L'ODISSEA DI KRATOS
Un'avventura inesauribile, traboccante di personaggi, di storie, di eventi. Un poema epico interattivo, con scontri indimenticabili ma senza la forza emotiva del precedente capitolo.
Non è facile raccontare God of War Ragnarok, razionalizzare i pensieri al termine dell’apocalisse norrena che Kratos ha scatenato sui Nove Regni. Intanto perché bisogna tirare le fila di una quantità impressionante di storie, di eventi, di personaggi e miti: Ragnarok è un titolo dall’estensione titanica, pensato per superare in quantità il suo predecessore schiacciandolo sotto il peso di un’avventura che pare inesauribile. Eppure la sfida più complessa non è tanto dare ordine alle situazioni messe in scena da Santa Monica Studio, quanto invece spiegare la coesistenza di due distinte sensazioni: da un lato l’esaltazione per i combattimenti furiosi e stimolanti, per l’esplorazione sempre partecipe e il senso di progressione; dall’altro invece il rimpianto per una storia e una scrittura che non riescono, se non in rari momenti, a raggiungere l’intensità emotiva, il ritmo e la compiutezza del precedente episodio.
Partiamo da quest’ultimo aspetto, che potrei definire più sfumato e sottile, anche se immediatamente percepibile. Il cambio alla direzione del progetto, passato dalle mani di Cory Barlog a quelle di Eric Williams, ha determinato un mutamento evidente nei toni della narrazione.
Da una parte era inevitabile: lo scorso God of War si focalizzava sul rapporto fra Kratos e Atreus, e a partire da questi due personaggi raccontava le sfide della paternità, la fatica nel superare un lutto e quella di convivere con le cicatrici di un passato silenzioso ma onnipresente.
Dandosi il compito e l’ambizione di esporre il destino ultimo degli Dei e dei regni del Nord, Ragnarok non poteva avere la stessa focalità, anche solo per la necessità di misurarsi con una mole colossale di divinità ed eventi, accalcati nei versi dell’Edda poetica e nei testi delle saghe scandinave.
Se l’obiettivo era quello di creare un racconto corale e onnicomprensivo - una sorta di enciclopedia dei miti nordici - Ragnarok l’ha svolto con grande e rigorosa attenzione, anche se allentando un po’ troppo i criteri di selezione.
Il capitolo precedente proponeva una reinterpretazione molto elegante del materiale mitologico alla base del racconto, mentre in questo caso si sprecano – tra calderoni magici, oggetti senzienti e scoiattoli parlanti – le incursioni di elementi più eterogenei e fiabeschi.
Alle volte ho trovato un po’ disarmante questo abbassamento di tono, che mal si sposa invece con l’eccezionale rilettura che è stata data di certe figure centrali del mito: l’ossessione di Odino per il sapere e la conoscenza, la disperata indomabilità di Thor, e più in generale le sfumature caratteriali della stirpe di Ásgarðr, sembrano uscite da una penna diversa rispetto a quella che ha scritto tanti personaggi secondari più evanescenti e superficiali. È una fortuna che riaffiori, a intervalli regolari, quella stessa attenzione con cui erano stati caratterizzati Baldur e Freya, estesa ad esempio ad Atreus – o meglio a Loki! – che seguendo la sua natura si riscopre una figura duplice, dedita agli inganni e custode di molti segreti. Avrei insomma gradito un po’ meno oscillazioni qualitative, su questo fronte… o forse una diversa selezione, più misurata. In qualche caso mi sono chiesto se questo avvicendamento di figure più o meno riuscite non sia legato alla scelta di unire in un solo gioco una quantità di materiale che ne avrebbe potuti reggere due. Senza tutto questo addensarsi di scene e soggetti, qualche linea narrativa avrebbe forse avuto modo di brillare di più. Oppure si doveva tagliare in maniera più netta, decisa; anche se non è mai facile lasciar andare il frutto del proprio lavoro creativo.
La moltitudine di ambienti, di bestie, di luoghi e di dei - di storie ora grandi ora infinitesimali - ha anche degli aspetti che personalmente ho trovato affascinanti. A un certo punto mi è sembrato di trovarmi di fronte alla versione interattiva di un grande poema epico, in cui ogni libro narra una storia diversa, in un luogo nuovo e misterioso. Persino la scansione narrativa Ragnarok recupera questa struttura, fatta di capitoli autonomi che alle volte neppure comunicano tra loro: più che una storia, Ragnarok insegue un senso di avventura, un viaggio traboccante di tappe inaspettate. Sia chiaro: in queste fasi ci sono anche momenti toccanti, scene visivamente meravigliose, attimi di sincera introspezione e panorami indelebili. Ma un approccio del genere ha anche degli effetti sul ritmo, che per buona parte del gioco resta più disteso e diluito rispetto al predecessore.
"Sequels are not always going to be as major a step.
They're going to be refined, and they're going to be a continuation"
Eric Williams - Game Director (GamesRadar+)
Verso la fine, ovviamente, Ragnarok si innesca e corre più di quanto non abbia fatto nelle fasi preliminari e centrali dell’avventura, anche se lascia indietro alcune tematiche e certe linee narrative che avrebbero meritato un approfondimento in più. Per quanto apocalittico possa considerarsi il finale, duole ammettere che Ragnarok non raggiunge mai la potenza viscerale del suo predecessore, la forza dirompente di quel racconto, e neppure quell’effetto sorpresa che non è sempre scontato per un sequel, ma che in fondo, visitando nuovi regni e affrontando nuove divinità, speravamo di trovare.
Dove Ragnarok non molla mai il colpo, raccogliendo le conquiste del predecessore e rilanciandole quasi senza sosta, è nel sistema di combattimento, nel senso di avventura e nella quantità impressionante di contenuti opzionali. Basta solo un istante nei panni di Kratos per riscoprire le sensazioni ferocemente inebrianti della battaglia: i fendenti di ascia che spaccano i corpi dei nemici, il vorticare delle lame che innesca furiose esplosioni e tiene gli avversari sollevati a mezz’aria, e poi i colpi di scudo che stordiscono le creature e le espongono alla furia del protagonista. Vista la potenza del gameplay è quasi incredibile che nessun altro abbia provato a collocarsi nel solco tracciato da Santa Monica, ma questo basta perché l’impasto creato quattro anni fa risulti unico e distintivo ancora oggi. Gli scontri di Ragnarok partono quindi dalla base del predecessore ma diventano più complessi e stratificati, grazie a una serie di opzioni legate alla potenza elementale delle armi. La possibilità di concentrare il gelo nel manico dell’ascia o di far divampare le fiamme sulle Lame del Caos rende l’azione più battente, e ci sono nuove abilità che impongono di lottare senza farsi colpire, per risvegliare appieno il potere dell’arsenale. Il combattimento è insomma responsivo, vario e fortemente dinamico: richiede prontezza, buon tempismo e concentrazione; e in questo capitolo viene vivacizzato anche dalla mobilità di Kratos, che si sposta con più slancio nelle arene e ne sfrutta – quando possibile – la verticalità o la conformazione. Il tutto è legato poi allo sviluppo dell’equipaggiamento, dell’armatura e persino delle singole mosse, che una volta sbloccate vanno interiorizzate con l’uso continuativo, per essere ulteriormente potenziate con un modificatore a scelta.
Williams says they took notes on how Marvel handled
Avengers Infinity War and Endgame.
"Endgame almost made twice as much money. That's almost impossible to understand. Did these people just go see this movie and not watch the previous one? They did."
Eric Williams - Game Director (9News)
La componente da gioco di ruolo è stata insomma approfondita e in qualche caso apertamente migliorata: è ora possibile sviluppare fino al massimo livello ogni armatura, anche quelle iniziali, e si possono studiare specifiche combinazioni di oggetti per focalizzarsi sugli effetti di stato, sulle parate, sull’efficacia delle schivate o sulla ricarica degli attacchi runici.
Questo grado di personalizzazione passa purtroppo da una serie di menù esteticamente terribili e scarsamente navigabili, ma è una deriva che ho apprezzato, sostenuta dal fascino di un farming moderato e da un senso di progressione per me magnetico e ammaliante. Se siete fra quelli che non amano particolarmente i sistemi complessi, sappiate comunque che alla difficoltà regolare non è necessario spulciare le schermate di effetti e statistiche: una buona conoscenza dei tempi di attacco e una gestione consapevole degli spazi (e della telecamera) è sufficiente a massacrare le creature dei Nove Regni.
C’è da dire, in ogni caso, che Ragnarok non si focalizza integralmente sul combattimento, e rispetto al capitolo precedente sembra anzi togliere un po’ di spazio agli scontri per darlo all’esplorazione, ai rompicapo ambientali, al senso di scoperta. A chi ama la visione più “integralista” degli action consiglio di impostare subito un livello di sfida più alto, sapendo che alcune battaglie potrebbero sembrare comunque frettolose, almeno fino alla parte finale dell’avventura. Bisogna anche ribadire che Ragnarok non risolve del tutto uno dei problemi più evidenti del suo predecessore, ovvero quello della varietà di nemici. Qualcosa si è mosso, perlomeno quando si parla di avversari d’élite, ma il riutilizzo di modelli e tipologie di avversari è palese, soprattutto nell’economia di un gioco che ti tiene impegnato per oltre quaranta ore, fra attività principali e secondarie. A tal proposito: se dovessi scegliere un aspetto in cui God of War Ragnarok sovrasta integralmente il capitolo del 2018 indicherei proprio il carattere, la qualità e la distribuzione dei contenuti opzionali.
In ognuno dei regni principali – che siano le distese di Midgar gelate dal Fimbulwinter, le giungle ostili di Vanaheim, i laghi sulfurei di Svartalfheim – Santa Monica disegna delle aree opzionali impressionanti per estensione e che non riesco in nessuna maniera a considerare come delle appendici. È proprio qui che vengono approfondite le storie di molti personaggi (messi a confronto con il proprio passato e con i propri errori), ed è qui che gli enigmi ambientali – già ottimi durante la storia principale – raggiungono vette inaspettate per un gioco d’avventura. È qui, ancora, che si annidano gli avversari più insidiosi, come i dodici berserk da sfidare in arene glaciali o i grandi draghi a cui chiudere le fauci una volta per tutte. L’esplorazione delle zone facoltative e la risoluzione delle missioni secondarie richiede decine di ore, e trasmette un senso di completamento impareggiabile, oltre a ricompensare il giocatore con oggetti interessanti e una manciata di storie memorabili. L’aspetto più affascinante di questa struttura è la sua capacità di far coesistere densità ed estensione: God of War rifiuta con orgoglio l’approccio da Open World, che in troppi casi sembra l’unica soluzione per i kolossal videoludici, e invece dispone - in mappe aperte ma non smisurate - una serie di eventi e situazioni costruiti con grande attenzione, senza cedere alle lusinghe della ripetizione vuota e monotona. È un esempio che tutto il settore dovrebbe seguire, un modello produttivo virtuoso che brilla ancora di più, in un momento di stagnazione creativa dell’industria mainstream.
Giunti alla fine della sovrabbondante avventura di Kratos, resta da capire cosa rimane dopo l’apocalisse. Il Ragnarok è per definizione un evento epocale, estintivo, che arriva e sconquassa ogni cosa, che distrugge e non lascia più nulla com’era prima. Se quest’evento c’è stato, nel mondo dei videogame, è avvenuto quattro anni fa. Il capitolo del 2018 è una pietra miliare dei giochi d’avventura, un prodotto che definisce un’intera epoca ludica. Il suo sequel non è sconvolgente alla stessa maniera.
Le ragioni di questo Ragnarok “in tono minore” sono soprattutto tematiche, di ritmo... o forse di sensibilità. Il lavoro di Eric Williams abbassa i toni e l’intensità emotiva, strizza l’occhio a una platea più estesa o se non altro più giovane, inseguendo gli accenti leggeri di tanta produzione ultra-pop: l’eroismo un po’ smargiasso della Marvel, l’ironia impalpabile dei prodotti di largo consumo. Non è facile interiorizzare il passaggio da un prodotto feroce eppure fortemente intimista a un gioco che rimuove questo tipo di sfumature, fino a lasciar cadere del tutto i temi più interessanti: quelli sulla predestinazione, sulla difficoltà nel trovare il proprio ruolo nel mondo, sulla paura per la morte e per il futuro. Le tracce lasciate da questi spunti sono troppo esili per risaltare, accerchiate fra l’altro da storie e personaggi che non hanno lo stesso spessore.
Resta vero che il sistema di combattimento supera agilmente quello dello scorso capitolo... tranne che in fatto di varietà di nemici e soprattutto di scontri con i boss: quelli sono ancora troppo pochi e troppo poco ispirati. Ma il fatto è questo: proponendo un gioco in forte continuità con il predecessore, l’effetto sorpresa - l’innesco del Ragnarok - deve arrivare anche dagli eventi, dai panorami, dalle battaglie. E troppo spesso questo God of War sceglie invece di puntare su una rassicurante neutralità. Per fortuna ne esce un’avventura che neutra non lo è: la forza del combat system è sufficiente a infiammare gli appassionati dell’azione, la qualità del level design è impressionante e valorizzata da enigmi stimolanti, la quantità di contenuti è straripante e le sfide dell’endgame piacevolmente diaboliche. E poi c’è una recitazione impressionante, che ribadisce l’eccellenza tecnica ed estetica di Santa Monica.
Eppure, se gli ingranaggi sembrano tutti al posto giusto, manca una direzione complessiva che li faccia girare senza frizioni. Quella di Ragnarok è un’apocalisse sontuosa, spettacolarizzata, imponente, ma senza la voce tonante e profetica dei capolavori.
Pubblicato il: 03/11/2022
Provato su: PlayStation 5
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