DEREK YU
Il senso dell’avventura
«Ora l’Eroe entra completamente nel misterioso ed eccitante Mondo straordinario […]. È un’esperienza nuova e talora spaventosa per lui: non importa attraverso quante scuole di vita sia passato, in questo mondo sconosciuto è ancora una volta un principiante» (Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe).
Derek Yu ama l’avventura e i videogiochi che ha realizzato lo dimostrano. E potrebbe arrivare subito una facile obiezione: “chi è che non ama l’avventura?”. In effetti, soprattutto se osserviamo i videogiochi, le storie avventurose abbondano. Il genere “adventure” è una di quelle etichette dove butti dentro un po’ di tutto, quando non sai come definire un gioco in maniera un po’ più precisa.
Tuttavia, con Derek Yu, il discorso si fa un po’ più preciso e specifico. Questo creatore di videogiochi ha meditato a lungo su quali siano le caratteristiche di una “avventura” videoludica, arrivando a tracciarne un quadro molto preciso. Non è detto che altre persone siano d’accordo con la sua definizione. Anzi, avremo modo di vedere che anche sul concetto di “roguelike” ha delle idee un po’ diverse dalla vulgata attuale. Ma direi che è proprio questo ciò che rende affascinante la conoscenza del suo pensiero di sviluppatore.
Un’infanzia tra Zelda e sale giochi
Conosciamo parecchie informazioni sulle abitudini di gioco di quando Derek Yu era bambino, visto che lui stesso le racconta nel suo libro Spelunky, pubblicato nel 2016 dalla Boss Fight Books e dedicato all’omonimo videogioco che ha reso Yu famoso.
Derek Yu nasce nel 1982 a Pasadena, in California. Da bambino gioca a un gran numero di videogiochi, molti dei quali lo segnano profondamente. Ricorda per esempio con intensità le partite al primo The Legend of Zelda (1986), al quale giocava insieme al padre. La magia di quel gioco, per lui, stava soprattutto nella scoperta del mondo di Hyrule. Come ha ricordato lo stesso Yu nel suo libro, il primo The Legend of Zelda offriva un’esperienza radicalmente diversa rispetto agli open world a cui siamo abituati oggi, in termini di esplorazione spaziale (se volete approfondire l’evoluzione degli open world vi rimando a questo articolo). Non c’era nessun suggerimento sulla direzione da seguire. Era possibile vagare per ore prima di trovare l’entrata del primo dungeon. Questa scelta sarebbe nata dalle peregrinazioni giovanili di Shigeru Miyamoto, che da bambino amava esplorare boschi e campagne, scoprendo luoghi sconosciuti. Miyamoto ha raccontato questa storia in vario modo, in diverse interviste nel corso del tempo, ma l’idea di fondo sembra effettivamente chiara: far muovere liberamente il giocatore per fargli sperimentare la meraviglia della scoperta.
Come facevano anche molti altri giocatori, Derek Yu e suo padre realizzavano delle mappe artigianali di Hyrule, per tenere traccia dei territori esplorati e ricordarsi dove fossero i luoghi di maggior interesse. In particolar modo, come ricordato nel libro, mentre il piccolo Yu giocava, suo papà segnava tutto su un foglio di carta, utilizzando dei pastelli. Derek Yu dice anche di aver un ricordo estremamente vivido della prima volta in cui è entrato in uno dei dungeon di The Legend of Zelda: l’ambiente cupo, i colori utilizzati, il suono dei passi di Link… aggiungevano un ulteriore livello di avventura e meraviglia all’incredibile viaggio nelle terre di Hyrule. E, come ricordato, il gioco non ti diceva dove fosse il primo dungeon (e neanche che ci fosse un dungeon), per cui questa scoperta doveva esser sembrata ancor più incredibile, agli occhi di un bambino. Derek Yu dedica diverse pagine del suo libro all’esperienza con The Legend of Zelda perché, quando ha sviluppato Spelunky, ha voluto provare a trasmettere quello stesso senso di meraviglia, legata al puro piacere dell’esplorazione e della scoperta. Ma di Spelunky parleremo un po’ più giù.
È anche interessante il discorso di Derek Yu sulla saga di Zelda nel suo insieme. Egli dice che, con il passare del tempo, ha trovato sempre meno interessanti i capitoli di The Legend of Zelda. Riflettendo sul perché di tutto ciò, Yu dice che da un lato questo è probabilmente legato a un semplice fattore di crescita: quando si è bambini, davanti a una nuova esperienza, è più facile provare stupore e meraviglia. Crescendo le cose cambiano. Ma secondo lui è la serie stessa a essersi evoluta in una direzione che la rende meno interessante, perlomeno in termini di scoperta ed esplorazione. Parlando dell’evoluzione della serie, Yu cita un famoso articolo che è stato più volte citato e discusso nel corso degli anni: Saving Zelda di Tevis Thompson, pubblicato nel 2012. Yu concorda con l’articolo nel dire che la serie, col passare degli anni, si sia trasformata in un “parco divertimenti”. Cosa significa, questa cosa? Tevis Thompson (e Derek Yu) vedono i più recenti The Legend of Zelda come una sequela di attività da portare a compimento.
Queste attività possono anche essere molto curate e divertenti, ma rimangono come le giostre di un parco divertimenti: una sequela di eventi isolati. Sarebbe invece venuto meno quel senso di meraviglia dato dall’esplorazione della stessa Hyrule. Certo, il passaggio non è stato improvviso e, sicuramente, questa posizione può essere dibattuta e discussa (anche per questo, l’articolo di Thompson era circolato parecchio, perché aveva generato un vivace dibattito). Ricordiamo anche che quando l’articolo di Thompson era stato pubblicato, The Legend of Zelda: Breath of the Wild (2017) era ancora ben lontano e il precedente capitolo a cui far riferimento era The Legend of Zelda: Skyward Sword (2012), che è probabilmente uno di quelli su cui l’effetto “parco divertimenti” è più evidente. Nel 2016, quando Yu ha pubblicato il suo libro, si erano aggiunti The Legend of Zelda: A Link Between Worlds (2013) e The Legend of Zelda: Tri Force Heroes (2015), che però non vengono citati. O Derek Yu non li aveva giocati, o li considerava capitoli “minori” della saga, o semplicemente riteneva che non modificassero la direzione intrapresa in Skyward Sword. In ogni caso, tutti questi discorsi hanno portato Yu a interrogarsi su cosa fosse per lui una “vera avventura” e queste sue riflessioni hanno costituito una delle basi dietro allo sviluppo di Spelunky.
The Legend of Zelda non è stato l’unico videogioco con cui il piccolo Derek Yu si divertiva. Prima che il NES e The Legend of Zelda arrivassero a casa sua, Yu andava da uno zio – il primo della famiglia che aveva comprato la console domestica Nintendo – a giocare con Super Mario Bros. (1985) e Duck Hunt (1984). Nei momenti in cui non giocava, leggeva e rileggeva la rivista «Nintendo Power». Al fianco dei videogiochi per NES, Yu si dedicava spesso anche agli arcade. A Pasadena, dove viveva, tantissimi locali avevano uno o più cabinati, spesso con giochi ben più esagerati, violenti e caciaroni rispetto a quelli che aveva a casa. Quello che però lo affascinava maggiormente di quelle esperienze era la loro brevità. Dopo un po’ dovevi cedere il turno a un altro giocatore, o semplicemente finivi i soldi. Questo conferiva una sorta di aura mistica a quei videogiochi, accresciuta dall’atmosfera dei luoghi in cui si trovavano i cabinati: ambienti impregnati dal fumo delle sigarette e dal sudore, con luci soffuse e un costante rumore di fondo in cui le chiacchiere degli avventori si fondevano coi suoni dei videogiochi. A un certo punto, come viene sempre ricordato nel suo libro, Yu e i suoi amici delle elementari si erano letteralmente ossessionati con Street Fighter II: The World Warrior (1991). Visto però che potevano giocarci solo in certe occasioni, e per breve tempo, trascorrevano intere giornate parlando del gioco e avanzando ipotesi su di esso.
Similmente a quanto fatto con la sua esperienza in The Legend of Zelda, Derek Yu riflette anche su come i cabinati arcade lo abbiano influenzato nel suo sviluppo futuro. Nel corso degli anni, infatti, si è trovato spesso a meditare sulla sua esperienza nelle sale giochi e soprattutto sul fattore tempo. Gran parte di quei giochi erano pensati per delle partite piuttosto brevi, in modo che nessuno monopolizzasse troppo a lungo un cabinato e che si continuasse a inserire una moneta dopo l’altra. Ma questa è solo la superficie. Come dice Yu, un videogioco arcade ben progettato è in realtà fatto apposta per condurti verso il “1 credit clear”: quando cioè finisci tutto il gioco con un singolo gettone/moneta. Ciò che rende longevi e stimolanti questi videogiochi è il processo che ti conduce verso il 1 credit clear. Provando e riprovando, si diventa sempre più bravi e alla fine si raggiunge l’obiettivo. Eppure molti giocatori seguivano un approccio differente, quello su cui in realtà puntavano molti produttori arcade per massimizzare il profitto: il “credit feeding”. Questo avviene quando continui a inserire nuove monete ad ogni “continue?” per non andare incontro al game over. Per migliorare, dice sempre Yu, dovresti invece chiudere quella partita e ricominciare il gioco dall’inizio, così da diventare via via sempre più bravo. Come esempio di esperienza che spinge al credit feeding, Yu cita Metal Slug 3 (2000). La missione finale del gioco è estremamente lunga, praticamente un gioco a sé stante. Un giocatore che riesce ad arrivare fino a quel punto è portato a pensare che il gioco si concluderà a breve, ma l’arrivo del boss finale continua a tardare. La difficoltà è elevata e non si ha una conoscenza pregressa dei pericoli in arrivo. È molto facile continuare a inserire nuovi gettoni a ripetizione, per non perdere i progressi compiuti, con l’idea che ormai la fine è vicina.
Quando si è trovato a lavorare a Spelunky, Derek Yu ha cercato di trovare una quadra tra le esperienze di gioco della sua infanzia. Da un lato, voleva realizzare qualcosa che avesse lo stesso senso di avventura e mistero del primo The Legend of Zelda, un’esperienza che evitasse di tenere per mano i giocatori, come avviene in gran parte dei prodotti usciti negli ultimi anni. Al tempo stesso, voleva che ci fosse una rigiocabilità stimolante, che portasse gli utenti a volersi migliorare, senza cadere nei “trucchetti” che impiegavano i videogiochi arcade.
I primi passi come sviluppatore
Vista la sua grande passione per i videogiochi, non ci si stupisce di certo, scoprendo che Derek Yu inizia molto presto anche a volerli produrre. Quando è ancora bambino si diverte, insieme a un amico, a scarabocchiare su carta i prototipi di possibili videogiochi che gli piacerebbe realizzare. Qualche anno più tardi, quando frequenta l’equivalente delle nostre scuole medie, comincia a fare esperimenti con le avventure testuali e con Klik & Pay, un software del 1994 della francese Clickteam, che consentiva di realizzare semplici videogiochi.
Uno dei primi progetti sviluppati da Yu di cui rimane traccia è Trigger Happy (1998), un deathmatch con visuale dall’alto in cui due giocatori cercano di eliminarsi a vicenda a suon di proiettili. Nulla di rivoluzionario, ma Yu riesce a condividere il gioco online e riceve alcune email in cui degli sconosciuti gli fanno i complimenti. Questo gli fornisce un enorme boost di motivazione, che lo spinge a realizzare altri videogiochi.
Uno dei suoi successivi lavori è Diabolika (1999), un puzzle game in cui bisogna combattere orde di demoni. Yu si occupa del concept e della grafica, mentre la programmazione è affidata a Jonathan Perry (generalmente indicato come Jon Perry), che collaborerà anche a numerosi altri videogiochi di Yu. Diabolika farà poi ritorno nel 2009 in una nuova versione per iPhone, con la quale il gioco verrà effettivamente conosciuto. L’originario gioco uscito nel 1999 non raggiunge particolare fama, ma mostra che Derek Yu è ben motivato.
Qualche anno dopo, Derek Yu e Jon Perry pubblicano un altro videogioco, Eternal Daughter (2002). È grosso modo un metroidvania, in cui si esplora un mondo aperto con nuove aree che divengono accessibili man mano che si prosegue con l’esplorazione e si ottengono dei nuovi poteri. Come intuibile, dopo il successo di Spelunky, diversi giocatori sono andati a recuperare i precedenti titoli realizzati da Yu. In Eternal Daughter hanno trovato un videogioco ancora acerbo, ma che già esprime al meglio la filosofia di Derek Yu. Il gioco è difficile, non ti prende per mano, lascia che sia tu a esplorarlo, scoprendone man mano i segreti, tra cui la possibilità di trovare dei passaggi nascosti colpendo i muri in determinati punti. Certo, è forse un po’ troppo difficile, anche per il fatto che non ha ancora la rifinitura di Spelunky. La direzione, comunque, è ben chiara, corrisponde a quel mix di scoperta, esplorazione e rigiocabilità con cui Yu era cresciuto da bambino. Vale anche la pena ricordare la colonna sonora del gioco, realizzata dal compositore svedese David Saulesco, che in seguito realizzerà anche qualche altro lavoro in ambito videoludico.
Più o meno nello stesso periodo, Derek Yu prende anche parte a un bizzarro progetto, portato avanti dal programmatore Kornel Kisielewicz, il quale decide di realizzare DoomRL (2002), un roguelike ispirato al celebre Doom (1993) di id Software. Yu si occupa della parte artistica. Dal 2016, DoomRL ha cambiato nome in DRL per evitare problemi legali. Rimane tutt’ora un progetto piuttosto apprezzato, tra coloro che amano i mix di differenti generi, ma non ha molto da dire sull’approccio di Yu al game design. Tuttavia, il fatto che egli si sia occupato della parte artistica di DRL ci aiuta a ricordare un’altra cosa: dopo aver studiato computer science al college, Yu ha iniziato a lavorare come illustratore freelance a San Francisco. Per cui, lavorativamente parlando, sembra legarsi più al mondo del disegno che a quello dello sviluppo di videogiochi. Di passaggio, segnaliamo anche che nel 2003 realizza Diabolika II: The Devil’s Last Stand, che a sua volta verrà ripubblicato qualche anno più tardi.
Videogiochi violenti e sparatorie nelle scuole
Le cose cominciano a farsi interessanti, parlando dei videogiochi realizzati da Derek Yu, con I'm O.K – A Murder Simulator (2006), che realizza insieme ad Alec Holowka in risposta a Jack Thompson. Chi bazzica un po’ la storia dei videogiochi probabilmente conosce bene queste persone, ma un piccolo ripasso può essere utile.
Holowka è stato uno sviluppatore indie che ha lavorato a diversi videogiochi, curandone la parte sonora. È ricordato soprattutto per Night in the Woods (2017), un videogioco narrativo con protagonisti degli umani zoomorfizzati (nel senso che i personaggi sono umani, ma ci vengono presentati come fossero animali). Qui Holowka aveva lavorato anche come designer e programmer. Holowka si è tolto la vita nell’agosto del 2019, all’età di 35 anni.Jack Thompson, invece, è un ex avvocato statunitense, noto per aver condotto una delle più feroci crociate contro i videogiochi. Secondo Thompson, i videogiochi violenti sono pericolosi, perché porterebbero i bambini a emulare i comportamenti dei personaggi dentro allo schermo. Sempre secondo Thompson, i videogiochi sarebbero una delle cause delle numerose stragi che avvengono nelle scuole statunitensi: i ragazzini che compiono questi gesti verrebbero involontariamente “addestrati” dai videogiochi. Simili tesi sono prive di fondamento e, nonostante anni e anni di tentativi, non è mai stato provato che ci sia un legame solido tra la violenza nei videogiochi e quella nella realtà. Nonostante ciò, il dibattito pubblico è stato decisamente intenso. Ancora oggi ritorna di quando in quando, ma tra gli anni ’90 e i primi anni 2000 se ne parlava molto. Dopo il tristemente noto massacro della Columbine High School del 1999 (in cui due ragazzi uccisero dodici studenti e un insegnante), per esempio, anche i videogiochi vennero accusati, visto che uno dei due killer era fan di sparatutto come Doom e Quake. È anche per questo che il regista Gus Van Sant, nel suo film Elephant (2003) sul massacro, utilizza diverse inquadrature “videoludiche”: era un modo per ricordare quanto i videogiochi si fossero inseriti all’interno del dibattito su quel tragico episodio.
Tornando a Jack Thompson, nel 2005 aveva pubblicato una lettera aperta agli sviluppatori di videogiochi, intitolata A Modest Video Game Proposal. Thompson diceva che avrebbe donato 10.000 dollari in beneficienza se qualcuno avesse realizzato e pubblicato nel 2006 il videogioco che proponeva. Di cosa si trattava? Di un videogioco in cui il personaggio principale uccideva degli sviluppatori di videogiochi. secondo Thompson, i reali sviluppatori sarebbero stati troppo spaventati all’idea di “insegnare” ai loro fan come ucciderli. Per inciso, Thompson non sapeva che in realtà c’erano già stati dei precedenti, tra cui varie forme di easter eggs e soprattutto il caso di Postal 2 (2003), in cui era possibile uccidere i membri stessi del team di sviluppo.
Alcuni sviluppatori raccolgono la sfida di Thompson e realizzano dei videogiochi che seguono le istruzioni da lui fornite. Anche Derek Yu e Alec Holowka decidono di gettarsi nella mischia con il loro I’m O.K – A Murder Simulator. Come era stato indicato da Thompson, il gioco ruota attorno a un padre disperato per la morte del figlio, causata dai videogiochi, che cerca vendetta. L’“OK” nel titolo corrisponde alle iniziali di Osaki Kim, il protagonista del gioco, il cui nome era stato indicato da Jack Thompson nelle istruzioni che aveva indicato. “Murder simulator”, ovvero “simulatore di omicidio”, è il modo con cui l’ex avvocato era solito definire i videogiochi violenti. Alla fine della fiera, peraltro, Jack Thompson si tirò indietro, in merito alla donazione, nonostante fosse stato realizzato più di un videogioco in risposta al suo appello, dicendo che non erano dei prodotti commerciali e che non gli era stato fatto il nome di un’associazione a cui donare quei soldi, insieme a diverse altre scuse. Alla fine ci pensano Mike Krahulik e Jerry Holkins di Penny Arcade a fare una donazione di 10.000 dollari… utilizzando il nome di Jack Thompson, cosa che li porterà a un contenzioso legale con l’ex avvocato, ma questa è un’altra storia. I’m O.K – A Murder Simulator è un curioso progetto, con uno stile grafico che in parte ricorda la serie Metal Slug e una considerevole ironia di fondo, ma non è un progetto commerciale. È un guanto di sfida lanciato a Jack Thompson in risposta alla sua lettera aperta. In effetti, fino a questo momento, Derek Yu non ha ancora lavorato a un videogioco propriamente commerciale. Ma la situazione sta per cambiare.
L’età dell’acquario
Mentre si divertivano con il provocatorio I'm O.K – A Murder Simulator, Derek Yu e Alec Holowka stavano realizzando un altro videogioco, questa volta pensato per essere un prodotto commerciale: Aquaria (2007). L’idea alla base del gioco è di Holowka, Yu contribuisce soprattutto alla componente artistica e al level design, ma presumibilmente tra loro due c’è stato un costante scambio di idee e suggestioni. Il gioco, talvolta etichettato come un metroidvania, ci mette nei panni di una creatura acquatica di nome Naija, che esplora il mondo sottomarino di Aquaria sfruttando i suoi poteri, tra cui figura un’abilità canora che le consente diverse interazioni con il mondo circostante. A proposito del mondo di gioco, Holowka e Yu hanno delle idee molto simili: per entrambi è importante evocare un certo senso di solitudine nel giocatore, se si vuole farlo immergere all’interno di un’avventura del genere, lasciandogli ampia libertà esplorativa, senza prenderlo troppo per mano su ciò che deve fare o dove deve andare.
Aquaria riscuote un buon successo. La colonna sonora di Alec Holowka piace molto, così come sono apprezzate le scelte visive di Derek Yu. Il gioco vince anche il Seumas McNally Grand Prize, il premio che viene conferito all’Independent Games Festival. Per inciso, nel 2018 anche Night in the Woods avrebbe vinto il premio, per cui Holowka è uno dei pochissimi sviluppatori ad aver vinto in due occasioni diverse, seppur all’interno di team differenti. Un altro developer che è riuscito a portare due suoi giochi alla vittoria è Lucas Pope.
L’ottenimento del premio è un bel boost per l’ego dei due sviluppatori, soprattutto considerando che Aquaria non era riuscito a trionfare all’interno di altre competizioni a cui era stato candidato. Ma c’è qualcosa che è probabilmente ancor più importante del premio. Aquaria vende bene. Ciò consente ad Holowka e a Yu di potersi dedicare a tempo pieno allo sviluppo di videogiochi. Una regola tanto banale quanto importante, quando si parla di “sostenibilità” dello sviluppo in ambito videoludico, è che un gioco non deve solo coprire i suoi costi, ma deve anche permetterti di realizzare il successivo, per poter essere un’attività sostenibile. Aquaria lo è, cosa che consente a Derek Yu di dedicarsi al suo progetto successivo senza troppe preoccupazioni. E questo progetto successivo è proprio lo Spelunky che lo renderà famoso. Forse, senza Aquaria, non sarebbe mai esistito nemmeno Spelunky. O sarebbe stato pubblicato anni più tardi.
Ricordiamo anche che è un periodo propizio, per piccoli videogiochi indie. Le piattaforme come Steam e Xbox Live Arcade cominciano a essere utilizzate con sempre maggior frequenza dai giocatori e questo consente la pubblicazione di videogiochi sperimentali, realizzati da piccoli team, che sarebbero stati scartati dai publisher retail. Per approfondire potete leggere la storia dei videogiochi indie, sempre qui su FinalRound. Come spesso succede in questi processi, non siamo davanti a un pulsante on/off ma a un divenire, a una trasformazione progressiva. Se tuttavia si volesse citare un rappresentante del cambiamento in corso è possibile indicare il successo ottenuto da Braid (2008) di Jonathan Blow. Aquaria è stato pubblicato un anno prima di Braid, in un contesto che già si sta preparando all’esplosione indie che si vedrà a breve.
All’interno del suo libro, Derek Yu rivela anche qualche aneddoto su Aquaria. Come il fatto che, durante il periodo dello sviluppo, Yu parlava con Holowka in continuazione, nonostante vivessero uno a San Francisco e uno a Vancouver. Frances, la moglie di Derek Yu, a distanza di anni scherza ancora sul fatto che il marito parlasse più con Alec Holowka che con lei, durante quei due anni di lavoro su Aquaria.
Nonostante l’intensa collaborazione con Holowka, dopo Aquaria i due decidono di portare avanti dei progetti differenti, pur restando in contatto. Alec Holowka lavora come compositore per le musiche di alcuni videogiochi e sviluppa Paper Moon (2008) con il team FlashBang Studios. Derek Yu, invece, si dedica a quello che diventerà il suo capolavoro: Spelunky.
Spelunky e la definizione di roguelike
Nel libro di Derek Yu c’è un interessante aneddoto legato al modo con cui viene etichettato Spelunky. Yu dice che, quando si trova davanti a persone che conoscono poco i videogiochi, descrive il suo Spelunky come una sorta di Super Mario. Questo perché Super Mario è uno di quei videogiochi di cui più o meno tutti hanno perlomeno un’idea vaga. E sicuramente Spelunky somiglia molto più a Super Mario che a Call of Duty, a Minecraft o ai Pokémon, per fare qualche altro esempio di videogiochi di grande successo che le persone conoscono almeno superficialmente.
In altri casi, quando l’interlocutore sembra un po’ più esperto, Yu dice che il suo Spelunky è un “platform con elementi roguelike”. Questa è una descrizione un po’ più precisa (Spelunky è effettivamente molto diverso da Super Mario, se si guarda oltre la prima impressione esterna), ma comunque non funziona sempre. Più che altro perché le persone hanno delle idee piuttosto diverse, su cosa sia un “roguelike”. Non che ci sia nulla di strano, in realtà. Dove più, dove meno, è qualcosa che si verifica in tutti i generi, videoludici e non solo. Ogni genere è un’etichetta che aiuta i parlanti a capirsi, a trasmettere una prima e generica idea di ciò che abbiamo davanti, ma il modo con cui ciascuna persona “riempie” quell’etichetta nella sua testa varia. Ricordo che Yu ha pubblicato il suo libro nel 2016, per cui queste sue considerazioni risalgono a ormai dieci anni fa. Un decennio di roguelike di successo (sebbene spesso ibridati con altri generi come il deckbuilder) ha probabilmente offerto una maggior standardizzazione.
In ogni caso, gli elementi che per Derek Yu costituiscono la base di un roguelike sono i seguenti: 1) generazione procedurale degli ambienti 2) permadeath e 3) un set di regole sulle interazioni fisiche che è condiviso dall’avatar, dagli NPC e dagli oggetti.
I primi due punti non generano un particolare dibattito: sono spesso indicati come gli elementi alla base di un rouguelike. Il terzo punto è da comprendere. Derek Yu sta dicendo che, nella sua prospettiva, in un roguelike si deve poter interagire con oggetti e personaggi nello stesso modo. Per cui, per esempio, se hai la possibilità di “raccogliere” o di “calciare” qualcosa, devi poter usare entrambi i comandi sia su un mostro sia su un oggetto.
Per capire questa sua posizione, bisogna osservare quelli che sono i suoi riferimenti, in termini di roguelike, risalendo indietro nel tempo rispetto alle attuali declinazioni del genere. Yu dice di aver giocato solo in un paio di occasioni all’originario Rogue (1980) che ha dato il nome al genere, ma da bambino si divertiva spesso con un videogioco similare: Hack (1982). Derek Yu ha giocato ad Hack più o meno nello stesso periodo in cui si dilettava con Super Mario Bros. sul NES dello zio. Anni più tardi, riflettendo su quell’esperienza infantile, si è detto colpito dal contrasto tra quei due giochi, che va a citare come “padri” del suo Spelunky. Rispetto a Super Mario Bros., Hack sembrava già allora un relitto del passato, visivamente parlando, ma aveva dalla sua una profondità enorme, sul fronte delle interazioni. Sembrava che gli sviluppatori avessero pensato a ogni interazione possibile con i vari oggetti e nemici presenti nel mondo di gioco. Provare strane combinazioni tra un’azione e un oggetto non produceva un semplice messaggio di errore o un “non posso farlo”, ma generava un risultato (magari inefficace, ma personalizzato e coerente). Per cui, quando Derek Yu parla di “roguelike”, bisogna ricordarsi che ha in mente esperienze come quella di Hack e della sua successiva evoluzione Nethack (1987).
Spelunky è, in effetti, una sorta di sintesi tra tutti i giovanili amori videoludici di Derek Yu, che è riuscito ad amalgamare ottimamente tra di loro delle esperienze molto diverse, laddove uno sviluppatore meno talentuoso avrebbe solo prodotto un mischione. In Spelunky c’è ovviamente molto Super Mario, così come è chiaro l’appena citato debito nei confronti dei roguelike alla Hack. Sul fondo perdura anche la sua riflessione maturata giocando a titoli come il primo The Legend of Zelda: non bisogna tenere il giocatore per mano, se si vuole che egli si goda una realtà avventura, ma bisogna lasciarlo esplorare un ambiente ostile in cui non ha molti punti di riferimento. Anche la sua visione trial and error, maturata con quello che definiva il “giusto” approccio ai cabinati arcade, finisce qui in Spelunky. Oltre a queste esperienze, che abbiamo già citato in precedenza, Derek Yu ha menzionato una serie di altri videogiochi che lo hanno ispirato. Tra questi possiamo ricordare La-Mulana (2006), Cave Story (2004), Rick Dangerous (1989), Spelunker (1983) e Aztec (1982).
Una cosa interessante di Spelunky, che rivela anche molto sul suo creatore, è che Yu non sembra inizialmente propenso a guadagnarci più di tanto. La prima versione del gioco viene pubblicata come freeware. Un gran numero di utenti inizia a giocarci e fornisce feedback a Derek Yu, che migliora costantemente il videogioco. Dopo un po’, Yu viene contattato da Jonathan Blow, il cui Braid sta vendendo un gran numero di copie. Blow consiglia di realizzare una versione di Spelunky per console, sfruttando il crescente successo degli store online come Xbox Live Arcade, che consentono agli indie di raggiungere nuovi pubblici monetizzabili. Spelunky arriva su Xbox 360 solo nel 2012, in una versione che è considerabile un vero e proprio remake dell’originale, considerando il numero di cambiamenti e migliorie.
L’anno successivo, questa versione remake arriva anche sulle console Sony e su PC. Spelunky vende un gran numero di copie, vince numerosi premi e riceve anche un ottimo boost dal crescente successo degli youtuber. Vista l’elevata difficoltà del gioco, le run tutte diverse e la presenza di un gran numero di segreti, Spelunky è perfetto per il nascente ecosistema del gaming su YouTube di quegli anni.
Chiudere il cerchio videoludico
Dopo Spelunky, l’attività di Derek Yu sembra diradarsi. È ben comprensibile: deve stare dietro al videogioco che lo ha portato al successo. C’è sempre un porting da realizzare, una nuova patch da pubblicare e molto altro ancora. Anche il libro che scrive – e che abbiamo più volte citato – è legato a Spelunky. Nonostante ciò, ogni tanto salta fuori qualche altro progetto. Uno di questi, curiosamente o forse no, non è un videogioco, ma un gioco di carte: Time Barons. Ci lavora insieme a Jon Perry, il vecchio amico con cui aveva realizzato Diabolika ed Eternal Daughter. Time Barons è un gioco per due giocatori, che possono salire a tre o quattro se si possiede anche l’espansione. Online si trova un video in cui lo stesso Jon Perry spiega il funzionamento del suo gioco. Le copie della prima versione di Time Barons vengono esaurite piuttosto in fretta, ma Jon Perry dice (anche in uno dei commenti al video tutorial) di essere molto impegnato e non avere troppo tempo da dedicare al progetto. E Derek Yu ne ha probabilmente ancora meno. Qualche anno più tardi, comunque, Time Barons torna in versione print on demand, a cui si aggiunge in seguito la possibilità di scaricare gratuitamente il set di carte, per poterselo stampare. Tutto ciò che Jon Perry chiede in cambio è di lasciare la propria email.
A parte questa parentesi di Time Barons, Derek Yu è ben focalizzato su Spelunky, di cui inizia anche a realizzare il seguito, Spelunky 2 (2020). In questo caso si fa aiutare da BlitWorks, una compagnia spagnola specializzata nei porting, con cui aveva già collaborato per la versione PlayStation 3 del primo Spelunky. Delegando a loro la programmazione, Yu può focalizzarsi meglio sulle altre parti del gioco. Nella sua personale “filosofia” di sviluppo, il seguito di un videogioco deve offrirti qualcosa in più del predecessore, senza andare a stravolgerlo radicalmente. Ecco quindi che promette (agli altri e a sé stesso) che Spelunky 2 non tradirà la formula del primo gioco. Si potrebbe anche rispondere che sarebbe sciocco farlo, visto il successo ottenuto, ma la storia del medium videoludico è costellata di progetti meravigliosi che si perdono per strada, per le ragioni più disparate. Tra gli aspetti che Yu espande c’è la lore del mondo di gioco, attraverso una serie di dettagli che aiutano il giocatore a sentirsi immerso in un mondo vibrante e pieno di misteri. Siamo negli anni in cui la formula di FromSoftware con i suoi Dark Souls e dintorni è ben nota e consolidata, ma non serve certo scomodare le opere di Hidetaka Miyazaki, come fonte di ispirazione. Derek Yu sta ritornando ancora una volta alle fondamenta della sua “carriera” videoludica, tra cui il primo The Legend of Zelda. Verrebbe da dire che, davvero, era già tutto lì dentro quel che si sarebbe poi visto in moltissimi giochi basati sull’idea di farti vivere un’avventura in un mondo ostile ma affascinante, da decodificare poco alla volta. Magari non ce ne rendiamo subito conto perché abbiamo assistito a dei percorsi evolutivi paralleli, con velocità differenti, ma tante ispirazioni videoludiche hanno una storia piuttosto antica (antica per quella che è la storia del medium, si intende).
L’affetto provato da Derek Yu verso i videogiochi degli anni ’80 emerge ancor più in un altro suo progetto, al quale aveva iniziato a lavorare nel 2016, insieme all’amico Jon Perry. Questo progetto è anche una delle ragioni per cui – come detto più su – Perry ha detto di esser troppo impegnato per poter stare dietro a Time Barons. Egli stava infatti lavorando a quello che è poi diventato Ufo 50 (2024): una raccolta di cinquanta differenti videogiochi, che si fa finta siano stati pubblicati durante gli anni ’80.
L’idea è partita da un brainstorming come tanti. Yu e Perry volevano realizzare qualche altro progetto insieme, per cui hanno cominciato a buttare giù un po’ di idee e prototipi. Guardando quegli embrioni videoludici, Yu si rende conto che – pur essendo delle idee curiose – avrebbero ben poche possibilità sul mercato attuale, che si è sempre più evoluto e sofisticato. Ma dove un singolo videogioco fallirebbe, una compilation potrebbe avere forse successo. L’unione fa la forza. E questo non vale solo per i videogiochi, ma anche per chi li crea. Ben presto, infatti, Yu e Perry coinvolgono altri sviluppatori nel loro peculiare progetto. Il primo ad aggiungersi è Eirik Suhrke, compositore e game designer norvegese che aveva già lavorato con Yu per la colonna sonora di Spelunky. I tre si sentono costantemente e buttano giù un gran numero di idee per diversi videogiochi. In seguito la squadra si allarga a Ojiro Fumoto, Paul Hubans e Tyriq Plummer. Tutti loro hanno già esperienza nel mondo indie.
Nonostante l’entusiasmo del gruppo, Ufo 50 ha uno sviluppo lungo e travagliato per diverse ragioni. Una di queste è, come facilmente intuibile, Spelunky 2, che richiede di essere seguito con costanza da Yu (e anche da Eirik Suhrke, per la colonna sonora). Pur con numerosi ritardi e qualche incidente di percorso, comunque, Ufo 50 vede infine la luce nel 2024.
Si può dire che, con Ufo 50, Derek Yu abbia chiuso un cerchio. È un duplice ritorno alle origini, per lui. Da un lato, recupera infatti quelli che sono stati i suoi primi passi come sviluppatore di videogiochi, per esempio con il rifacimento di Diabolika (che qui ritorna col nome Devilition). Dall’altro lato, questa operazione è un modo per ripensare ai videogiochi della sua infanzia, quelli che lo hanno formato. In tutti i progetti di Yu c’è molto di quel bagaglio. Lo si è visto soprattutto parlando di Spelunky. Quel gioco non è nato dal nulla, è frutto di una lunga meditazione sulle esperienze di gioco giovanili, unite in una sintesi. Qui con Ufo 50 vengono nuovamente scomposte, proprio come un fascio di luce bianca in un prisma.
Ora che il cerchio è chiuso, resta da vedere quale sarà la prossima mossa di Derek Yu. Si inventerà qualche nuovo modo per invitare i giocatori ad avventurarsi in qualche difficile e misteriosa avventura? Solo il tempo potrà dirlo. Ma per sicurezza, nell’attesa, conviene tornare a rigiocarsi il primo The Legend of Zelda: potrebbe essere ancora una volta la giusta chiave di lettura per approcciarsi ai suoi futuri progetti.
Pubblicato il: 04/07/2025
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