RECENSIONE
DISPATCH
Non riesco a definire con precisione il momento in cui è successo, ma a un certo punto della mia vita ho semplicemente cominciato a malsopportare i supereroi. E dire che gli spillati di Spider-Man di papà, in un modo o nell’altro, li ho sempre letti con un certo interesse. Il fatto è che sono anni che mi guardo attorno e mi ritrovo circondato da omini in calzamaglia che salvano il mondo in tutte le salse e… mi annoio terribilmente. La colpa è, almeno in parte, mia e della mia odiosa attitudine che mi porta da sempre a disinteressarmi da tutto ciò che tende a piacere alle grandi masse. Quando tutti erano in visibilio per Avengers: Endgame io ero rintanato nel mio antro a pensare ai miei amatissimi film coreani, considero i Batman di Nolan dei filmetti buoni solo per le citazioni spigolose da uomini vissuti che hanno regalato alle bacheche di Facebook anni orsono, e soprattutto considero lo “Snyder Cut” di Justice League la versione ancora più noiosa di uno dei film più noiosi che abbia mai visto in vita mia. Sono un edgy del cazzo, per farla breve.
Nonostante questo, però, credo fermamente nel fatto che l’assedio multimediale operato da Marvel e soci nei confronti di cinema, serie tv e videogiochi sia espressione diretta della delirante deriva di un consumismo culturale senza precedenti. Che i comics siano sempre stati prima di tutto prodotti da vendere al pubblico non è certo un segreto, ma quando ho iniziato ad assistere alla moltiplicazione di amici e creator che si fiondavano in sala a vedere paccottiglia indifendibile solamente per potersi gustare scene post-credit utili solamente a fomentare dibattiti su chi sarebbe apparso nella prossima paccottiglia indifendibile mi sono sentito morire un po’ dentro. Non che pretenda che si sia tutti fan accaniti del montaggio analogico, chiaro, però almeno concedetemi il lusso di potermi lamentare della rumenta con le tutine colorate che infesta da anni l’intrattenimento di tutto il mondo.
I miei complimenti a Disney, comunque, per essere riuscita a vendere al pubblico l’idea che un lungometraggio sia l’apostrofo rosa che sta fra i trailer dei prossimi duecento film sui supereroi.
Mi rendo conto del tono che ho assunto in questa sbrodolata iniziale, però mi serviva per rendere esplicito quanto a me, di Dispatch, non fregasse assolutamente nulla. Ok, AdHoc l’hanno messa in piedi quelli bravi di Telltale, ma nel mio bingo 2025 dell’ipotesi che io decidessi di mettere le mani su un gestionale di supereroi non c’era nemmeno l’ombra. Poi però è successa una cosa incredibile: i miei compagni di crociata contro lo strapotere mediatico di Marvel e DC hanno cominciato inesorabilmente ad agitarsi increduli ripetendo che “oh ma guarda che è davvero una figata”.
Quindi sì, è giunto il momento anche per me di calare la maschera (pun intended) e ammettere a me stesso e al mondo che non solo Dispatch mi è piaciuto, ma anche che se non fosse esistito quel piccolo miracolo che risponde al nome di Expedition 33 sarebbe stato con ogni probabilità il mio personalissimo game of the year.
Se avessi detto al me del 2024 che questo sarebbe stato l’anno in cui avrei preferito di gran lunga Dispatch a un videogioco di Hideo Kojima mi avrebbe comprensibilmente preso a calci sugli stinchi urlando.
Robert Robertson è un supereroe senza poteri. Sì, tipo Batman, ma senza la sua preoccupante passione per il farsi giustizia da solo da leghista col mantello nero. Nella vita di tutti i giorni Robert è un semplice figlio d’arte che ha ereditato il titolo di Mecha Man dal nonno prima e dal padre poi, e che passa le giornate a riparare il robottone a bordo del quale malmena i cattivoni che si contendono giri di droga e armi nella sua natia Los Angeles. Parliamo del più classico degli eroi dal passato tormentato, uno di quelli cresciuti all’ombra di un genitore assente e che hanno intrapreso la strada dell’eroismo per vendicarne l’uccisione per mano di un losco boss di una loschissima fazione di supercattivi imbottiti di techwear dal gusto squisitamente cyberpunk.
La sua però non è una banale storia di redenzione che fa leva sull’importanza delle responsabilità derivanti dai propri poteri: Robert ha seguito le orme del padre semplicemente perché crede nel bene e nell’aiutare il prossimo in maniera disinteressata, e ha quindi investito gozziliardi di dollari nel perfezionamento del suo evangelion personale che ha messo a disposizione della popolazione di Los Angeles. A margine è anche incazzato come una biscia con chi lo ha costretto a rilevare anzitempo l’attività di famiglia, ma penso sia abbastanza comprensibile. Tutto a un tratto però il suo sogno viene spazzato via, polverizzato da un’esplosione che in un colpo solo ha distrutto il suo robottone e, soprattutto, l’incredibile batteria al plasma messa a punto dal padre per alimentarlo. Nel giro di pochissimo, Robert passa dall’essere Mecha Man all’essere un civile qualsiasi costretto a vivere in una città piena zeppa di super criminali. Almeno finché la bellissima e biondissima Blonde Blazer non gli offre di entrare a far parte dell’SDN, un’agenzia privata che offre al pubblico i servigi dei supereroi arruolati tra le sue fila. Il suo ruolo? Robert deve fare il centralinista, raccogliendo le richieste d’aiuto della popolazione e coordinare una squadra di pronto intervento a cui smistare i compiti nella maniera più efficiente possibile.
Il cuore dell’esperienza risiede nel fatto che Robert si ritrova ai comandi del Z-team, una sgangherata banda di ex cattivi finiti al gabbio in cerca di redenzione. Non è lo stesso script banale da Suicide Squad per cui per menare un cattivo cattivissimo non esistono alternative se non mandargli contro i villain più malefici del circondario: Dispatch parla di esseri umani che hanno toccato il fondo e stanno provando a risalire. Certo, i membri del Z-team sono decisamente spigolosi e tutt’altro che accomodanti, ma il bello sta proprio nell’assistere alla crescita personale di ognuno di loro e nel doversi realmente impegnare per tenerli uniti senza che nessuno di loro smarrisca la via verso la propria rinascita personale. Il tutto, è importantissimo sottolinearlo, è poi inserito in una cornice estetica grandiosa, che spesso e volentieri si lascia andare a soluzioni di regia e montaggio semplicemente meravigliose.
In un momento storico in cui la democratizzazione dell’arte voluta dai tech bros di tutto il mondo sta letteralmente falcidiando ogni singola forma di creatività a colpi di AI slop, la scrittura di Dispatch è un’autentica manna dal cielo che sta lì a ricordare a tutti che le intelligenze artificiali non saranno mai all’altezza dell’estro di un autore in carne e ossa. Gli scambi tra i membri del Z-team, le loro confessioni a cuore aperto, la loro rabbia di fronte alle sconfitte e il loro senso di smarrimento di fronte alle difficoltà li rendono personaggi terribilmente umani, fallaci, fragili. Vivi.
Sarebbe facile provare a screditare la creatura di AdHoc come una banale serie interattiva prestata al gaming: la verità è che Dispatch non poteva che essere un videogioco, un’opera che si regge sulle sue gambe solamente grazie all’intervento del giocatore chiamato ad inserire una parte di sé nel carattere di Robert. Mi sono sentito realmente un mentore, un amico desideroso di supportare i propri compagni anche nei momenti più difficili. Se ho creduto in Invizigal anche di fronte alla sua ribellione è perché le ho voluto bene sul serio e sono riuscito a mettermi nei suoi panni.
Tutto questo Dispatch lo ha reso possibile facendo leva quasi unicamente sul potere della parola, trasformando ogni bivio narrativo in un momento di riflessione e ogni frecciatina dei membri del team in un piccolo istante di condivisione e unità. La forza di tutto questo la si capisce in un momento specifico del gioco quando, a seguito di un evento che ha impattato fortemente sul morale della squadra, ad accogliermi durante un turno di lavoro non c’è stato il vociare costante del mio gruppo di sbandati in cerca di redenzione ma solo puro e semplice silenzio. È incredibile quanto la scrittura di AdHoc sia riuscita, nelle sole otto ore necessarie a raggiungere i titoli di coda, a costruire un sistema così complesso e credibile di relazioni, dico davvero.
E sapete cosa? Dispatch non mi ha fatto fare pace coi supereroi. Mi ha fatto realizzare che non li ho mai odiati davvero, solo che la loro trasformazione imposta dagli studios li ha svuotati di ogni significato. Nella manciata di film e serie tv a tema che mi sono sorbito nell’ultimo decennio ho trovato solamente figurine appiccicate allo schermo immerse in effetti speciali a volte terribilmente brutti. Dispatch, rifiutando quell’approccio, è riuscita a far emergere il lato umano, sboccato e quasi banale di chi si nasconde dietro un alias e si mette al servizio della collettività, ricordandomi finalmente che quando da ragazzino sgraffignavo gli albi di papà lo facevo perché ad interessarmi davvero erano le vicende quotidiane di quegli eroi che altrove sembravano dover essere per forza infallibili. È sempre stato questo a mancarmi più di ogni altra cosa.
Scemo io che non me ne sono reso conto per più di dieci anni della mia vita.
Pubblicato il: 09/12/2025
Provato su: PC Windows
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