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LUTO
L’orrore nel quotidiano
Mi sveglio, apro la porta, attraverso il corridoio. Sulla sinistra, un mobile ricoperto di caramelle, foto, cartacce. Giro a destra. Dalla radio giunge una voce maschile: si parla di un terribile pluriomicidio familiare. Proseguo senza soffermarmi troppo. Apro la porta. Solo che non vado avanti: torno nel corridoio iniziale. Ancora e ancora.
Esistono videogiochi capaci di avere un’influenza incalcolabile senza nemmeno esistere. È il caso di Silent Hills. Anzi: qualcosa di Silent Hills è esistito, e continua a crescere e prosperare nella mente di migliaia di persone. Perché P.T., la sua demo – sopra ve ne ho descritto l’incipit – è la testimonianza in carne viva di quella che avrebbe potuto essere una svolta nella storia di un franchise storico di casa Konami. È una sliding door nel mondo videoludico, senza dubbio, dato che lo sviluppo era stato affidato a Kojima Productions, con una collaborazione creativa tra Hideo Kojima e il regista Guillermo del Toro. Una svolta fantasma.
Era una demo piena di inganni fin dall’inizio, a partire dal team di sviluppo: si dichiarava trattarsi di “7780s Studio”. Peccato non esistesse alcun 7780s Studio. Protagonista avrebbe dovuto essere Norman Reedus, che oggi conosciamo come interprete del personaggio principale della serie Death Stranding. Dico “avrebbe dovuto essere” perché chi nel 2014 c’era, o comunque ha studiato un po’ della storia recente dei videogiochi, ben sa che Silent Hills era destinato a fermarsi lì: allo stadio di P.T. Eppure, c’è chi giura e spergiura che anche così, anche soltanto in forma di demo, P.T. sia il miglior videogioco horror di tutti i tempi.
Fin dai primissimi momenti, si capisce che P.T. parla di casa e anche di famiglia. Siamo ben lontani dai canoni di un orrore frequentatissimo come quello lovecraftiano: qui non ci confrontiamo con esseri potentissimi venuti dalle stelle, talmente misteriosi e incomprensibili da non poter neanche essere compiutamente descritti – e figurarsi se possono essere affrontati. Ci troviamo nei corridoi dell’ambiente che ci è più familiare: quello domestico. La casa ha avuto grandissima fortuna nel canone horror cinematografico prima e videoludico poi, in quanto simbolo di sicurezza e rifugio per eccellenza. Cosa può accaderci di male quando siamo chiusi e tranquilli in casa? Niente, vero? Ecco, il capovolgimento sta tutto qui, ed è più concreto di quanto si immagini. Per dirne una, secondo i dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Statistica l’emergenza generata dall’epidemia di Covid-19 ha accresciuto il rischio di violenza sulle donne. Le limitazioni imposte dal governo hanno costretto in casa milioni di persone, anche chi si ritrovava a convivere con il proprio abuser. C’è chi teme un colore venuto dallo spazio – chi ha letto Lovecraft capirà il riferimento – e chi è costretto ad avere preoccupazioni ben più impellenti. Più vicine. Magari nella stessa stanza. E P.T. fu una grande intuizione anche in questo senso.
La casa è uno spazio di racconto familiare soprattutto per il mondo del videogioco indipendente. Nel 2013, Gone Home ci buttava indietro nel tempo, fino alla metà degli anni Novanta, mettendoci nei panni della giovane Kailtin Greenbriar. Appena tornata a casa da un lungo viaggio all’estero, scopre che sua sorella Samantha è sparita. E le stanze sono completamente vuote. Quella che segue è un’investigazione che ricostruisce i rapporti tormentati tra i membri della sua famiglia. Quattro anni dopo, What Remains of Edith Finch ci accompagnò alla scoperta della magione dei Finch e delle vite di tutti coloro che l’avevano abitata. Con trovate fenomenali a livello di gameplay, la produzione di Giant Sparrow si è meritata un posto d’onore nella storia dei videogiochi.
I titoli sopra citati non sono un semplice elenco: sono parte del DNA di Luto, opera di debutto del piccolo studio spagnolo Broken Bird Games. La prima mezz’ora di gioco è una esplicita citazione a P.T. Con un twist (che inizialmente non ho apprezzato): la presenza di una voce narrante. Mi è sembrato di trovarmi in una versione horror di The Stanley Parable – il che faceva davvero strano. Eppure, sono stata costretta a cambiare velocemente idea. Intrappolata nella casa e in una visuale in prima persona che mi impedisce di vedere le fattezze di Sam, il protagonista, inizio a guardarmi intorno ossessivamente alla ricerca di appigli, di indizi. Lo specchio del bagno è rotto in mille pezzi e circondato da post-it gialli con scritte di ogni tipo. Le porte del corridoio sono tutte chiuse (si apriranno, una volta o l’altra?). Scendo le scale: il narratore mi dice che devo uscire di casa per andare a lavoro. Al piano di sotto c’è un piccolo portagioie della nonna – ma, a quanto pare, Sam non è mai riuscito a trovarne la chiave. Prendo la via della porta, esco. Anzi, no: torno davanti allo specchio rotto del bagno.
La struttura ricorsiva di Luto ben si presta a raccontare una mente fratturata dal trauma e a costringerci a percorrere gli stessi spazi più e più volte. Ben presto mi sono ritrovata a chiedermi come andare avanti: sembravo intrappolata in una serie di stanze e corridoi che non mi offrivano alcuna via d’uscita. Poi, l’illuminazione: dei suoni mi hanno portata a scoprire che quell’enigma era basato su degli oggetti abilmente nascosti in giro per la casa. È soltanto una delle ottime idee di Luto, che mi ha anche regalato un “momento Psycho Mantis” meravigliosamente congegnato, e tantissime sorprese fino al suo finale, che nel mio caso è arrivato dopo quasi cinque ore. Immagino, però, che saranno in molti ad avvalersi di una guida online per superare alcuni passaggi: forse, la logica di questo mondo piegato dal dolore è a volte fin troppo opaca. Mai ai livelli del connubio tra un pollo di gomma con una carrucola, ma ecco, credo che ci siamo capiti.
Ho ben presto scoperto che quello spazio domestico racconta la storia – ahimé fin troppo comune – di una famiglia perturbata da una gravissima perdita. Nella schermata iniziale, gli sviluppatori giustamente avvertono il giocatore dei temi trattati all’interno del gioco. L’infestazione che ne segue è la testimonianza di come il passato possa alterare il nostro presente, e continuare a scrivere il nostro futuro. Sì, talvolta ho trovato difficile leggere tra le righe di Luto, trovare la strada tra gli appunti sparsi per l’ambientazione, gli oggetti da raccogliere, e il silenzio opprimente di tanti suoi momenti. Ma la natura del suo orrore è di quelle che non mettono una pressione eccessiva: i jumpscare sono ben dosati, e sono poche le situazioni in cui il tempo è poco, e la velocità è d’obbligo. Luto preferisce darci il nostro tempo di camminare, riflettere, e provare un senso di tensione e di oppressione concreto, pesante. Lo fa avvalendosi di un comparto tecnico di pregio per una produzione di scala tutto sommato ridotta: il team ha dimostrato una padronanza eccellente dei mezzi forniti da Unreal Engine 5. E lo stesso vale per quanto riguarda gli aspetti sonori – cui sopra ho accennato – fondamentali per costruire un panorama che fa dell’orrore sottile, mai sbandierato, il suo marchio di fabbrica.
Dire troppo, per videogiochi come questo, significherebbe rovinare l’esperienza a chi non si è ancora avvicinato all’opera. Mi limiterò a dire che trovo ben più spaventosa una insegna al neon azzurra con la scritta EXIT che lampeggia beffarda nell’ennesimo corridoio senza uscita rispetto a mille mostri abissali coi tentacoloni posizionati in maniera strategica per farmi saltare sulla sedia. Lo sapevano bene Hideo Kojima e il suo team mentre creavano quella storica demo; lo sa benissimo questa giovane squadra di sviluppatori spagnoli. Che ben sanno che l’orrore vero sta nel quotidiano, in ciò che crediamo di conoscere bene, e nelle conseguenze che può avere la perdita di una persona cara. La casa continuerà a essere spazio dell’orrore intimo e personale, specchio della mente di chi la abita: rifletterà sempre il suo contemporaneo. E per questo è un luogo prezioso anche per quella forma d’arte che chiamiamo videogioco.
Pubblicato il: 06/08/2025
Provato su: PC Windows
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