STRAY - RECENSIONE
Un'avventura felina fatta di solitudini cibernetiche, esplorazione misurata e di un incedere pieno di piccole sorprese.
Stray si avvicina al giocatore con un pizzico di scostante diffidenza, lentamente, quasi come se non avesse piena fiducia in chi stringe il pad tra le mani. È insomma il gioco, oltre al suo randagio protagonista, ad avere un fare felino, procedendo con passo prudente e guardingo. Questa cautela, durante un incipit che qualcuno potrebbe persino considerare trattenuto, la trovo col senno di poi più che opportuna. Perché Stray è un gioco strano, che ha bisogno di farsi conoscere e riconoscere; è un prodotto difficile da collocare in una specifica categoria, che sfugge alle logiche del platform e degli adventure tradizionali. Per esempio è insolito il sistema di interazione con l'ambiente, inquadrato eppure non lineare. I salti non sono liberi ma invece del tutto scriptati: ci si avvicina a una superficie, si aspetta che compaia – minimale come tutta l'interfaccia – l'apposito indicatore, e una volta premuto un tasto si osservano i sinuosi movimenti del gatto. Uno slancio perfetto e calcolato che finisce proprio dove indicava la telecamera. È la stessa soluzione – si potrebbe dire – delle scalate dinamiche di Tomb Raider e Uncharted, che diventa però sistemica, estesa a tutto l'ambiente e non solo a specifiche pareti dove sfogare il “free” climbing degli avventurosi protagonisti.
È facile, soprattutto all'inizio, sentirsi al guinzaglio, un po' troppo guidati, ma poi gli ambienti si aprono e si capisce che non ci è tolta del tutto la libertà di esplorare, di guardarsi in giro e curiosare... e anche di scegliere la strada che più ci piace per raggiungere quel tetto su cui brilla un'insegna strana. Ruoti leggermente la telecamera, tra un miagolio e l'altro, e: “guarda un po', si poteva passare anche da qui”. Sono convinto che la soluzione adottata da Stray sia davvero la migliore per simulare le movenze eleganti di un gatto. Immaginate se il team avesse concesso al giocatore la possibilità di saltare liberamente: quanti felini impazziti avremmo osservato nelle compilation di YouTube, quanti guizzi sgraziati e incoerenti, quante morti improvvise per un calcolo sbagliato. Forse Stray sarebbe diventato un gioco ancora più “memetico”, ma allo stesso tempo avrebbe fallito nel mettere in scena l'avventura (incredibile) di un felino credibile.
Non tutte le scelte creative vanno giustificate perché rappresentano la volontà dell'autore, ma in questo caso mi sento di dire che la rinuncia ad un gameplay più regolare è addirittura un atto di coraggio, un sacrificio compiuto sull'altare di una messinscena piena e convincente. Che poi sarebbe pure ora di accettare che un videogioco può essere interessante, stimolante e “giusto” anche quando i lineamenti dell'interazione che propone non fanno capo a nessuno dei generi tradizionali. Stray, fra l'altro, non rinuncia affatto a sequenze più movimentate o sfidanti, e anzi le integra poco a poco nell'avventura, dimostrando un gran gusto per i classici e un buon appetito per la varietà. Si comincia con qualche puzzle elementare, si procede con una serie di collectible curiosi a sufficienza per ingaggiare il giocatore, e poi si sconfina nei territori dell'action e dello stealth. Tra fughe e infiltrazioni l'avventura risulta sorprendente nel senso più letterale del termine: è un viaggio imprevedibile, fatto di situazioni impensate e di momenti inattesi. Certo, quello del randagio non è certo un viaggio grandioso e straripante, ma va bene così, anche perché conserva un bel senso della misura e una grande consapevolezza delle capacità produttive del team. Finché, proprio sul finale, non si perde in una chiusura poco efficace.
Prima di arrivare alla conclusione un po' floscia, però, Stray non si limita a interpretare a modo suo una piccola carrellata di generi videoludici. Anzi, conduce il giocatore alla scoperta di un mondo desolato e cibernetico, uno dei più singolari che mi sia capitato di visitare di recente. Il piccolo universo sotterraneo di Stray mescola una distopia naturale con un cyberpunk cibernetico, in un impasto insolito ma efficace. Popolata da robot che per qualche ragione hanno cominciato a imitare gli umani dopo la loro estinzione, la metropoli è ispirata alla città murata di Kowloon, un insediamento irreale descritto tra gli altri da William Gibson (l'autore di Neuromante, un testo seminale per la corrente cyberpunk): è da qui che arriva il senso di schiacciamento, la densità soverchiante di palazzi, l'idea di un luogo in cui non filtra la luce del sole.
Il mondo di Stray parte da queste premesse – ispirato a un'enclave autonoma senza ordine né legge – ma si muove poi ben oltre: e integra i colori sgargianti delle insegne al neon, la vita gorgogliante tra vicoli che sembrano usciti dal Golden-Gai di Tokyo, e pure il misticismo esoterico di una piccola comune hippy. Il processo di costruzione del mondo è supportato da una scrittura intelligente, forse un po' schiva, che non si impone mai al giocatore ma si presenta a chi vuole scoprire qualcosa in più, chiacchierando con gli sferraglianti abitanti della città o andando a caccia di qualche ricordo perduto. Del tutto innocua, invece, la storia principale, raccontata dal piccolo robot B-12 (una sigla in cui riecheggia il nome del team di sviluppo: BlueTwelve); a restare impressi nella memoria non sono tanto i personaggi o le loro motivazioni, ma i luoghi che si attraversano nella lunga scalata dai bassifondi alla superficie, comprese le fogne infestate da strane concrezioni aliene, in una breve e imprevista parentesi che sfocia quasi nel body horror.
Menzione d'onore per le musiche, anomale quanto le situazioni del gioco: composte di percussioni sintetiche, di ritmi destrutturati, si divertono a giocare sul sottile confine fra accompagnamento diegetico e non, mescolando suggestioni tribali e sonorità chiptune. L'intera colonna sonora, per chi fosse interessato, è stata composta dal musicista francese Yann Van Der Cruyssen, che nel gioco viene rappresentato dal suo alter ego robotico e vagabondo, Morusque. Quasi tutto è al posto giusto, insomma, in questo gioco che ti avvicina con circospezione, se non addirittura con un filo di indolenza, e poi ti conquista con le sue trovate inattese, le sue atmosfere, i dettagli apparentemente futili che finiscono ogni volta per strapparti un sorriso, come la tendenza della bestiolina a farsi le unghie proprio dove non dovrebbe. Qualche oggetto in più, nascosto negli anfratti della città, sarebbe stato gradito, ma in fondo non è una mancanza troppo grave.
Peccato invece per il finale, davvero troppo sbrigativo. In controtendenza con un'avventura sviluppata magistralmente le ultime battute del racconto mi sono sembrate frettolose, superficiali, accompagnate da enigmi fra i meno interessanti di tutto il gioco.
La conclusione non è toccante come forse avrebbe voluto essere, ma anzi è prevedibile e regolare. Non certo brutta, ma innocua: l'esatto contrario delle altre fasi, ciascuna capace di sorprenderti in modo diverso. Sono convinto che tutto sommato bastino i momenti più riusciti a rendere Stray un gioco memorabile. I salti precisi tra i tetti, i misteri di una società robotica che si svelano poco a poco, le corse a perdifiato tra insetti famelici e droni di sicurezza, le prospettive nowpunk dell'infracittà.
Avrei davvero voluto un finale più deciso, ma in fondo va bene così. Del resto sono creature ostinate, i gatti, non puoi fargli fare proprio tutto quello che vuoi.
FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128