DYING LIGHT
THE BEAST
Recensione
L’approdo sugli scaffali di Dying Light: The Beast rappresenta la tappa finale di un processo produttivo che, in linea con i trascorsi di Techland, ha seguito una rotta tutt’altro che lineare. Concepito per diventare il secondo DLC di Dying Light 2, il titolo aveva dapprincipio un assetto fondamentalmente affine a quello dell’ultimo capitolo numerato, pur presentando variazioni più o meno significative modulate in risposta ad alcune delle critiche mosse al gioco base. Già allora Kyle Crane faceva parte dell’affresco ludonarrativo tratteggiato dal team, sebbene in suo ruolo fosse secondario rispetto a quello di Aiden, di nuovo posto al centro del racconto. Dopo un’importante tornata di leak sul contenuto, che al tempo generarono più di una perplessità fra le fila dei fan, lo studio polacco optò per una virata netta, imperniando l’esperienza sul ritorno di Crane e sul suo peculiare status di “volatile senziente”. Più in generale, Techland puntava a limare le asperità emerse durante il percorso evolutivo della saga, concentrandosi su quelli che – a furor di popolo – erano i suoi aspetti migliori. Al netto delle complicazioni legate alla gestione “magmatica” di Paweł Marchewka, CEO nonché principale director e scrittore di Techland, questa volta l’andamento erratico del franchise conduce i giocatori nella cornice di esperienza che, malgrado qualche fluttuazione, appare molto più a fuoco rispetto alla precedente, complice la volontà di consolidare l’identità della serie in vista del suo inevitabile prosieguo.
WEEKEND COI MORTI
Il punto di partenza di questo nuovo corso è Castor Woods, un ex meta turistica immersa nel verde boscoso alle pendici di una non meglio specificata dorsale alpina dell’Europa occidentale. A un anno di distanza dall’epilogo di Dying Light 2, e a circa un ventennio dai fatti di The Following, Kyle Crane si ritrova suo malgrado ospite del perfido Barone, la mente dietro i crudeli esperimenti che negli ultimi 13 anni hanno rinvigorito le capacità superumane del protagonista, alimentando al contempo i suoi peggiori istinti. Dopo essere sfuggito alla prigionia in seguito a un tentativo di salvataggio finito male, Crane ha tutta l’intenzione di rendere pan per focaccia al suo aguzzino, fulcro di una storia di vendetta non particolarmente brillante ma tendenzialmente più organica rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Sebbene non manchino infatti svolte “telefonate”, passaggi pretestuosi e qualche lungaggine, nel complesso la storia funziona abbastanza bene, specialmente in relazione al suo intento di creare un punto di raccordo fra i principali filoni narrativi del franchise. Sulle stesse note, la scrittura dei dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi non sempre si attestano su livelli ottimali, ma in ambo i casi la media qualitativa si dimostra più che sufficiente per le necessità di un titolo come The Beast. A dirla tutta, a dare valore al mosaico della narrazione sono soprattutto alcuni dei suoi tasselli secondari, che aprono di fronte ai giocatori suggestivi spiragli sul lato più umano della post apocalisse di Techland. Tali diversioni guadagnano rilevanza anche in virtù della limitata volumetria dei contenuti proposti dal team, che questa volta ha optato per un assetto più snello e contenuto, fondamentalmente privo di eccessi anche per quel che riguarda il level design. In questo senso, Castor Woods è più simile ad Harran che a Villedor, specialmente usando come pietra di paragone la prima delle due aree presenti nel capitolo d’esordio.
La vallata che fa da sfondo all’ordalia vendicativa di Crane è peraltro poco più grande dei bassifondi di Harran, e offre una discreto assortimento di scenari modellati per ricordare le vedute di un borgo montano a cavallo fra Svizzera e Germania. Diverse missioni prevedono l’attraversamento di porzioni abbondanti della mappa, come sempre senza alcuna forma di viaggio rapido, e pertanto il contenimento degli spazi – a braccetto con il reinserimento dei veicoli - tende a ridurre la fisiologica ridondanza di una formula che, a scanso di equivoci, può comunque indurre un certo logorio, specie nel caso abbiate già speso decine e decine di ore a malmenare sacchi di carne tra Dead Island e Dying Light. Cionondimeno l’opera di revisione di Techland risulta ben congegnata, poiché portata avanti con l’idea di mettere a sistema i tratti migliori dei primi due capitoli, nel quadro di un’avventura che può essere completata (trama principale più gran parte delle attività secondarie) in una trentina d’ore.
UN BUON MIX TRA VECCHIO E NUOVO
In buona sostanza, Dying Light: The Beast è frutto di un processo di sottrazione, integrazione ed efficientamento alquanto funzionale, ma non necessariamente impeccabile. Tanto per fare un esempio, il sistema di progressione è stato notevolmente semplificato, al punto da rendere sostanzialmente triviale il classico meccanismo di assegnazione dei punti abilità. Questo anche perché l’elemento più rilevante, quello col maggiore impatto sui rapporti di forza fra Crane e le minacce del mondo di gioco, è totalmente automatizzato: di livello in livello, infatti, i parametri basali del protagonista vengono incrementati per rimarcare con forza la sua ascesa al rango di “superpredatore”. All’atto pratico, anche il ramo dedicato ai poteri bestiali di Crane, ottenibili recuperando campioni biologici dagli infetti più potenti, influisce relativamente sulle routine ludiche del giocatore. Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma è evidente come il team puntasse a rendere questo aspetto della proposta il più possibile scorrevole e immediato, anche a costo di ridurne la profondità.
Se il sostrato ruolistico è stato assottigliato, lo stesso non può dirsi – fortunatamente – per una dimensione “survival” che torna a rappresentare uno dei capisaldi dell’offerta: fra nemici quantomai numerosi e aggressivi, scarso munizionamento e un sacrosanto terrore dell’oscurità (le sortite notturne sono un palpitante ricettacolo di tensione), i giocatori si troveranno spesso a temere per la propria vita, specialmente nelle prime ore della campagna. Va da sé che la cosa aggiunge una piacevole sapidità al gameplay, soprattutto in accordo con l’accresciuta visceralità di un combat system che, archiviata la diffusa inconsistenza di Dying Light 2, torna a regalare momenti di brutale appagamento. Seppur non sempre precisissimi, gli impatti manifestano con chiarezza una fisicità convincente, che spesso di traduce in clamorose menomazioni e sanguinosi smembramenti. Non siamo ai livelli del gore system di Dead Island 2, badate, ma The Beast si dimostra comunque un ottimo dispensatore di ritagli truculenti, specialmente quando attiverete la “modalità furia” e comincerete a trasformare gli avversari in coriandoli di carne. Come prevedibile la meccanica in questione, che di fatto rappresenta l’unica vera novità del pacchetto, regala dosi di fomento alquanto generose e può rivelarsi salvifica specialmente di fronte agli abomini più coriacei, ovvero i campioni di un bestiario che, a dirla tutta, non è poi così variegato.
Va poi detto che, come di consueto, gli scontri con i nemici umani segnano una significativa flessione nella piacevolezza del combattimento, anche perché fanno emergere con chiarezza le carenze a carico dell’intelligenza artificiale. Inutile dire che, in linea con la tradizione, per sfruttare al meglio le capacità offensive di Crane è opportuno prendere confidenza con un sistema di crafting ragionevolmente versatile e strutturato, che permette di aggiungere alle armi innesti elementali e non, di fabbricare oggetti curativi e strumenti lanciabili, e di potenziare l’armamentario del protagonista sia adeguandolo al livello attuale, sia intervenendo direttamente sulla “rarità” dei relativi progetti, da recuperare completando missioni ed esplorando gli anfratti di Castor Woods. Parlando di peregrinazioni acrobatiche, il sistema di parkour di Dying Light: The Beast conserva in larga parte le migliorie introdotte da Techland col secondo capitolo, eliminando però dall’equazione elementi che avrebbero fatto un po’ a schiaffi con l’impostazione del mondo di gioco, come ad esempio il paraglider utilizzato da Aiden. In linea generale, le dinamiche di traversal si confermano come uno dei punti di forza della produzione, il tessuto connettivo di un impianto ludico tutto imperniato sull’avvicendamento fra evoluzioni aeree e percosse.
Seppur valevole, il sistema di movimento mostra qualche scabrosità di rilievo, fra grossolane imprecisioni nella gestione delle arrampicate e animazioni tutt’altro che stellari. Una valutazione che è facile estendere all’intero comparto tecnico, in particolar modo per quel che riguarda la modellazione di personaggi e scenari. L’ultima iterazione del C-Engine fa il suo lavoro senza infamia e senza lode, passando agilmente fra scorci altamente suggestivi ed elementi platealmente datati, come nel caso della resa generale delle superfici. Ad alzare l’asticella della pregevolezza visiva ci pensano, molto opportunamente, un buon sistema d’illuminazione e un’effettistica apprezzabile, nella cornice di un titolo che non manifesta particolari criticità sul versante dell’ottimizzazione. In definitiva, insomma, l’ultimo nato in casa Techland coglie nel segno senza stupire né alterare in modo consistente l’anatomia del franchise, riuscendo a offrire alla platea un’esperienza solida e ben congegnata, che costituisce una buona base per il futuro della serie.
Pubblicato il: 01/10/2025
Provato su: PC Windows
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