemporanei hanno un taglio – regia, montaggio e scrittura – che non ha nulla da invidiare alle grandi serie e ai grandi film. Il lavoro comincia dietro le quinte, in fase di scrittura. Il gameplay viene solo in un momento successivo (e questo, a volte, si nota). I vari personaggi devono essere credibili, approfonditi, con una loro tridimensionalità caratteriale. Il videogiocatore, prima di affezionarsi alle dinamiche del gioco, deve affezionarsi a loro; li deve vedere come amici, come compagni; se è possibile, come un’estensione di sé stesso.
Insomma, bisogna ripartire: i videogiochi oggi non sono più scatole. I videogiochi, oggi, sono i mattoni, le fondamenta, di qualcosa di totalmente nuovo. Un grattacielo altissimo, fatto di idee e creatività, che non ha paura di rivaleggiare con gli altri palazzi che sono stati progettati in questi ultimi decenni. Il mondo dell’intrattenimento, dal grande al piccolo schermo, ha bisogno di storie. E le storie migliori, in questi anni, non arrivano più dai libri o dai fumetti (quel bacino si sta lentamente svuotando, e la ridondanza di certe produzioni, come quelle della Marvel e della Disney, è un chiarissimo segnale d’allarme); arrivano dai videogiochi. Il caso di “The Last of Us”, che l’anno prossimo farà il suo esordio sulla HBO (in Italia su Sky e NOW dal 16 gennaio), ne è un esempio. Ma facciamo un passo indietro. Proviamo ad allargare il quadro. Perché sì: questo sembra, e in parte lo è, un ragionamento lineare; ma la verità è che tutto è molto più complicato di così.
Ascoltando Christian Cantamessa, regista, scrittore e designer di videogiochi e film, è evidente una cosa: l’industria videoludica, rispetto a quella cinematografica e televisiva, è ancora indietro. Non parliamo, adesso, della sua capacità creativa: parliamo, al contrario, della sua struttura produttiva. L’industria videoludica è organizzata in studios. Separati, con un obiettivo condiviso, ma modi e spunti totalmente differenti, a volte addirittura opposti. Gli autori – quelli che hanno il potere contrattuale di avere l’ultima parola su tutto; quelli che sono volti e voci durante la fase promozionale, e che si fanno sempre avanti, che partecipano, arricchiscono e discutono – sono pochi. Hideo Kojima, per esempio. O Neil Druckmann. E le vere alternative, in termini artistici e creativi, arrivano dal mondo indipendente: lì, la regola degli studios vale, ma non così tanto; lo scopo resta creare qualcosa di bello, di nuovo; qualcosa che gli stessi sviluppatori desiderano – vogliono – giocare. Ma sono, appunto, eccezioni. La regola, oggi, sono i grandi franchise, quelli che hanno già venduto milioni e milioni di copie, che sono riusciti – come “Red Dead Redemption” – a battere gli incassi dei grossi film americani. Se un titolo va bene deve – sottolineiamo: deve – avere un suo sequel. Anche a costo di inciampare o di perdere completamente la bussola.
Il mondo dell’intrattenimento, l’abbiamo già detto, ha bisogno di storie. Di brand. E di pubblico. La serie di “The Witcher”, più che per i libri di Andrzej Sapkowski (in Italia pubblicati da Editrice Nord), è stata sviluppata per il successo dei titoli prodotti da CD Projekt. E se Henry Cavill ha deciso di partecipare, di cedere sulla sua parte contrattuale, l’ha fatto esattamente per questa ragione: è un videogiocatore, e ha passato decine e decine di ore giocando al terzo capitolo della saga. “Uncharted”, arrivato sul grande schermo solo pochi mesi fa, ha seguito – ha provato, cioè, a seguire – il successo del videogioco: gli sviluppatori hanno deciso di prenderla alla larga, di creare quasi una origin story, e di affidarsi a un volto giovane e riconoscibile come quello di Tom Holland. La stessa cosa, volendo, si può dire di “Fallout”, che presto diventerà una serie tv sotto la supervisione di Lisa Joy e Jonathan Nolan (“Westworld”): online si trovano le prime clip; gli uomini e le donne di Bethesda sono tutti entusiasti, e Nolan ammette il suo amore incondizionato per questa storia post-apocalittica che, parole sue, l’ha portato a essere un regista.
Vanno poi citati i due straordinari successi di questi anni. Ovvero “Arcane” e “Cyberpunk: Edgerunners”. Entrambe sono serie tv, entrambe sono prodotti di animazione ed entrambe sono state distribuite da Netflix. Ma hanno anche altro in comune: i team creativi hanno avuto massima libertà. Hanno speso quello che dovevano spendere; si sono presi il tempo di cui avevano bisogno; hanno costruito campagne comunicative precise, per avvicinare prima di tutto il pubblico fedele dei videogiocatori. Poi sono arrivati online, in streaming, e sono stati accolti da spettatori e critica come due prodotti di qualità, intelligenti, addirittura innovativi dal punto di vista tecnico (soprattutto “Arcane”). Nel caso di “Edgerunners”, CD Projekt ha avuto l’ennesima spinta per ritornare a lavorare sul suo videogioco, per rimetterci mano e per costruire un nuovo ponte di fiducia con i suoi clienti.
I videogiochi, lo dicevamo, sono diventati mattoni. E su questi mattoni si sta costruendo il benessere non solo dell’industria cinematografica e televisiva, ma anche quello – ovviamente – dell’industria videoludica: guardo la serie o il film, e recupero il gioco; gioco al videogioco e appena esce la serie o il film voglio assolutamente vederli; e mi abbono, vado al cinema, ne parlo. Il passaparola, se il prodotto finale merita fiducia e attenzione, si innesca quasi automaticamente. E c’è un riciclo costante, quasi ininterrotto, nella comunicazione. Un mercato lineare, così, può trasformarsi in un cerchio, e meccanismi che fino a oggi hanno faticato possono trovare un aiuto fondamentale. La domanda, a questo punto, diventa un’altra: che cos’è cambiato in questi anni nel mondo dell’intrattenimento? Perché c’è questo crescente interesse per i videogiochi? A parte, chiaramente, gli incredibili guadagni e il movimento innegabile di risorse. Le motivazioni, volendo semplificare, sono due. La prima: gli stessi sviluppatori di videogiochi, le stesse major videoludiche, hanno capito di dover intervenire in prima persona nello sviluppo di serie e film basati sui propri titoli. Di più: hanno capito di non poter cedere banalmente i diritti di un’opera, e di dover entrare all’interno del processo produttivo. Per questo motivo sono stati creati i Playstation Productions.
In un’intervista con Esquire Italia, il responsabile Asad Qizilbash ha parlato del suo lavoro come di un’estensione di quello che viene già fatto dal reparto videogioco. Ed è così: si crea un nuovo franchise, si porta avanti come videogioco; si considera la visibilità che ha ottenuto, e si comincia a parlarne con i grossi produttori hollywoodiani. O anche, direttamente, con le piattaforme streaming, che sono sempre più affamate di contenuti per riempire il loro archivio. Quello di Qizilbash e dei Playstation Productions è un caso piuttosto significativo, e un apripista per il resto della filiera videoludica. Perché dimostrano l’importanza della formazione e dell’assunzione di professionalità e talenti. In poche parole: non è possibile fare un film senza produttori d’esperienza; e non è possibile scrivere una serie tv senza sceneggiatori che hanno già lavorato, almeno una volta, per il piccolo schermo. La serie di “The Last of Us” è stata sì sviluppata da Druckmann, ma anche da Craig Mazin, che ha vinto due Emmy Award per “Chernobyl”.
La seconda motivazione di questo crescente interesse è puramente anagrafica: i dirigenti – chi, cioè, si trova a capo di aziende e produzioni – sono più giovani; e hanno giocato ai videogiochi, e li hanno amati, e sanno, in quanto fruitori, quello che significano per tantissime persone, e che potenziale hanno – soprattutto dalla prospettiva del marketing. La fedeltà, così, non è più banalmente una delle possibili strade percorribili per adattare un videogioco: è una necessità. Anzi, ancora meglio: è un valore. E in quanto valore deve essere sfruttato per parlare al pubblico, coinvolgerlo e creare un contatto fatto di fiducia e rispetto reciproco.
I videogiochi sono il futuro dell’intrattenimento, e questo è un fatto. Forse, per ora, può suonare ancora come un’iperbole, un salto nel vuoto: ma la traiettoria dell’industria va esattamente in questa direzione. Tenendo da parte, per un momento, il discorso legato ai film e alle serie tv, la stessa rivoluzione tecnologica che stiamo attraversando, con il potenziamento della realtà virtuale e con la creazione di console sempre più potenti, sta trasformando l’esperienza videoludica in qualcosa di più: un pezzo della nostra infanzia, a volte della nostra vita; un passaggio essenziale nella maturazione e nella condivisione; un’apertura verso il mondo esterno e gli altri, proprio come libri e film; l’occasione per socializzare e per conoscere nuove persone, per trovare il proprio posto nel mondo.
Il livello di scrittura che è stato raggiunto in questi anni e la capacità che alcuni sviluppatori come Naughty Dog sono riusciti a padroneggiare quando si parla di approfondire e arricchire le proprie storie hanno reso questi prodotti un elemento culturale fondamentale. Cinema e televisione, probabilmente, non sono attirati solo da questo aspetto – difficilmente, anzi, lo prendono in considerazione. Ma vedono in modo piuttosto chiaro e lungimirante quello che i videogiochi possono offrire ai loro spettatori. Un filo continuo, una saga che non si esaurisce in pochi capitoli; personaggi in grado di fidelizzare e appassionare. Siamo a un punto di svolta, e serie come “The Last of Us” rappresentano la cosiddetta prova del nove. Tutti sono in attesa di vedere il risultato, e tutti vogliono capire se questo pubblico verticale, così appassionato e specializzato, può trasformarsi in un pubblico più orizzontale e largo, facile da coinvolgere con un trattamento distribuito regolarmente nel tempo (un episodio ogni settimana).
Questa stessa apertura da parte del mondo del cinema e della televisione può portare anche a un’altra svolta, e cioè a una progressione più veloce nell’evoluzione e nella crescita dell’industria videoludica. Non più studios, ma autori. Non più isole, ma interi continenti. Non più franchise infiniti, ma la possibilità continua di proporre nuove storie e nuove idee. Immaginate un film diretto da Hideo Kojima, che con il suo “Death Stranding” si è già circondato di attori e registi. Immaginate la forza narrativa che alcune saghe hanno. Molti errori sono stati commessi e altri dovranno ancora venire: è vero; lo sappiamo, è inutile fare finta di niente. Ma questa non è la fine: è l’inizio. E i videogiochi sono qui per rimanere: perché sono una delle facce della nostra realtà.
Pubblicato il: 21/12/2022
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