GDC 2024

PRESERVAZIONE E STUDIO DELLA STORIA DEL VIDEOGIOCO

Intervista a Phil Salvador della Games History Foundation

Alla Game Developers Conference 2024, ho avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Phil Salvador, library director presso la Video Game History Foundation, per farmi raccontare quale percorso l’abbia portato a quella posizione e approfondire un po’ l’attività svolta dalla sua organizzazione no profit. Nata a febbraio 2017 per mano di Frank Cifaldi, la Video Game History Foundation si è fatta notare negli anni per tutta una serie di attività legate alla preservazione, che sono andate dal riesumare prototipi mai pubblicati, come quello della realtà virtuale per Mega Drive, al raccogliere materiali e documentazioni disperse, passando per lavori di analisi dietro le quinte come la spettacolare esplorazione del codice sorgente di The Secret of Monkey Island condotta assieme a Ron Gilbert. Salvador è arrivato al suo ruolo nell’organizzazione seguendo un percorso abbastanza naturale, che mi ha raccontato: “Sono un bibliotecario professionista, lavoravo in una biblioteca a Washington DC in cui mi occupavo di preservare DVD e altri medium. Ma ero anche uno storico del videogioco, per diversi anni ho gestito un blog chiamato The Obscuritory, in cui scrivevo di vecchi videogiochi inusuali.” Quando Frank Cifaldi ha fondato la Video Game History Foundation, ha iniziato ad accumulare materiale e, dopo qualche anno, il bisogno di avere qualcuno che si occupasse di gestire e catalogare questo materiale per renderlo accessibile alla gente è diventato prioritario. “E se ne facciamo una questione di avere esperienza da bibliotecari professionisti e conoscere bene l’ambito della storia dei videogiochi,” mi ha detto Salvador, “io ero il primo della lista. Spesso ci si chiede come si possa iniziare a lavorare nel settore dei videogiochi e io mi sono sostanzialmente creato la mia opportunità, trovando un punto di contatto fra le due parti della mia vita.”

Phil Salvador è noto nei meandri di internet anche per aver creato un sito dedicato a Final Fantasy VIII e alla frustrazione nei confronti di, parole sue, "un accanimento secondo me ingiustificato nei confronti di un gioco che amo molto.” Ma questa sua attività è interessante anche per come si ricollega all’attività svolta dalla fondazione, perché l’idea alla base della sua attività non è collezionare i giochi: “La gente può recuperarli in altri modi, comprandoli o, francamente, piratandoli. Secondo noi, l'ambito in cui c'è un grosso deficit è quello del contesto storico, degli strumenti per capire come i giochi vengano percepiti, come ci si giochi, come vengano sviluppati. E infatti ci piace dire che noi raccogliamo il contesto.” Basta guardarsi attorno e osservare la mostra organizzata dalla Video Game History Foundation sul piano espositivo della Game Developers Conference: “Qui nella nostra area in fiera abbiamo alcuni esempi, fra codici sorgente, comunicazioni da parte dei publisher, volantini di fiere... E pensiamo che avere a disposizione questo genere di materiale aiuti a capire i giochi molto più di avere solo il gioco.” Il punto, mi ha spiegato, è “inserire le cose in un contesto più ampio per raccontare cosa stesse accadendo nel settore dei videogiochi quando quei giochi venivano sviluppati, quali altri giochi fossero al centro dell'attenzione, cose del genere.”

Ma tutto questo come si manifesta al di fuori di un contesto fieristico? La sede della Video Game History Foundation è piuttosto piccola e, pur contenendo una piccola biblioteca con materiale organizzato su scaffali, non offre (ancora) esibizioni pubbliche o uno spazio dedicato alla ricerca. Sotto questo punto di vista, il lavoro da fare è ancora tanto e va di pari passo con la crescita dell’organizzazione e il capire quale servizio vogliano offrire esattamente. Pur occupandosi di organizzare mostre a eventi come appunto la GDC o altre fiere dedicate espressamente al retrogaming, la fondazione punta soprattutto a “fare da punto di accesso per storici e persone che vogliono studiare la storia del videogioco. In quanto direttore della biblioteca,” mi ha spiegato Phil, “il mio compito primario è la costruzione della nostra libreria digitale, che auspicabilmente saremo in grado di lanciare nei prossimi mesi. Si tratta di una piattaforma da cui la gente potrà accedere a materiali che stiamo catalogando e digitalizzando. Del resto, cercare informazioni sui videogiochi tramite metodi digitali è già la norma e per questo vogliamo organizzare un modo per portare le risorse a chi ne ha bisogno, invece di costringere le persone a raggiungerci a Oakland per leggere un documento o due.”

l'ambito in cui c'è un grosso deficit è quello del contesto storico, degli strumenti per capire come i giochi vengano percepiti, come ci si giochi, come vengano sviluppati

Allo stato attuale, quindi, l'obiettivo dell'organizzazione rimane soprattutto capire come far arrivare alla gente i materiali e come educare le persone sulla storia del videogioco, certamente continuando a organizzare esposizioni, ma anche creando un punto d’accesso digitale. E qui sorgono alcuni problemi: “Da un lato, quando si parla di materiali rari dietro le quinte dello sviluppo, decidiamo caso per caso come comportarci. Per esempio, le comunicazioni scritte di un publisher possono essere rese disponibili senza problemi. Ma allo stesso tempo, uno sviluppatore ci ha fatto una donazione che includeva un backup di tutte le email dell'azienda e non me la sento di diffondere quel materiale. Se un ricercatore ne ha bisogno, ce l'abbiamo a disposizione, ma in un ambito chiuso e controllato. E lo stesso vale per i codici sorgente: sono un po' l'ingrediente segreto nello sviluppo di un videogioco e gli sviluppatori non sono sempre a loro agio con l'idea di renderli disponibili a tutti.”

Ma un altro ambito su cui la fondazione ha lavorato molto è la catalogazione delle riviste di videogiochi. Come sanno gli appassionati del tema, spesso si manifestano online intere collane di vecchie riviste cartacee caricate dagli appassionati, ma altrettanto spesso chi ne detiene diritti si muove per farle sparire. La Video Game History Foundation ha raccolto qualcosa come settemila diverse riviste e si sta occupando di digitalizzarle ma anche di provare a creare un sistema durevole e focalizzato sul lavoro degli storici. “Lavoriamo con degli avvocati per capire come possiamo presentare questo materiale e renderlo utilizzabile in una maniera che sia possibile difendere, eventualmente anche in tribunale, sostenendo che si tratti di uno strumento di ricerca. Vedremo come andrà ma siamo ottimisti, penso che la nostra posizione in termini di fair use sia molto solida, proprio nell'ottica di rendere questo materiale disponibile per i ricercatori, in un contesto dedicato.” 

Questo lavoro viene però portato avanti principalmente sulle riviste statunitensi, un po’ per questioni di barriera linguistica (“So che esistono molte riviste di videogiochi italiane, ma diciamo che vanno un po' al di là della nostra sfera di competenza.”), un po’ per questioni pratiche: “A volte capita di trovare su eBay collezioni di riviste britanniche, e le acquisiamo molto volentieri. Ma andare a recuperare numeri singoli di riviste dall'altra parte dell'oceano non ha molto senso sul piano economico.” Ma è importante limitare l’ambizione del progetto per assicurarsi che non vada fuori controllo, e infatti il focus rimane sulle riviste di videogiochi, includendo quelle più puramente dedicate all’informatica solo quando dedicano ampia copertura al gaming. E no, niente raccolta e catalogazione dei tweet degli sviluppatori.

Di recente, ha fatto parlare di sé uno studio condotto proprio da Phil Salvador, secondo cui circa il 13% dei videogiochi pubblicati negli USA prima del 2010 non è disponibile per l’acquisto da nessuna parte (Su Final Round ne ha scritto Andrea Sorichetti in questo articolo). Molti hanno fatto notare che dal punto di vista degli appassionati si tratta di un falso problema, perché, inutile girarci attorno, la preservazione del videogioco viene in larga misura portata avanti dalla scena dell’emulazione e dalla pirateria. Ma si è trattato comunque di uno studio importante dal punto di vista della comunicazione con i grossi publisher: “Il motivo per cui è un problema è il fatto che la solidità del mercato focalizzato sul retrogaming è piuttosto fraintesa. A noi piace fare un confronto fra videogiochi e cinema: oggi come oggi, una quantità enorme di film degli anni Ottanta è disponibile in Blu-Ray, DVD, streaming, video on demand... Se parliamo di videogiochi, molte persone, anche dirigenti di alto livello per i publisher più grandi, sono convinti che la situazione sia paragonabile, ma chi lavora quotidianamente nell'ambito del retrogaming, così come chi si occupa di storia e, banalmente, chi ama giocare ai classici del passato, sa perfettamente che la situazione è problematica e lo è da parecchio tempo.” Servivano però delle cifre precise da poter utilizzare nella discussione senza limitarsi all’aneddotica, cifre utilizzabili anche come argomenti sul piano legale.

Negli Stati Uniti esiste infatti una procedura tramite la quale è possibile richiedere eccezioni alla legge sul diritto d’autore e la Video Game History Foundation sta “lavorando per ottenerne una in relazione alla preservazione dei videogiochi e permettere alla gente di accedere in remoto a librerie basate sull'emulazione tramite browser. Il settore dei videogiochi ha sempre risposto a questo genere di iniziative dicendo che fa un ottimo lavoro nel rendere disponibili i cataloghi del passato, che ci sono servizi come Nintendo Switch Online e le riedizioni. Ma non è vero e ora abbiamo i numeri per dimostrarlo.” Lo studio nasce quindi proprio con questa esigenza, tant’è che durante i giorni della Game Developers Conference 2024 la fondazione ha inviato i materiali per la prossima fase della procedura e ad aprile Phil Salvador stesso dovrà testimoniare di fronte al governo. “Volevamo poter dire che no, su larga scala, quello che viene fatto con PlayStation Plus o qualsiasi altro servizio di quel tipo non è rappresentativo dei videogiochi come medium.” 

Si tratta di un tema delicato anche perché ci sono svariate barriere che ostacolano la diffusione e consultazione di videogiochi del passato, a cominciare dalla difficoltà nel far funzionare i giochi vecchi sull’hardware moderno. Ma ci sono anche molti problemi di diritti che contribuiscono a fare sì che ripubblicare questi giochi non possa essere profittevole. “Ci sono situazioni in cui gestire i problemi di diritti e le complicazioni legali attorno alla ripubblicazione di un gioco può costare centomila dollari,” mi ha spiegato Salvador. “Si parla magari di un titolo sconosciuto per Commodore 64 che non interessa davvero più a nessuno. Un gioco del genere non verrà mai ripubblicato, perché non vale il tempo e i soldi delle aziende che ne detengono i diritti. E noi è qui che spingiamo, diciamo a queste grandi aziende che loro fanno un gran lavoro nel preservare il 13% dei videogiochi ma a noi preoccupa il restante 87%. Vogliamo modificare la legge per rendere più semplice il lavoro di ricerca senza dover ricorrere alla pirateria.”

Il settore dei videogiochi ha sempre risposto a questo genere di iniziative dicendo che fa un ottimo lavoro nel rendere disponibili i cataloghi del passato, che ci sono servizi come Nintendo Switch Online e le riedizioni. Ma non è vero e ora abbiamo i numeri per dimostrarlo.

Lo studio è stato condotto collaborando con lo staff tecnico di MobyGames, che ha estratto dal proprio database un campione di 1500 titoli usciti negli USA prima del 2010. Da lì, si è condotta una ricerca trasversale ma che è andata anche a focalizzarsi su tre piattaforme specifiche che offrono tre casistiche differenti. I giochi per PlayStation 2, che vengono ripubblicati abbastanza spesso, quelli per Game Boy Advance, molto meno accessibili, soprattutto dopo la chiusura delle Virtual Console, e quelli per Commodore 64, sostanzialmente condannati all’oblio. I risultati sono piuttosto scoraggianti: “in tutti e tre i casi, la percentuale di giochi disponibili oggi era molto bassa, sempre sotto al 13%.” Sono cifre paragonabili alla reperibilità delle registrazioni audio precedenti alla Seconda Guerra Mondiale o al cinema muto americano. Chiaramente, la casistica è molto variabile: se il Commodore 64 si piazza su un terrificante 4.5%, le percentuali sul fronte PC/DOS sono probabilmente ben più alte, perché basta infilare il gioco in DOSbox e ripubblicarlo su Steam. È quindi un tema su cui è possibile effettuare altri studi e indagini più approfondite, anche per ragionare su quali piattaforme meritino più lavoro per l’inclusione in un museo: “Vale la pena di spendere un milione di dollari per mettere assieme una raccolta completa dei giochi usciti su Nintendo 64? Magari è più interessante concentrarsi su macchine dalla minore reperibilità.” 

Ma il focus della fondazione, come detto, rimane soprattutto sul contesto, sullo studio storico del settore, più che su quello specifico dei giochi, e infatti, nel momento in cui chiedo a Phil Salvador come sia possibile aiutarli al di là delle donazioni, ci sono due risposte. “Se sei uno sviluppatore, quel che diciamo sempre è di mettere le tue cose in una scatola. Se hai dei materiali, conservali. Quello che stai facendo nel settore dei videogiochi è parte della sua storia. Quello che oggi vedi solo come il tuo lavoro quotidiano domani diventerà storia.” Phil mi sottopone come esempio la presenza, all’interno dell’esposizione della GDC, del gioco Where in North Dakota is Carmen Sandiego?, accompagnato da delle guide educative che vennero pubblicate da Broderbund: “È passata una persona che ci ha detto di averle scritte quando lavorava in Broderbund. Il suo lavoro, oggi, è storia, viene esposto in una teca.”

Ma anche la comunità dei videogiocatori può fare molto documentando i propri spazi e il modo in cui si gioca: “Se partecipi a una serata di una comunità di appassionati di picchiaduro, scatta delle foto, documenta i partecipanti, i giochi su cui si sono sfidati, così fra trent'anni avremo una rappresentazione di quella comunità.” Tra l’altro, il passo dal multiplayer locale al gioco online è breve e su questo tema Phil Salvador ha le idee chiare: “Dobbiamo farcene una ragione, non è possibile preservarlo.” Non è solo una questione di limiti tecnici, il fatto è che la comunità di giocatori è parte integrante del gioco. Possiamo conservare la versione finale di Fortnite, ma studiarla “non trasmette il racconto di averlo visto crescere, diventare un fenomeno culturale, e tutto ciò che col passare degli anni vi è stato aggiunto.” Il paragone più diretto è quello con lo sport, perché ovviamente non si può congelare una squadra di campioni per infilarla in un museo, però è possibile documentare le partite, i punteggi e cosa è successo ai giocatori, si possono fare interviste e possiamo archiviare i filmati delle partite, puoi intervistare le persone, puoi catalogare i video delle partite. “Dobbiamo iniziare a pensare ai servizi online nella stessa maniera, documentare l’esperienza di come la gente vi interagisce, invece di cercare di resuscitare i giocatori per provare a rivivere l’esperienza stessa.” Il che è anche un buon modo per chiudere la chiacchierata ricollegandoci al tema affrontato in apertura, vale a dire la preservazione della copertura mediatica. Fra vent’anni, potremmo avere un World of Warcraft o un Eve Online perfettamente funzionanti ma, magari, completamente vuoti. E se anche fossero ancora pieni di giocatori, sarebbero completamente diversi da quelli di oggi o di vent’anni fa. La loro storia sarà invece documentata dai materiali di riferimento, come per esempio la raccolta quasi integrale della rivista ufficiale di Eve Online che si trova proprio negli archivi della Video Game History Foundation.

Pubblicato il: 28/03/2024

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7 commenti

Una cosa che sembra cosi ovvia se uno ci pensa ma, leggendo l'articolo, ti chiarisce l'intero funzionamento: super interessante.

Trovo incredibile come l'industria videoludica sia costantemente proiettata solo verso il futuro e si ricordi di rado del suo passato. Credo sia una caratteristica unica che non vedo in molti altri settori industriali dove invece si cerca di dare con …Altro... Trovo incredibile come l'industria videoludica sia costantemente proiettata solo verso il futuro e si ricordi di rado del suo passato. Credo sia una caratteristica unica che non vedo in molti altri settori industriali dove invece si cerca di dare continuità alla storia aziendale di un produttore tramite musei o riedizioni dei classici del passato, in quella videoludica invece la preservazione è perseguita per lo più da iniziative private del tutto slegate dalle aziende che addirittura la ostacolano e perseguitano legalmente.
Senza contare poi che in modo del tutto ipocrita le stesse software house hanno usato emulatori e ROM create da chi perseguono legalmente per lucrarci sopra con le miniconsole.

Bellissimo artico su un tema a me molto caro!
E sono d'accordo sul fatto che ormai la preservazione del videogioco viene portata avanti soprattutto dalla pirateria e non dalle aziende stesse; ricordo ancora la collezione di giochi e software pirata …Altro...
Bellissimo artico su un tema a me molto caro!
E sono d'accordo sul fatto che ormai la preservazione del videogioco viene portata avanti soprattutto dalla pirateria e non dalle aziende stesse; ricordo ancora la collezione di giochi e software piratati Twilight che girava negli anni '90-2000. Io che ancora ne possiedo qualche copia sparsa trovo giochi che sui vari rivenditori Steam/GOG etc. non trovi minimamente.
Iniziative come quelle di GameHistory fanno solo il bene di questo medium.

P.S: Ti segnalo che sull'hyperlink di " un sito dedicato a Final Fantasy VIII" porta nuovamente alla pagina di Monkey Island ;)

Bell'articolo.
Preservare questo mondo, creerà nuove idee.

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