The Last of Us: Parte I

RECENSIONE

Quello di The Last of Us è un mondo senza più speranza. L'umanità è spacciata, distrutta da un'infezione virulenta e brutale: un nuovo ceppo di funghi parassiti, i Cordyceps, che si diffonde nell'aria attraverso una nuvola leggera di spore letali. È un organismo perfetto, che infetta le sue vittime e cresce negli strati corticali del cervello, modificando lentamente i comportamenti dell'ospite. Non c'è un vaccino, non c'è una cura, nessun metodo di contenimento. Il mondo di The Last of Us, insomma, non ha futuro: l'infezione ha decimato la popolazione mondiale, e prima o poi tutto finirà. Gli ultimi uomini si accasceranno a terra, e le propaggini schifose dei Cordyceps usciranno dai loro occhi, come dita invadenti, e spaccheranno il cranio dei relitti del genere umano.
Tutti aspettano la fine. Alcuni nelle zone di quarantena, accettando di buon grado la legge marziale; altri fuori, vivendo di sciacallaggio o inseguendo il fantasma della vita di un tempo. Ma dopo vent'anni dalla diffusione dell'infezione qualcosa si è ormai irrimediabilmente rotto, nel cuore degli uomini. Nel mondo post-pandemico di The Last of Us non c'è più il sogno, l'illusione di una prospettiva futura. C'è solo un cinismo disilluso e spietato, che come un cancro contamina le persone.
” 

Scrivevo così, nove anni fa, per raccontare quello che ancora oggi trovo uno degli elementi più importanti del gioco di Naughty Dog, ovvero la volontà di mettere in scena un mondo feroce e impietoso, di rimuovere la speranza dall'equazione. Mi sembrava, in un certo senso, una rivoluzione. Perché nei videogiochi di solito l'obiettivo è quello di vincere, di combattere per un futuro, di scacciare la morte. In The Last of Us la sconfitta era ormai innestata nel DNA degli uomini, nel tessuto della società, e questo aveva un effetto potente sui personaggi: estremi, crudeli, disumani. Alle volte fortemente disempatici, quasi tutti patologici. 

Se questo aspetto risulta tuttora straniante, immaginate quanto sia stato dirompente il progetto di Naughty Dog al tempo della sua uscita. Il mondo dei videogiochi non aveva mai visto niente del genere. E, di nuovo, non ne faccio una questione di estetica, di immaginari o di recitazione. Arrivati alla fine della generazione che di lì a poco avrebbe lasciato il passo a PlayStation 4 e Xbox One, anzi, il settore era maturo e in fermento, su tutti i fronti. 

Bioshock Infinite aveva fatto da perfetto contrappunto al primo capitolo, ammaliando il pubblico coi panorami di Columbia, e in tema di immersività e libertà interpretativa la lezione di Dishonored riecheggiava da molti mesi. Quantic Dream lavorava a un performance capture eccellente – dimenticandosi tuttavia di scrivere sceneggiature capaci di tenersi in piedi – e non mancavano sperimentazioni del calibro di Spec Ops: The Line, che nasceva dalla voglia di mettere in crisi l'idea superomistica del soldato e l'epica della guerra. 

L'industria dei blockbuster era percorsa da un fervore creativo che oggi possiamo solo rimpiangere, e già si preparavano le avanguardie indipendenti, con Journey e The Stanley Parable che avrebbero dettato il passo. Immerso in questo ambiente, The Last of Us riusciva comunque a guardare avanti. Forse non tanto dal punto di vista delle meccaniche - che con grande efficacia alternavano stealth, survival ed esplorazione, ma che di certo non inventavano - quanto in fatto di scrittura e caratterizzazione. 

Una lucida visione d'insieme mescolava un mondo indelebile a un'interpretazione magistrale, a una grafica che ancora oggi tiene botta (e sì: questo vale anche per l'originale e per la sua rimasterizzazione), e a un accompagnamento musicale dalle sonorità struggenti e inedite. 

Ma quello che contava di più erano Ellie e Joel. E Billy. E Sam, Marlene, Tess. The Last of Us era la storia di protagonisti rotti che cercavano un motivo per andare avanti ancora un po'. Ecco: ancora oggi trovo questa storia di una bellezza straziante. 

Ancora oggi “La trama del titolo Naughty Dog procede spedita per le quindici ore dell'avventura principale senza mai una fase di stanca, aprendo ferite lancinanti nel cuore del giocatore. Si tratta di una storia fatta di gente senza futuro, di persone che brillano nel breve spazio che gli è concesso e poi spariscono di nuovo in questo mondo spacciato, oppure nell'oblio della morte. The Last of Us ribadisce la sua smisurata grandezza perché ha il coraggio di portarci in un mondo dove la gente muore senza grazia, dove la vita basta a sé stessa, raccontandoci la poesia dell'estinzione”. Niente di tutto questo è cambiato, nel remake ripubblicato con la grafica tirata a lucido... forse perché il primo The Last of Us era così avanti da essere rimasto attuale. Il gioco ha uno degli incipit più forti che io ricordi, un incedere trascinante, ed è estremamente stimolante nelle fasi d'azione, che tuttavia risultano un po' meno elaborate rispetto a quelle del seguito. Rigiocare il primo capitolo conferma una volta di più quanto sia stato importante il lavoro sull'intelligenza artificiale e sul level design di Parte II, che può vantare un dinamismo senza pari e un senso di sfida incredibilmente appagante. Le novità del remake, non è un mistero, sono principalmente visive, e su questo fronte il lavoro di ammodernamento è estremamente curato. Il gioco si allinea ai risultati visivi del suo seguito con pochissime fluttuazioni. Ma non mi piace parlare di poligoni e confronti quando i risultati sono sotto gli occhi di tutti, e soprattutto in un momento storico in cui si dovrebbe imparare a focalizzarsi sulla conduzione artistica. 

Preferisco quindi dire che l'aggiornamento ha cambiato in molti casi le atmosfere, rendendole più cupe e opprimenti. Le sfumature horror che così potentemente risaltano nel secondo episodio (fino a culminare nella scena dell'ospedale), sono ora più percepibili e decise. Se la volontà originale degli autori fosse quella di focalizzarsi così tanto sulle sensazioni pervasive dell'orrore non lo sapremo mai: meglio limitarsi a registrare questo mutamento, che credo si sposi bene con le tematiche e le situazioni dell'avventura. 

Altrettanto interessante mi sembra l'aumento di dettagli, di oggetti, di ricordi infranti e marciti che si accalcano in ogni angolo delle ambientazioni. Le stanze delle case spaccate, le strade di una cittadina di provincia, i piani di un grattacielo incrinato, adesso non si limitano a raccontare – in silenzio – le storie perdute di una catastrofe umana e civile, ma rispondono alla stessa pretesa di realismo del sequel. Per non parlare poi della recitazione, più espressiva grazie ai nuovi modelli dei personaggi: alle volte basta una lacrima che solca il viso, una smorfia di dolore, uno schizzo di sangue, per amplificare un'emozione.
È proprio questa continuità che rende più che comprensibile la scelta di aggiungere al titolo un nuovo frammento – Parte I – per sottolineare la grande vicinanza, adesso anche estetica, dei due prodotti. Se poi l'operazione del remake risponda o meno ad un'esigenza creativa, è tutto un altro discorso. Ci sono tante anomalie in questo rilancio: il fatto che la vecchia edizione rimasterizzata – per quanto diversa nei toni e nelle sfumature – sia ancora oggi piacevole da giocare e facilmente accessibile; oppure la consapevolezza che l'esclusività garantita a PlayStation 5 non sembra giustificata dalle conquiste tecniche, dato che il gioco avrebbe potuto girare anche sull'hardware di vecchia generazione. Ma chissà quale sarebbe stato l'impegno richiesto in fase di ottimizzazione, quanti altri mesi di lavoro il team avrebbe dovuto impiegare: giudicare, in questi casi, è sempre difficile. 

La cosa importante da capire, a fronte di un lavoro meticoloso e attento, è che le ragioni commerciali e quelle espressive non sempre si intrecciano e si neutralizzano. Il valore intrinseco del gioco resiste alle oscillazioni di prezzo, alle promozioni, resiste ai dibattiti su come debbano essere impegnate le risorse di una software house. Di un remake così, non lo nascondo, non sentivo un'urgenza schiacciante, ma non posso che riconoscere il valore dell'esperienza che propone. Un valore forse inestimabile per chi giocherà The Last of Us per la prima volta. 

Se fate parte di questa categoria, a proposito, fermatevi qui, perché sento il bisogno di entrare nel merito del racconto. A questa distanza dall'uscita originale, credo si possa fare. Tanti piccoli dettagli che avevo dimenticato mi hanno colpito con forza, tanto che ho trovato questo “ripasso” persino illuminante. Alle volte si tratta di sfumature tutto sommato innocue, come il fatto che il ranch del secondo capitolo Ellie l'avesse già visitato in questo viaggio, durante una crisi poi sfociata in una delle tante epifanie della protagonista. E proprio l'indole di Ellie, fortemente tormentata, disillusa, aggressiva, pervasa da una rabbia inestinguibile, trova piena giustificazione nella sua storia: un viaggio attraverso il dramma dell'umanità e le più bieche bassezze dei sopravvissuti. Il momento in cui si lascia andare ad un massacro liberatorio, affondando un machete nella faccia ormai maciullata di un maniaco, non è troppo diverso dai massacri che compirà qualche anno più tardi in nome della vendetta. Credo davvero che la Ellie consumata dalla frustrazione fosse già presente nel primo The Last of Us, che la sua ferocia fosse semmai in uno stato embrionale, pronta a crescere, a svilupparsi ed esplodere. Anche grazie alla lezione tonante di Joel, un personaggio cinico e bastardo che non dà nessun valore alla vita degli altri, di chiunque non faccia parte del suo branco. Non ricordavo che Joel fosse così spietato, animalesco. 

Questo suo lato non emerge solamente quando prenderà la decisione che tutti ricordiamo, ma è invece un tratto onnipresente e pervasivo; tanto che, col senno di poi, il destino che lo aspetta in Parte II sembra averlo scritto lui stesso. E forse anche profetizzato, quando ricorda che la sopravvivenza “è solo fortuna, e prima o poi finirà”. C'è un altro dettaglio che penso sia importante far emergere; ovvero che tutto il discorso sulla relatività dei punti di vista, sul fatto che le ragioni dell'altro non siano necessariamente deteriori alle proprie, già affiora nel primo The Last of Us.

Lo fa, più precisamente, nel villaggio dei cannibali, quando il leader della comunità racconta il dramma dei propri morti, la scia di cadaveri lasciata da Joel. Il discorso non prende piede come dovrebbe, forse perché al team è mancato un ultimo guizzo di coraggio: per quanto grandi possano essere le colpe del protagonista, mai potranno superare quelle di chi consuma carne umana, o di un viscido violento che sembra avere un morboso interesse per una ragazzina. Per elaborare fino in fondo il discorso c'è voluto il secondo capitolo, un prodotto di cui continuo ad ammirare l'audacia sconfinata. Rigiocare The Last of Us oggi – ma credo che sarebbe stato lo stesso anche con le vecchie edizioni – è stata per me un'esperienza anzitutto interpretativa. Per esempio mi sono accorto che già all'epoca Naughty Dog aveva cercato di lavorare sulla sensazione di distacco fra le ragioni del giocatore e quelle dei personaggi. A un livello istintivo avevo già colto questa sfumatura, tanto che additavo The Last of Us come un gioco che “restituisce ai personaggi l'indipendenza della loro visione”. Quant'era potente, già nove anni fa, trovarsi a controllare un protagonista di cui non condividiamo le prospettive, la cattiveria, a volte persino le azioni che gli facciamo compiere! Parte II ha poi costruito una fetta della sua poetica proprio su questa sfida al rapporto che di solito si instaura fra utente e personaggio. Mi sono anche fatto nuove domande, mentre mi avvicinavo al finale. 

Mi sono chiesto, ad esempio, se davvero la scelta di Joel sia stata solo sua. Tanti indizi lasciano intuire che Ellie, in fondo, volesse vivere: la preoccupazione crescente mentre si avvicina alla meta, il fatto che pianifichi nuovi viaggi “quando tutto sarà finito”. E se Joel si fosse fatto carico del senso di colpa legato a una decisione che anche Ellie avrebbe voluto prendere? 

Sono domande che spero possano mettere in luce sfumature preziose e lanciare nuovi spunti per alimentare il discorso critico sui due capitoli di The Last of Us. E c'è un altro dettaglio con cui voglio chiudere questa lunga discussione: gli attimi immediatamente precedenti all'ultima bugia di Joel. Li avevo quasi dimenticati, come se all'epoca non li avessi considerati troppo importanti. Sono pochi secondi, mentre i due protagonisti si avvicinano all'insediamento in cui decideranno di vivere. E si giocano nei panni di Ellie. Si può pensare che sia una cosa di poco conto, ma se i videogiochi parlano attraverso la grammatica delle interazioni direi che si tratta di un elemento centrale.

Al tempo, mi ricordo, la pensai come una questione di circolarità: se l'incipit si gioca utilizzando Sarah, nella conclusione è giusto controllare chi in qualche modo prende il suo posto. Oggi lo vedo invece come un invito alla continuità: come l'idea che tutti gli sforzi di Joel, tutte le scelte difficili e tutto il dolore che si porta dentro, siano servite per dare un futuro a chi non credeva di averlo. Non tanto ad un'umanità già spacciata, crollata, sull'orlo dell'estinzione, ma a una ragazzina senza colpe. Un futuro che poi scopriremo essere difficile, e tormentato, e pieno di rancori e rimpianti.
Ma pur sempre un futuro.

Pubblicato il: 10/10/2022

Provato su: PlayStation 5

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19 commenti

Complimenti per l'articolo riesce ad evocare ricordi e interrogare il letto sulla propria esperienza di gioco.

L'articolo migliore, a mani basse, che abbia letto su The Last of Us: parte 1

Grazie per avermi fatto comprendere ancora di più quanto il numerino in fondo alla tensione valga 0.
Complimenti

Bellissima recensione, complimenti Fossa!

Complimenti per questa raffinata recensione, e complimenti per questo bellissimo sito!! :D

Bellissima lettura, grazie Francesco

Bellissima recensione, prima dell'uscita di Parte III rigiocherò Parte I.

Prendendosi un momento per ripensare al primo The Last of Us, per fare poi una panoramica mentale di tutto quello che è uscito dopo, è incredibile pensare a quanto fosse avanti come narrativa, tematiche, ferocia, e quanto lo sia rimasto. Forse la s …Altro... Prendendosi un momento per ripensare al primo The Last of Us, per fare poi una panoramica mentale di tutto quello che è uscito dopo, è incredibile pensare a quanto fosse avanti come narrativa, tematiche, ferocia, e quanto lo sia rimasto. Forse la straordinarietà della Parte II ci ha colpiti in maniera più dirompente, ma il primo capitolo ha agito davvero allo stesso livello. Peraltro, non mi sembra che il suo testimone sia stato raccolto da molte uscite a parte lo stesso secondo capitolo, nonostante siano passati quasi 10 anni.

Non potevo che scegliere la recensione di Part 1 come prima lettura, esclusa la presentazione.

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