DOOM
THE DARK AGES
Sono fermamente convinto del fatto che Doom e il sottogeneri del metal estremo vadano a braccetto sin dal primo giorno. Doom, dopotutto, nasce nell’epoca in cui il metal era agli apici della sua popolarità in tutto il mondo, tant’è che la colonna sonora dei primi due capitoli è il prodotto finale di una ricetta che prevedeva di prendere Metallica, Alice in chains, Slayer, S.O.D. e Black Sabbath, schiaffarli in un frullatore elettrico e versare il risultato in un teschio. E1M1 - At Doom’s Gate potrebbe essere un b-side di Kill ‘em All dei Metallica, Shawn’s Got the Shotgun è un clonazzo di South of Heaven degli Slayer, mentre Facing the Spider è un chiarissimo omaggio a Sargent D and the SOD degli Stormtroopers of Death. Un tributo alla golden age del Thrash Metal tutto capelli lunghi, riff velocissimi e croci rovesciate che sfidavano la buoncostume americana degli ‘80. Quando Mick Gordon si è ritrovato tra le mani la colonna sonora di Doom 2016, reboot tanto inaspettato quanto glorioso nell’esecuzione, ha ripreso quelle suggestioni e le ha aggiornate, inserendo elementi Djent e Industrial che raccontavano sì la voglia di omaggiare il passato, ma anche l’idea che Doom stava finalmente entrando nella modernità. Allora giù di chitarre accordate in Drop D, di palm mute assassini e bassi ciccionissimi per quello che fu un vero e proprio assalto sonoro che sembrava provenire direttamente da un disco dimenticato dei Meshuggah. Quando fu il turno di Doom Eternal, però, Mick Gordon si accorse di una cosa: associare ad un gioco così frenetico una OST che cercasse di andare alla stessa velocità era pressoché impossibile. Decise quindi di andare in direzione opposta. Decise di rallentare.
Si accorse di quello cui tanti gruppi metal venuti dopo gli ‘80 si erano già accorti durante la loro ricerca di un suono che fosse ancora più estremo di quanto già fatto da Slayer e Metallica anni prima. Provate voi stessi: mettete su Whiplash dei Metallica, che è un pezzo velocissimo e intriso di quella violenta presabene degli albori del Thrash, poi mettete su Slowly We Rot degli Obituary. È più lenta, ma la sua lentezza la rende di una pesantezza esorbitante, quasi primitiva. Il Death Metal, dopotutto, è soprattutto questo. Quando Microsoft ha mostrato per la prima volta Doom: The Dark Ages, confermando che si trattasse di un prequel del nuovo corso intrapreso dalla serie dal 2016 in poi, nella mia testa il gioco di iD Software ha assunto una forma e, soprattutto, un suono molto chiari. The Dark Ages doveva rappresentare una sorta di evoluzione regressiva del brand, un passo verso un’ultraviolenza primitiva e grottesca intinta in ambientazioni dark-fantasy.
Per certi versi Doom: The Dark Ages è effettivamente così, un FPS vecchia scuola che anziché evolvere il modello di Doom Eternal torna a Doom 2016 e fa il percorso inverso, rallentando l’azione per renderla pesante e pachidermica anziché lanciarsi nelle mille e più acrobazie dell’ultimo capitolo. Lo si capisce immediatamente, nell'esatto istante in cui si prende il controllo del Doom Slayer e ci si getta in picchiata sui primi nemici: quando i piedi dello Slayer toccano terra il tonfo che si sente è potentissimo, simile a quello generato dalla collisione di due placche tettoniche, e l’onda d’urto generata dallo schianto spappola sul posto una decina di nemici. The Dark Ages abbandona del tutto le suggestioni quasi platformiche di Eternal, raffredda i ritmi e si concentra sulla pesantezza dei movimenti, degli scontri e degli impatti in quella che, sulle prime, è una formula che ho apprezzato più di quanto pensassi. Eternal, per me, fu un capitolo complicato, così frenetico e caotico da risultare eccessivo nella velocità d'esecuzione richiesta per far sì che il gameplay potesse esprimersi al meglio. Speravo davvero in un capitolo che recuperasse l’incedere di Doom 2016 e, almeno in parte, sono stato accontentato.
The Dark Ages si ambienta su Argent, un pianeta stretto nella morsa delle legioni infernali da una parte e da una casta clericale dall’altra. In questo contesto lo Slayer è considerato alla stregua di un’arma di distruzione di massa, una pericolosissima risorsa bellica da schierare sul campo di battaglia come ultima spiaggia per sopravvivere alle spietate incursioni delle armate dei principi dell’inferno. Ho apprezzato tantissimo il fatto che nelle prime fasi, ogni volta che il Doom Slayer cammina tra le sentinelle queste siano pervase da un terrore reverenziale nei suoi confronti. Bisbigliano al suo passaggio, si intimano l’un l’altro di non intralciare il suo cammino per paura di quella che ai loro occhi è praticamente una testata termonucleare semovente. Mi ha fatto sentire pericoloso, importante e temuto, caricandomi di una voglia spropositata di macellare Imp e Cacodemoni come se non ci fosse un domani. E almeno all’inizio questo basta a donare a The Dark Ages un’identità chiaramente distinta e riconoscibile, peccato che quella che incarna è una rivoluzione che una volta arrivato in fondo mi ha convinto meno di quanto avrebbero voluto Bethesda e Microsoft.
Partiamo dalle basi: la novità principale di Doom: The Dark Ages è senza ombra di dubbio lo scudo a sega di cui è dotato lo slayer. Si tratta, di fatto, della prima arma esplicitamente difensiva che sia entrata a far parte del suo arsenale ammazzademoni; lo si può usare offensivamente scagliandolo sul grugno dei mostri più grossi e incazzati per squarciarne i lineamenti, certo, ma lo si usa principalmente per parare i colpi nemici e rispedirli al mittente in caso vengano eseguiti dei parry temporizzati con precisione. La dinamica del tutto inedita che si innesca grazie a questa aggiunta è, senza bisogno di girarci attorno, una figata: il cuore di The Dark Ages è proprio questa strana e inedita danza che richiede al giocatore di trincerarsi dietro lo scudo a sega per poi compiere un affondo in punta di doppietta sulle malcapitate legioni infernali inviate a fermare la furia omicida dello slayer. È una dinamica divertentissima, orgogliosamente inelegante, che racconta benissimo l’idea di essere ai comandi di un vero e proprio carro armato umano capace di assorbire una quantità disumana di attacchi prima di cominciare anche solo a vacillare. A dire la verità, però, mi ha lasciato abbastanza frastornato constatare che iD Software abbia deciso di sacrificare sull’altare di questa nuova iterazione del franchise le glory-kill, estromesse dall’equazione dell’ultraviolenza di Doom proprio in concomitanza del capitolo in cui avrebbero avuto un impatto scenico enorme.
L’altro elemento che mi ha confuso notevolmente è il nuovo approccio adottato dal level design. Si, perché The Dark Ages non è solamente il capitolo di Doom più lungo di sempre (VENTIDUE missioni), ma è anche quello con le mappe più estese in assoluto. Ci sono dei frangenti in cui ci ritrova catapultati in delle mappe gigantesche e labirintiche infarcite a forza di una quantità soverchiante di segreti, codex, collezionabili ed elementi opzionali che finiscono il più delle volte per allungare il brodo all’inverosimile, in un gioco ipertrofico che funziona bene solamente quando si lascia andare alle carneficine e che inciampa proprio quando rallenta troppo il ritmo dell’azione. L’errore sta proprio nel fatto che questo marasma di contenuti extra viene presentato come opzionale ma in realtà rappresenta una porzione fondamentale del sistema di progressione del gioco, dal momento che oro, rubini e pietre dei wraith sono le uniche valute utili per potenziare armi e abilità di combattimento dello slayer nel corso dell’avventura. Il risultato è che le missioni vengono ingloriosamente spaccate in due, mettendo da un lato i combattimenti e dall’altro le fasi esplorative più cervellotiche, il tutto all’interno di mappe enormi che filosoficamente mal si sposano con il fatto che Doom: The Dark Ages ha cestinato la frenesia e la profondità del traversal su cui poggiava molto bene Doom Eternal. Ne consegue che ci sono delle missioni in cui dopo aver passato qualche manciata di minuti a macellare allegramente demoni si arriva a spendere addirittura ore a gironzolare a piedi per aree enormi alla ricerca dei punti d’accesso alle zone segrete e ai loro tesori per potersi potenziare adeguatamente. Questo al netto del fatto che si tratta di un gioco che a difficoltà normali è decisamente più semplice dei suoi fratelli maggiori.
Questo fa emergere quello che secondo me è il difetto principale di Doom: The Dark Ages, ovvero il fatto che si tratta di un videogioco che cerca di fare troppe cose tutte assieme senza mai riuscire a trovare un equilibrio tra le sue diverse anime. Sfondare teschi di cacodemone è sempre un piacere che stimola la parte più primitiva e cavernicola dell’essere umano a cui piace dirsi civilizzato, ma nell’economia di gioco rappresenta solo una parte di un insieme sovraffollato di attività che finiscono per incastrarsi in maniera imperfetta l’una con l’altra. Bisogna necessariamente citare, infatti, anche le sezioni a bordo dei mech giganteschi che tanto mi avevano gasato nei trailer e quelle da affrontare a cavallo del drago dello slayer. Le prime sono una gimmick tanto simpatica quanto striminzita che si limita ad aggiungere del flavour al gioco, le seconde sono invece un mezzo disastro. Bello che si tenti di recuperare le atmosfere di Panzer Dragoon, per carità, ma quelle in compagnia del drago sono in assoluto le missioni più deboli e frustranti del gioco, azzoppate da un sistema di controllo del tutto inefficace che mi ha riportato alla mente la delusione che mi divorò il cuore quando misi per la prima volta le mani su Lair all’epoca del lancio di PlayStation 3. Si tratta, peraltro, della porzione di gameplay più statica e ripetitiva in assoluto. Nessuna forma di dogfighting, solo interminabili momenti di assoluta lentezza in cui stare immobili a mezz’aria in attesa che i nemici agganciati sparino un colpo da schivare per poi restituire il proiettile al mittente. Troppo poco e troppo superficiale per poter diventare parte dell’identità del gioco.
L’ultimo elemento che voglio prendere in esame è il setting del gioco, che a mio avviso sintetizza perfettamente la confusione di questo nuovo Doom. The Dark Ages è stato presentato in maniera roboante e sottolineando a più riprese l’intenzione di voler vendere al pubblico un titolo che portasse finalmente lo slayer lontano sia nel tempo che nello spazio dalla catastrofe infernale sci-fi in cui la serie lo ha sempre visto invischiato. L’idea di un Doom dark fantasy l’ho trovata immediatamente geniale, soprattutto perché non vedevo l’ora di vedere come la brutalità della serie potesse sposarsi con l’oscura violenza rituale di un certo modo di intendere il Medioevo, tutto mazzafrusti e torture spietate. La verità è che in Doom: The Dark Ages il Medioevo quasi non esiste. Anzi, a dirla tutta la direzione intrapresa da iD sembra quella di aver voluto plasmare questo nuovo capitolo non sul mitologico oscurantismo dell’anno 1000 ma sull’immaginario canonizzato da Warhammer 40.000. Che non è di per sé un male, ovviamente, visto che stiamo parlando di uno degli universi narrativi più affascinanti che siano mai stati partoriti da una mente umana, ma è in netta controtendenza con la comunicazione stessa del gioco. Per intenderci: non basta fornire lo slayer di scudo, pellicciotto e pugno di ferro per far passare il messaggio che The Dark Ages vuole raccontare un medioevo draconiano intergalattico, soprattutto se poi gli ambienti attraversati sono spesso e volentieri molto simili a quelli di altri capitoli e se un terzo di gioco vira verso un immaginario esplicitamente lovecraftiano.
Tra l’altro va segnalato che per fortuna iD ha fatto un passo indietro rispetto alla narrativa di Eternal, che era fastidiosamente infarcito di log e documenti da leggere per approfondire a dovere una trama molto più ingombrante del previsto (se gioco a Doom vuol dire che ci sono delle ottime probabilità che io non sappia leggere, e va benissimo così), ma questo non vuol dire che questo capitolo non abbia delle ambizioni narrative e una messinscena chiaramente cinematografica. Comprendo perfettamente il bisogno di voler parlare ad un pubblico che potrebbe essere interessato ad un approfondimento narrativo dell’universo di Doom e non solo alla sua poderosa galleria di violenza gratuita, anche se a dirla tutta di strada da fare da quel punto di vista ce n’è ancora tantissima. Non voglio dire che la cornice di trama a cui si aggrappa The Dark Ages non possa essere interessante, solo che il gioco sa essere un bel colabrodo di buchi di sceneggiatura e di incongruenze narrative non da poco. Che va benissimo per Doom perché è Doom e non impattano mai davvero sulla godibilità del gioco, ma ci sono dei momenti in cui questi cali di attenzione sono difficili da non notare. Da sottolineare la pesantissima mancanza di Mick Gordon alla colonna sonora: visti i pessimi trascorsi si sapeva che Gordon non avrebbe preso parte alla composizione della OST di questo nuovo capitolo, ma va detto che chi lo ha sostituito si è limitato al compitino e non è stato assolutamente in grado di plasmare il nuovo suono di Doom. Niente Death Metal primitivo trita ossa come sognavo da mesi, solo una placida e timorosa imitazione di quella meraviglia che fu il periodo di BFG Division, Rip and Tear e The Only Thing They Fear Is You. Un grandissimo peccato.
In definitiva credo che Doom: The Dark Ages sia un buon videogioco, capace di solleticare quella parte animalesca che alberga nel cuore di tutti e di mettere in piedi un combat system che mi ha francamente divertito di più della frenesia allucinata di Eternal. Il suo problema è che si sorregge su una confusione abbastanza evidente, figlia del tentativo maldestro di voler mettere insieme troppe cose tutte assieme senza che si sia riusciti davvero a bilanciarle tra loro in maniera coerente. Non è mai brutto o insufficiente (neanche lontanamente, fidatevi), ma molto difficile da inquadrare. Se siete orfani di Doom Eternal è molto probabile che il primo contatto con l’ultima produzione di Bethesda e iD possa generare in voi uno shock non da poco, mentre se invece siete come me più affezionati alla formula del capitolo del 2016 allora potreste apprezzarlo molto più del previsto. In senso assoluto, e questo un po’ mi spiace constatarlo, siamo di fronte al capitolo più debole di questa nuova trilogia doomiana, di sicuro quello più incerto su ciò che vuole essere.
Ad oggi non posso che chiedermi in che direzione andrà la serie, visto che è stato più volte esplicitato che Eternal non avrebbe avuto sequel. Qui lo dico: rifinire la struttura di The Dark Ages sarebbe estremamente interessante, visto che si tratta di una base che al netto dei suoi inciampi ha del potenziale ancora inespresso che meriterebbe di esprimersi al meglio. Magari la prossima volta con la colonna sonora firmata dai Sulphur Aeon o dai Blood Incantation.
Pubblicato il: 09/05/2025
Provato su: PC Windows
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