MASHINA

Le mani dietro lo schermo

“Sam e io pensiamo un sacco a questo: i giochi sono ancora magici. È come se fossero creati dagli elfi. Accendi lo schermo e vedi questo mondo che esiste soltanto sul televisore. Penso che si guadagni qualcosa dal non sapere come sono fatti”. Parola di Dan Houser, co-fondatore di Rockstar Games insieme a suo fratello Sam Houser – proprio il Sam di cui parla nell’intervista concessa a Sam White di GQ Magazine. Ma cosa di guadagna, di preciso, dal non sapere come sono fatti i videogiochi? Dan Houser parla di “magia”, e sembra suggerire la conoscenza le complesse dinamiche produttive che si celano dietro lo schermo rovinerebbe, in una qualche misura, proprio questa “magia”. Non posso dargli torto. Giocare a Phone Story, il videogioco di Molleindustria in cui si segue il tremendo processo di sfruttamento e superlavoro (anche minorile) che porta alla creazione dei nostri smartphone, è un’esperienza che dà il voltastomaco. E si svolge proprio tramite smartphone. È una scelta di design del tutto intenzionale, precisa, chirurgica, per mostrare il lato oscuro dei telefoni cellulari proprio mentre utilizziamo un telefono cellulare. Ed è molto difficile guardare questo oggetto totemico della nostra contemporaneità in maniera benevola quando si scoprono le reali condizioni in cui lo stesso è prodotto. Nulla che Steve Jobs ha mai mostrato nei suoi stilosissimi interventi sul palco, quando presentava l’ultimo modello di iPhone.

Quello che Dan Houser non dice è che quando finisce la magia inizia la consapevolezza. E da questa consapevolezza possono nascere movimenti per cambiare le condizioni materiali in cui giochi, telefoni cellulari e molto altro sono prodotti. L’ignoranza ha un costo: semplicemente, di solito a pagarlo non sono le persone del Nord globale. Come scrive il filosofo giapponese Kohei Saito ne Il capitale nell’Antropocene, sulla traccia del pensiero del sociologo Stephan Lessenich, per proteggere la ricchezza e la prosperità dei Paesi avanzati e delle loro società è essenziale allontanare il più possibile la ricaduta dei reali costi di questo “modello di vita imperiale”. Il fenomeno può essere definito “società dell’esternalizzazione”: “La società dell’esternalizzazione crea costantemente un altrove, facendo in modo che tutti i costi convergano su di esso. È solo facendo così che le nostre società hanno potuto prosperare”, nelle parole di Kohei Saito. E allora è meglio non sapere, e non porci troppe domande su quanto sfruttamento, quanta violenza e quanto crunch sono stati necessari per portare sullo schermo il nostro gioco preferito. Ecco: è l’inconsapevolezza la vera magia di cui parla Dan Houser. 

C’è chi, invece, sta agendo in maniera concreta per mettere a nudo i processi produttivi che portano alla creazione di un videogioco, facendo in modo che l’esperienza creativa sia – per quanto possibile nel nostro attuale sistema – sostenibile ed eticamente accettabile. Acquistare una copia di Mashina, l’ultimo videogioco prodotto dal duo formato da Talha Kaya e Jack King-Spooner, porta ad avere accesso non soltanto all’esperienza ludica che vede protagonista l’omonimo robot, ma anche al documentario Building Mashina, della durata di trentacinque minuti. 

C’è senz’altro un oggetto dominante all’interno del girato di Richie Morgan: il caotico tavolo da lavoro di Jack King-Spooner, che non avrebbe sfigurato all’interno dell’atelier di Francis Bacon. È tutto per aria: colori, colla, metallo, argilla, fil di ferro. King-Spooner mostra a favor di camera come si costruisce uno dei personaggi del gioco, che esattamente come Judero, uno dei migliori RPG del 2024 (pure prodotto da lui e Kaya), indossa in bella vista le impronte digitali dei suoi creatori. Come una medaglia al valore civile. Per creare i robottini di Mashina è stata utilizzata una grande varietà di tecniche e materiali: Jack King-Spooner ha un ampio curriculum di studi e di lavoro nel campo delle arti sperimentali. In netta contrapposizione con l’opacità produttiva dei titoli tripla A, il documentario mostra per filo e per segno che i videogiochi non sono prodotti grazie a una misteriosa magia. Ci vogliono sudore, consapevolezza dei propri mezzi, una direzione chiara e, se si crea un’opera in due o più persone, una ferma volontà di collaborare, mettendo ciascuno a disposizione il proprio expertise. Esattamente quanto hanno fatto Talha Kaya e Jack King-Spooner.

Mashina riprende la lezione di SteamWorld Dig – lo ha già fatto, molto di recente, Everdeep Aurora – mettendo al centro dell’esperienza di gioco il piacevole senso di flow che può crearsi compiendo un atto ripetitivo: scavare. Nel mondo di fantasia di Mashina, dei robottini cooperano per migliorare le loro vite e il mondo intorno a loro, sia sopra che sotto il livello del terreno. Mashina vive dell’alternanza dentro-fuori: le missioni si ottengono parlando con i nostri compari robot, e per completare ogni incarico assegnato bisogna addentrarsi nelle viscere della terra scovando antichi artefatti, minerali, bizzarri coni arancioni di segnaletica stradale. L’inventario è limitato, dunque la gestione dello spazio occupato dagli oggetti raccolti è fondamentale, come se si trattasse di una sorta di Tetris: un sistema molto utilizzato in questi anni – basti pensare a Dredge, tanto per proporre un esempio illustre proveniente dal panorama indipendente.

Non c’è molto più di questo: l’anima di Mashina è semplice e lineare. “Volevo davvero creare un gioco felice”, dice Talha Kaya nel documentario. Ed è proprio così: Mashina lascia un bel sorriso costantemente stampato sul viso di chi gioca. Nel mio caso, sono arrivata alla fine dell’avventura un po’ stanca da tutto questo scavare, ma potrebbe anche darsi che io sia semplicemente un po’ travolta da un periodo pieno di uscite interessanti, in cui indubbiamente sto passando molte ore davanti al PC. Tra parentesi: purtroppo Mashina non è giocabile su Steam Deck; quindi, occhio se state valutando di portare i robottini di Talha Kaya e Jack King-Spooner sotto l’ombrellone.  

È stato per me inevitabile un confronto con Judero, mio gioco dell’anno nel 2024. Primo: sono francamente stupefatta al pensiero che Judero è uscito il 16 settembre 2024 e Mashina il 31 luglio 2025 – una velocità che contrasta in maniera palmare con le lunghissime tempistiche della stragrande maggioranza dei videogiochi tripla A. Secondo: Death Stranding è stato una importante fonte d’ispirazione per Mashina, con il suo gameplay fondato sulle connessioni. E, in un certo senso, la parabola ludica di Kaya e King-Spooner è stata opposta rispetto a quella del duo di produzioni di Hideo Kojima: se Judero era un gioco basato sulla riflessione intorno al conflitto, proprio come Death Stranding 2: On the Beach, Mashina è tutto corda, come Death Stranding. Anzi, ancora di più: mentre nel primo capitolo della serie di Kojima Productions il bastone – rappresentato da pistole e vari altri strumenti di violenza – era comunque presente, in Mashina sono completamente assenti combattimenti o contrasti di qualsivoglia tipo. Ecco, non aspettatevi le vette narrative toccate in Judero: Mashina vuole davvero essere solo e soltanto “un gioco felice”, come dichiarato da Kaya. Non vi troverete commentari articolati sulla natura umana, né un finale dalla portata memorabile al pari di quello di Judero.

Resta il valore della contro-magia di questi robottini fatti a mano. “Il mio stile, la mia estetica sono ‘brutti in maniera non convenzionale’”, afferma Jack King-Spooner. È difficile lamentarsi dei cali di frame rate di Mashina o delle imperfezioni nelle texture dei personaggi: tutto è parte integrante dell’esperienza, e anche di un particolare modo di costruire un senso di nostalgia. “Puoi letteralmente vedere le impronte umane sulle cose”, dice Talha Kaya, “e questo filtra anche nel design del gioco”. E cosa c’è di più umano di una esitazione del gioco, di un singhiozzo nei movimenti del software? Ciò che altrove considereremmo un difetto qui è chiara manifestazione delle mani degli autori che si celano dietro l’opera. Di loro come persone, e anche dei loro limiti. “Non sei mai sicuro di cosa farà il materiale, di come la pittura reagirà all’olio sull’argilla”, spiega Jack King-Spooner. Nell’epoca del dominio dei dati e della volontà di ottenere la riproducibilità precisa di ogni procedimento, senza scarti, senza sorprese e nel pieno controllo della forza lavoro e della materia, la ricerca dell’imprevedibilità è un atto rivoluzionario. Intanto, i due sviluppatori sono già al lavoro sulla prototipazione del loro prossimo gioco. Che, con ogni probabilità, metterà nuovamente in campo la potente contro-magia delle impronte umane sui nostri schermi. Senza mai nasconderle.

Pubblicato il: 18/08/2025

Abbonati al Patreon di FinalRound

Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori

0 commenti

info@finalround.it

Privacy Policy
Cookie Policy

FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128