RECENSIONE
Più passano i giorni, più mi rendo conto che Somerville è un videogioco che ha davvero poco da dire.
L’opera prima del team Jumpship si macchia forse di una delle colpe più grandi per un titolo che vorrebbe far leva sull’aspetto sentimentale ed emotivo: ti scivola addosso senza lasciare traccia, inconsistente, senza farti affezionare ai suoi personaggi. Senza farti empatizzare, insomma, con il dramma di una famiglia e di un padre, sullo sfondo di un grande disastro che l’umanità si trova ad affrontare. L’incipit della storia, da questo punto di vista, è il momento più riuscito: un brano dalle sonorità malinconiche e inquiete accompagna un’auto lungo tortuose strade di campagna, fino a una casa isolata. È una scena di quotidianità spicciola, l’ennesima di una vita piana e regolare… forse felice proprio per questa sua disciplinata normalità. Ma c’è qualcosa di nervoso, nelle vibrazioni della musica, nel rumore bianco di una TV che perde improvvisamente il segnale: la traccia impalpabile di un cataclisma cosmico che di lì a poco sconvolgerà le vite di tutti. Le premesse narrative di Somerville sono simili a quelle di tanti altri racconti che hanno inquadrato la fantascienza da un punto vista privato e personale: da La Guerra dei Mondi a Signs, le fonti di ispirazione del gioco si sprecano, nella storia del cinema e della letteratura di genere. La vita del protagonista viene scombinata da una guerra spaziale, combattuta sul territorio terrestre, che lo separa dalla sua famiglia.
È però meglio specificare che il racconto di Somerville resta sempre criptico, mai esplicito: non c’è né testo né dialogo, nessun elemento che spieghi chiaramente quello che succede. Non è chiaro chi siano gli invasori, da dove arrivino le lugubri navi aliene che macchiano il cielo con la loro sagoma geometrica, da obelischi neri. Non si sa se per contrastare questa incursione sia stata mobilitata una divisione segreta dell’esercito, dotata di tecnologie sperimentali e preparazione militare. Il giocatore deve interpretare, farsi un’idea, ma la storia rimane misteriosa e insondabile. Si capisce, anche da questi dettagli oltre che dalla struttura dell’avanzamento, che Dino Patti – game director di Somerville – si sente molto vicino alla poetica dei suoi precedenti lavori, ovvero Limbo e Inside.
Ecco: Dino Patti è uno di quei creativi che un segno sul mercato dei videogame l’ha lasciato eccome. Co-fondatore di Playdead ed ex-direttore creativo del team danese, ha contribuito prima a ridare slancio allo sviluppo indipendente, poi a fissare i lineamenti di un genere che chiamerei “platform cinematico”, che di tanto in tanto si ripresenta sul mercato. Tra i “figli” di Inside mi viene ad esempio da citare Little Nightmares, sebbene non raggiunga mai le stesse vette di ispirazione. Somerville, in realtà, si allontana un po’ dalle produzioni di Playdead e fa un passo in direzione degli albori del videogame, cercando di replicare alcune delle suggestioni di Another World, che il team cita apertamente come uno dei progenitori del proprio titolo d’esordio. E in effetti in Somerville la regia gioca con campi più aperti, i movimenti di camera cercano un respiro più ampio, e l’esperienza si concentra non tanto su corse disperate e salti precisi, quanto su enigmi e interazioni ambientali. Insomma, Somerville vorrebbe rifare – o meglio ammodernare – proprio quelle che un tempo si chiamavano “cinematic adventure”.
Ed eccolo che ritorna, questo termine – cinematico, applicato a tutti i lavori su cui Dino Patti ha messo la sua firma. Mi sono chiesto quale fosse la caratteristica che si vuole sottolineare con questa definizione, e penso che si tratti di un senso di fluidità e morbidezza a suo modo “filmico”. Non c’entrano fotografia e recitazione, quanto più la capacità dell’avventura di procedere senza strappi, scorrevole e coerente dall’inizio alla fine: senza interfacce o menù, senza documenti e oggetti da collezionare, e insomma senza quegli elementi extradiegetici che sono tipici del videogame e che fin dalle sue origini lo hanno appunto distinto da altri media. È importante che dei team pensino ancora oggi a produzioni di questo genere, raccogliendo una delle sfide più complesse che il videogioco possa presentare, ma c’è da dire che a Somerville l’illusione di coesione e unitarietà sfugge totalmente. Un po’ perché il codice di gioco è sporco e male ottimizzato, un po’ perché le interazioni fisiche tra oggetti e personaggi risultano impastate, imperfette. I movimenti del protagonista hanno un’inerzia strana, sembrano impacciati, imprecisi.
Non è però questa la colpa più grande di Somerville. Così come non lo è la sua estetica efficace solo a tratti, che incuriosisce durante le prime battute ma diventa presto un po’ trita e poco memorabile. Riemersi dalla casa dopo la catastrofe posiamo lo sguardo su misteriose scorie poligonali, resti inermi di una materia aliena, magmatica e proteiforme. E poco più avanti avremo a che fare, per pochi istanti, con raggi violacei che sondano impietosamente il terreno, con violenza, sollevando oggetti e persone senza nessuna cura. È un peccato che questi momenti a loro modo memorabili si esauriscano in fretta, e che l’impianto estetico di Somerville venga poi integralmente ricondotto ad un discorso cromatico sulla luce che oscilla dall’azzurro al violetto. Gli elementi su cui è però dura soprassedere riguardano la struttura del gioco e la debolezza del racconto. Somerville si divide sostanzialmente in tre atti: c’è una fase introduttiva che getta le premesse della storia, una conclusione che accelera fino a diventare persino fumosa, e un momento intermedio che sembra indipendente e slegato dal resto. Si percepisce che questa sezione centrale, ambientata nelle tetre gallerie di una miniera, è quasi appiccicata a forza a quello che le sta intorno: non fa evolvere il racconto, e anzi quando la storia deve ingranare il team decide allontanarsi in maniera molto drastica dall’ambientazione sotterranea, con un espediente narrativo che risulta fra l’altro poco elegante.
Se dovessi ipotizzare perché Jumpship abbia deciso di inserire questi momenti, direi anzitutto per estendere l’esperienza facendola arrivare fino alla soglia delle tre ore, facendo in modo che il suo prodotto abbia un valore anche quantitativo. Ma soprattutto penso che la parte centrale abbia la funzione di amplificare un po’ il senso di sfida, visto che include gli enigmi più stimolanti e complessi dell’avventura. Questi puzzle ambientali risultano anche brillanti in un paio di occasioni, ma sono del tutto scollegati dal resto dell’esperienza, che invece procede mettendo in disparte la dimensione più ludica per focalizzarsi sulla narrazione.
Non che le cose vadano meglio: l’ultima parte della storia si tuffa pienamente nel filone della fantascienza intimista, inseguendo le tematiche di Arrival, del finale di Interstellar o di quello di 2001: Odissea Nello Spazio. Immaginando cioè che negli spazi insondabili del cosmo si nascondano anche i segreti del tempo e della materia: sognando che sia possibile spezzare la linearità del tempo per piegarlo su se stesso, e muoversi su un percorso circolare che unisce l’inizio e la fine della nostra vita; e ancora fantasticando sulla possibilità che ci si possa spostare dall’infinitamente grande – cioè dai recessi più cupi dell'universo – all’infinitamente piccolo, penetrando all’interno delle cose fino a percepirne le geometrie molecolari.
Per quanto affascinanti possano essere certe suggestioni, Somerville le tratta in maniera inconsistente, frettolosa e canonica, senza aggiungere davvero niente al discorso sulla fantascienza di confine.
Dino Patti, dicevamo, è uno che il suo segno l’ha lasciato eccome, nel mondo dei videogiochi. L’ha fatto assieme ad un team di sviluppatori e di creativi che ha supportato e fatto fiorire la sua visione. Tracce di questa poetica, ancora oggi rara e preziosa, emergono tra le mutevoli scorie di Somerville. Ma restano schiacciate sotto il peso di un racconto intangibile: una storia che vuole parlare di guerra, di famiglia, di universo, ma lo fa con poca originalità e con poco sentimento. Data la sua brevità, e qualche momento di sincera ispirazione in quanto ad enigmi, atmosfera ed estetica, Somerville si lascia giocare agevolmente. Visto che il genere non è di quelli troppo “logorati” dal mercato, dategli un’occasione: alcune delle suggestioni nascoste nel suo criptico simbolismo potrebbero affascinarvi, e sarà piacevole scoprire le trovate di una regia a suo modo “operosa” e dinamica, che utilizza la telecamera con grande consapevolezza. Avevo sperato in un esordio migliore per Jumpship, uno di quelli capaci di lasciare il segno come Limbo fece dodici anni fa. Ci tocca invece un titolo dimesso, sperando che il futuro del team possa essere ben più radioso.
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