RECENSIONE
METAL GEAR SOLID DELTA
SNAKE EATER
WHAT A THRILL
Il Delta è il simbolo che indica la variazione e il cambiamento. Quando Konami ha svelato al mondo che Metal Gear Solid Delta sarebbe stato il nome ufficiale del remake del terzo capitolo della saga ideata da Hideo Kojima nel mio cervello ha cominciato a suonare un allarme assordante: capivo (senza mai condonarla fino in fondo) l’intenzione di voler iniziare un processo di rifacimenti proprio dal terzo capitolo, prediligendo l’idea di progredire in ordine cronologico all’interno della serie, ma farlo suggerendo la volontà di cambiarlo? Questo no, soprattutto non dopo aver licenziato nel peggiore dei modi il suo creatore. Nonostante questo la mia curiosità nei confronti di questa nuova versione di Snake Eater è sempre stata molta, soprattutto dopo aver visto Konami portare a casa un remake di Silent Hill 2 più che decente grazie all’insperato buon lavoro fatto da Bloober Team.
Nel frattempo è anche successo che Death Stranding 2 si è rivelato una delle peggiori delusioni della mia vita da videogiocatore, e mi ha costretto a chiedermi se il vero problema non fossi io che nel tempo ho cominciato a non capire né apprezzare più le tanto decantate “kojimate” che hanno devastato quell’esperienza in maniera irreversibile. Insomma: sono arrivato a Metal Gear Solid Delta: Snake Eater con un bagaglio di dubbi e domande piuttosto ingombrante sulle spalle, quasi come se mi apprestassi – all’alba dei miei trent’anni – a fare i conti con un pezzo della mia esistenza.
Se mi leggete da un po’ dovreste aver capito, ormai, che per me non sono mai stati soltanto videogiochi. Sono sempre stati qualcosa di più.
Metal Gear Solid 3 mi cambiò la vita. È un gioco orgogliosamente politico, capace di far coesistere al proprio interno un’anima sfacciatamente “weeb” fatta di robottoni giganti e umani in grado di sparare fulmini potentissimi dalle mani con un lato decisamente più sobrio e serioso. Fu in grado di sbattermi in faccia con una violenza inaudita l’orrore della guerra raccontata da chi la combatte, e non fu assolutamente una cosa da poco: sono nato in un’Italia post-piano Marshall, figlia di una cultura pesantemente influenzata da un certo tipo di retorica statunitense che ha per anni ha cercato di vendermi patriottismo e militarismo come valori assoluti e inscalfibili grazie a film e storie belliche che mi hanno raccontato la figura del soldato come quella di un eroe senza macchia pronto a tutto pur di proteggere il proprio paese. In un mondo di Top Gun e American Sniper, Metal Gear Solid 3 ha tentato di opporsi a questa retorica raccontando a tutti che i pluridecorati eroi di guerra che campeggiano sorridenti sulle locandine hollywoodiane non sono altro che pupazzi nelle mani dei governi, pronti a usarli senza indugio alcuno come pegni sacrificali per il proprio tornaconto.
È soprattutto per questo che Snake Eater, con tutte le sue stranezze così giapponesi e le sue cazzatone a tratti esilaranti, è ancora oggi uno dei videogiochi più importanti della storia del medium, ed è per questo che l’idea che questo rifacimento firmato Virtuous potesse voler cambiare qualcosa di quello script così potente mi terrorizzava nel profondo.
I GIVE MY HEART
NOT FOR HONOR, BUT FOR YOU
La verità è che quello che mi sono ritrovato di fronte è stato uno dei remake più fedeli e rispettosi dell’opera originale che mi sia mai capitato di giocare e recensire; una produzione il cui unico obiettivo è quello di ammodernare l’opera originale senza snaturarla, solo per renderla accessibile a un pubblico che per questioni anagrafiche non ha mai avuto il privilegio di potersi confrontare con il capolavoro di Hideo Kojima. Al giorno d’oggi, purtroppo, Metal Gear Solid è una reliquia del passato, una serie che a mio avviso sta venendo dimenticata troppo in fretta per quello che ha rappresentato per la crescita del medium, e nonostante i tentativi fatti con la Master Collection è ancora uno spettro rievocato quasi esclusivamente da chi c’era per raccontare ai nuovi arrivati le meraviglie del passato del gaming. Non ho idea di come Delta verrà recepito dal nuovo pubblico, ma da insopportabile snob col mignolino alzato nel quale mi trasformo di fronte ai rifacimenti dei miei videogiochi preferiti posso solo dirvi che quella in esame è in assoluto la migliore delle operazioni possibili.
Non ho intenzione di dilungarmi oltre sul raccontare l’opera originale: è lì fuori (e anche qui dentro), e sta a voi scoprirla per toccarne con mano l’importanza. Appurato che Delta non tenta in nessun modo di mettere in atto la variazione suggerita dal suo titolo, quindi, voglio partire affrontando quello che per molti fan è stato l’elefante nella stanza: la nuova veste grafica. Sarò onesto: sono sempre stato avverso alla marea di critiche piovute dalla tribuna degli appassionati veterani una volta presentati i primi trailer, che hanno accusato il gioco di essere “senz’anima” per colpa dei nuovi modelli, delle animazioni facciali e del rendering aggiornato.
La verità è che sì, c’è sempre stato qualcosa di un po’ strano nella nuova estetica di Delta, ma mi è bastato poco per realizzare il perché: sono convintissimo del fatto che puntare ad un livello tecnico spaventosamente alto avrebbe distrutto la resa generale dell’esperienza, quindi ci si è mantenuti su una resa migliorata ma non troppo, per evitare che la ricerca ossessiva del fotorealismo potesse in qualche modo stridere con la resa di un videogioco in cui ci sono boss che controllano calabroni come se fossero armi e altri che possono dislocare le proprie articolazioni per muoversi come ragni capaci di volare. In questo senso credo che Virtuous abbia dimostrato di aver compreso molto bene le caratteristiche dell’opera originale prima di mettersi al lavoro per produrne un remake, e per quanto mi riguarda non era assolutamente scontato.
Al di là di questo, in realtà, le novità principali sono la nuova telecamera, che approfondisce notevolmente il discorso iniziato dall’edizione Subsistence, e lo schema dei comandi, riportato ad un layout decisamente più attuale e “familiare” al nuovo pubblico. Il nuovo punto di vista, in particolare, funziona bene nello svecchiare la formula ma permette un certo tipo di semplificazione per quelle sezioni che erano state pensate esplicitamente per essere giocate con visuale isometrica, ma al di là di questo non arriva davvero mai a stravolgere il feeling dell’opera originale. A questo si aggiunge il fatto che, finalmente, Delta ha introdotto anche una nuova fisica dei proiettili (soprattutto per quanto riguarda i tranquillanti), scongiurando così la possibilità di fare headshot da centinaia di metri di distanza senza alcuna fatica come succedeva su PlayStation 2.
WHAT A FEAR IN MY HEART
BUT YOU’RE SO SUPREME
Per il resto, come già detto, sotto la nuova impalcatura si nasconde ancora quel meraviglioso capolavoro che servì a traghettare la Metal Gear Saga verso la maturazione definitiva e che le permise di diventare un caposaldo della sua generazione, trattato con una cura e un rispetto semplicemente impressionanti. Sono state mantenute tutte le stranezze e le “coccole” per il pubblico più affiatato che facevano parte dell’offerta originale, a partire dalla caccia alle kerotan (qui affiancate da un nuovo tipo di collezionabile inedito e decisamente più difficile da “raccogliere”) fino ad arrivare agli assurdi filmati bonus del secret theater e, addirittura, ad un rifacimento integrale di Guy Savage, la bozza di stylish action inserita come easter egg all’interno di Snake Eater, qui reimmaginata da nientepopodimeno che Platinum Games (!!).
Era lecito aspettarsi che tutti questi contenuti extra venissero espunti da Delta, ma Virtuous e Konami hanno fatto un lavoro di preservazione encomiabile, mantenendo perfettamente integra l’anima di Metal Gear solid 3 a ormai vent’anni dalla pubblicazione ufficiale. Non me lo aspettavo, ma è stata una sorpresa che ho gradito molto più di quanto non sia capace di far trasparire a parole. L’altro elemento che mi sento di dover sottolineare è l’impressionante numero di volte in cui a schermo viene mostrato il nome di Hideo Kojima e quelli dello staff che si occupò dello sviluppo dell’originale. È abbastanza assurdo pensare al fatto che una decina di anni fa il mondo stava scoprendo che Konami avesse deciso di cancellare il nome di Kojima dalla copertina di The Phantom Pain per poi licenziarlo in tronco e vietargli di apparire in pubblico per anni, mentre oggi l’azienda sembra tentare disperatamente di riallacciare i rapporti con ammiccatine sorridenti e vere e proprie dichiarazioni di intenti.
Forse è troppo tardi per ricucire quella ferita, e sarebbe folle pensare che la bontà di Delta e delle altre pubblicazioni di Konami possano in qualche modo bastare per lasciarsi alle spalle la gestione scellerata dell’ultimo decennio e il trattamento disumano riservato ai propri dipendenti di punta nel 2015. Il fatto è che, comunque, un mea culpa indiretto così esplicito da un’azienda come Konami non me lo sarei mai aspettato, tant’è che avevo ormai fatto pace con l’idea che la mia software house preferita di un tempo aveva semplicemente deciso di disinvestire nel gaming tradizionale e sparire per sempre. Qualche giorno fa mi sono invece ritrovato in un padiglione della Gamescom di fronte ad uno stand dedicato a Delta e a Silent Hill F in cui il logo di Konami troneggiava con prepotenza e le mie convinzioni hanno vacillato pericolosamente. Non posso perdonare a Konami l’ultimo, orripilante decennio, eppure c’è qualcosa in questa nuova epoca dell’azienda che sembra voler comunicare a tutti i costi che il vento sta finalmente cambiando.
Io, sotto sotto, ci spero davvero, ma è ancora troppo presto per dirlo.
I’M STILL IN A DREAM
Tornare oltre la cortina di ferro a mangiare serpenti e alligatori mi ha riportato indietro nel tempo. Oggi posso permettermi di sopravvivere scrivendo di videogiochi, ma Delta mi ha riportato all’epoca in cui almeno una volta all’anno mi rinchiudevo nella mia cameretta, al buio, ad esplorare le foreste di Sokrovenno e la base di Groznyj Grad cambiando mimetica ogni tre passi e tentando di arrivare ai titoli di coda senza far mai suonare un allarme. È stata un’esperienza catartica che mi ha imposto di fare i conti con il tempo che è trascorso da quei momenti magici della mia giovinezza e che mi ha ricordato ancora una volta perché oggi ho deciso di prendere i rischi che mi sono preso pur di trasformare questa cosa in un mestiere. Da fan sfegatato della Metal Gear Saga e amante tradito dalla Konami che fu avrei voluto odiare Metal Gear Solid Delta con tutto me stesso. Sarebbe stato paradossalmente molto più facile osteggiarlo che apprezzarlo, visto l’astio dei fan nei confronti di questa operazione di recupero, ma le nove ore che ho passato in compagnia di Delta mi hanno riportato a un’epoca che non mi ero davvero ancora reso conto mi fosse mancata così tanto. Ho sorriso ancora per la scala più famosa della storia dei videogiochi, mi sono emozionato di fronte all’intro e si, ho versato altre lacrime in mezzo a quel maledettissimo campo di fiori bianchi affacciato sul lago.
Non solo: il vero grande pregio di Metal Gear Solid Delta è che mi ha rimesso addosso una voglia imbarazzante di rimettere mano sulla mia saga preferita, e ha acceso in me la curiosità di capire se un’operazione del genere sarebbe possibile anche con altri capitoli come i primi due o Peacewalker. Sotto sotto adesso spero possa succedere tra qualche anno.
Bravi, bravi e ancora bravi, anche se la strada per Konami è ancora tutta in salita questo è stato un passo importante per riabilitarsi agli occhi del pubblico ferito e allontanato anni fa.
Pubblicato il: 25/08/2025
Provato su: PC Windows
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