SPLIT

FICTION

SPLIT FICTION

TUTTA LA FOLLIA DI HAZELIGHT STUDIOS

Sembra passata un’era geologica da quando Josef Fares, da quasi completo sconosciuto agli occhi del grande pubblico, si prese la scena dei The Game Awards urlando nel microfono quel “fuck the oscars” che lo ha reso istantaneamente un’icona di questo settore. Quel colpo di testa arrivava a margine della presentazione di A Way Out, che è tutto sommato un buon videogioco cooperativo e che ha venduto bene sin da subito, ma a cui è mancata la forza per imporsi come paradigma nell’immaginario videoludico. Fares e il suo team hanno sempre avuto una visione molto precisa di quello che è diventato negli anni il loro videogioco-tipo: un’esperienza cooperativa che impone ai giocatori di trovarsi un partner per poterla esplorare, puntando forte sulla comunicazione e sull’intreccio di abilità e competenze differenti sviluppate nel corso del playthrough. È una formula che ho sempre trovato estremamente affascinante proprio per la riluttanza di Hazelight Studio nel conformarsi ai dettami di un mercato che è sempre più focalizzato sulle esperienze single player iper cinematografiche o su videogiochi multigiocatore inquadrati come servizi a cui destinare centinaia di ore.

Il vero grande successo, però, è arrivato nel 2021, quando a ridosso degli strascichi di una pandemia che ha obbligato tutti a riscoprire nuovi modi di sperimentare la socialità Hazelight ha pubblicato It Takes Two tra gli applausi scroscianti di pubblico e critica. Fu l’anno della rivalsa per Fares, che da quasi completo outcast si portò a casa il premio come videogioco dell’anno da sventolare in faccia a tutti quelli che avevano bollato la sua ossessione per la cooperazione in-game come una perdita di tempo facile da vendere ma incapace di lasciare realmente il segno. Da quella premiazione sono cambiate tante cose: è cambiata l’industria, è cambiato il pubblico ed è cambiato anche il nostro rapporto con i videogiochi. Il mutamento più evidente, però, lo ha visto proprio Hazelight Studio, che forte del suo trionfo ha verosimilmente ottenuto carta bianca da parte di Electronic Arts e ha potuto mettere in cantiere un videogioco che non doveva più temere dubbi e limitazioni di sorta.

Split Fiction è il prodotto di questo infinito marasma di avvenimenti ed è figlio del lungo percorso che ha portato Hazelight ad essere rispettata come una delle aziende migliori sulla mappa in questo momento, e si vede. Sia nel bene (e di bene ce n’è tanto), sia nel male (e di male ce n’è più del previsto). 

La formula non è cambiata; Split Fiction è ancora un videogioco cooperativo pensato per essere giocato esclusivamente in coppia, ancora più geloso della componente giocosa del suo modo di intendere il gaming. Ad essere cambiate sono le sue premesse: It Takes Two era un gioco fiabesco nei toni e nell’estetica che riusciva a raccontare con sagace leggerezza il dramma di una storia d’amore giunta alle sue ultime battute e delle conseguenze che questo comportava sulla vita della bambina nata da quel legame, mentre Split Fiction dimostra da subito di volersi prendere molto più sul serio, almeno da un certo punto di vista

La premessa è quella che, in un futuro non troppo lontano dal nostro, il capitalismo ha partorito l’ennesima delle sue odiose mostruosità, ovvero una macchina capace di rubare le idee degli scrittori e di immagazzinarle in un grande database da utilizzare per rendere la creatività un prodotto misurabile in numeri e rivendibile al pubblico senza più l’intralcio degli autori. Il funzionamento del processo è semplice: una volta che un autore prende posto all’interno di una delle capsule collegate al macchinario questo viene posto in una sorta di animazione sospesa, e la sua coscienza viene proiettata all’interno di una simulazione visiva della storia che hanno proposto alla casa editrice per la pubblicazione. 

Mio e Zoe sono due scrittrici emergenti che vengono ingaggiate dalla Raider, spietata corporation responsabile della creazione del macchinario mangia-idee, con la falsa promessa di un contratto di pubblicazione. 

Quando si incontrano in ascensore capiscono immediatamente di essere due persone agli antipodi: una è timida, scontrosa, riservata e appassionata di fantascienza; l’altra è solare, ingenua, energica e profondamente innamorata del fantasy. 

Quando le due vengono spronate a collegarsi alla macchina Zoe accetta senza indugi, ma la diffidenza di Mio la spinge a rifiutarsi, e nel tentativo di sottrarsi alla procedura finisce intrappolata nella stessa capsula in cui è chiusa l’altra ragazza, causando un pericoloso glitch nel sistema che minaccia di distruggere la macchina e che finisce per “sovrapporre” le coscienze delle due ragazze all’interno della simulazione in cui sono inserite, portandole a convivere all’interno dei mondi immaginati da entrambe.

Questo dà il via ad un’avventura abbastanza fuori di testa in cui Zoe e Mio si ritrovano a collaborare nel tentativo di liberarsi e di salvare la propria creatività dalle grinfie della corporation che vuole impadronirsene a loro spese. Per farlo devono attraversare i mondi immaginari dei libri di entrambe all’inseguimento delle manifestazioni fisiche dei glitch del software, andando quindi avanti e indietro tra scenari di pura fantascienza cyberpunk e ambientazioni figlie dei classici racconti fantasy

Da qui nasce quello che, almeno ai miei occhi, è il primo grande problema di Split Fiction, che va ricercato nella grande disomogeneità tra le sue due anime. È naturale che le parti fantascientifiche e quelle fantasy siano profondamente differenti tra loro, dopotutto si tratta proprio di uno dei contrasti molto forti su cui si basa il gioco nella sua interezza, ma sin dai primi momenti non ho potuto che constatare che i mondi sci-fi di Split Fiction sono estremamente meno interessanti della loro controparte fantasy. Esiste una certa distanza in tutto, a partire dalla realizzazione estetica, che nel caso delle storie di Mio mi è sembrata molto piatta e priva di mordente, fino ad arrivare alle meccaniche di gioco peculiari di queste sezioni nello specifico. Il lato sci-fi è, per me, molto meno ispirato e leggibile dei mondi nati dalla penna di Zoe. Si tratta di sicuro di una valutazione che non può prescindere dal gusto personale, è ovvio, ma trovo quantomeno curioso che una persona come me, da sempre refrattaria al fantasy classico e profondamente innamorata della penna di William Gibson, si sia ritrovata ad essere molto più attratta dai prati incantati del Sottomondo che dalla distopia retrofuturistica delle storie di Mio. Di solito è più forte di me: di fronte ad elfi e gnomi mi cadono le braccia, e obbligato a scegliere tra Il Signore degli Anelli e Neuromante sceglierò sempre il secondo. Qui il rapporto si è invertito.

 La colpa è principalmente del level design, che in un caso è fin troppo lineare mentre nell’altro prevede lunghe sezioni composte da bivii e intrecci capaci di mostrare le vere potenzialità della formula ideata da Josef Fares. Intendiamoci, il colpo d’occhio è spesso veramente grandioso (a patto che non si vada alla ricerca dei dettagli) e succede di frequente di rimanere abbastanza a bocca aperta di fronte agli scenari in cui ci si ritrova a giocare.

L’altro aspetto da segnalare è il fatto che Split Fiction si appoggia ad una trama estremamente banale, del tutto incapace di costruire un racconto in grado di sorreggersi autonomamente sulle proprie gambe. La storia della corporation cattivona guidata da un cattivo che è cattivo perché sì è stantia e per nulla interessante (It Takes Two, pur non essendo una masterclass di scrittura, era infinitamente più efficace nel centrare il punto della sua narrativa), spesso banale nell’intreccio e tristemente scadente nella scrittura dei dialoghi. 

Questo porta a due conseguenze: da un lato quella di Zoe e Mio che si ritrovano a collaborare controvoglia fino a diventare amiche è una storia senza guizzi di alcun tipo (al punto che ogni rivelazione sulla vita di entrambe è anticipabile di ore senza mai sbagliare), dall’altra Split Fiction può permettersi di fare il diavolo a quattro e di lasciarsi andare ad un caleidoscopio di idee di gameplay spesso molto divertenti che non devono rendere conto in nessun modo alla situazione in cui vengono generate. 

Quando Fares ed Hazelight hanno definito il gioco come il più folle mai prodotto dal team non mentivano. Split Fiction è completamente fuori di testa, a volte pure troppo. Le prime ore sono caratterizzate da un continuo rimpallo tra porzioni di gameplay diversissime tra loro in cui si è chiamati ad interagire con delle meccaniche che cambiano con grande rapidità. 

Già solo nel primo capitolo si passa da sezioni in cui muoversi manipolando la gravità a momenti di combattimento corpo a corpo, passando da sfrenate corse in moto che citano Akira e momenti di platforming 2D. Su questo impianto già molto ricco si innestano poi le storie secondarie, che altro non sono se non esperienze molto contenute in cui Hazelight si è sbizzarrita per costruire dei piccoli momenti di gameplay unici nel loro genere in cui sperimentare con meccaniche uniche e citazioni sfrenate a qualsiasi cosa sia capitato a tiro degli sviluppatori. Sa essere molto divertente, però la sensazione che ho provato è stata quella di essere stato infilato a forza in un grande frullatore. C’è poca coerenza ludica, così poca che il risultato sulle prime è davvero confuso.

Poi, però, succede qualcosa e Split Fiction decolla. Ci vogliono ore (almeno sei o sette), ma una volta superati i primi capitoli il gioco trova finalmente una formula davvero vincente e comincia a costruire un percorso di crescita e progressione delle stesse meccaniche all’interno dei suoi capitoli principali, ed è in quel momento che tutto fa click e pezzi trovano il loro posto. Prenderò ad esempio il primo momento in cui avviene questa piccola magia cercando di non spoilerare troppo: si tratta di una sezione in cui Zoe e Mio si ritrovano ad avere a che fare con una coppia di draghi appena usciti dalle rispettive uova. Ogni checkpoint coincide con uno stadio evolutivo dei draghi, le cui abilità migliorano e si evolvono di pari passo alle creature, creando finalmente un senso di reale progressione interna del gioco anziché far leva sul turbine di idee diverse presentate quasi senza soluzione di continuità fino a quel momento. La qualità dell’interazione con il player 2, nonostante tutto, resta sempre di altissimo livello e questo va riconosciuto a Fares e ai suoi. Non esiste alcun team al momento in grado di produrre esperienze da couch co-op di questo grado qualitativo.

Ciò che mi porto a casa dopo le ore passate nelle menti di Zoe e Mio è quanto sia sfacciatamente evidente che il team si sia divertito da matti nello sviluppare Split Fiction. È un gioco che pesca da un calderone gigantesco di influenze e riferimenti super eterogenei. Ci sono momenti in cui si passa da una citazione a Crash Bandicoot ad un richiamo ad Assassin’s Creed nel giro di pochissimi istanti e sezioni dedicate agli snowboarding game di fine anni ‘90, ai run ‘n’ gun, ai rail shooter e chi più ne ha più ne metta.

E occhio che non si tratta di citazioni nostalgiche buttate lì un tanto al chilo, ma riferimenti molto precisi che dimostrano soprattutto quanto gli sviluppatori conoscano a fondo la materia che stanno trattando. Il risultato finale è un videogioco sicuramente meno sorprendente di It Takes Two (che stravolse l’immaginario proprio di Hazelight ai tempi della sua pubblicazione) ma che quando riesce a trovare una quadra migliora esponenzialmente e mantiene sempre altissimo il livello del divertimento. 

È chiaro anche che Split Fiction abbia abbandonato le velleità quasi “pedagogiche” del GOTY 2021: non si tratta più di un videogioco diretto anche a quella fetta di pubblico che i videogiochi non li ha quasi mai toccati, ma di una produzione più mirata verso a coppie di videogiocatori decisamente più navigate. Lo dimostrano, per l’appunto, le citazioni appena discusse (che possono essere colte solamente da chi frequenta il medium con una certa costanza) e anche il grado di azione e complessità dei movimenti richiesti per attraversare ogni singolo scenario proposto. 

Lunga vita a Josef Fares e ad Hazelight Studios quindi, anche se la prossima volta preferirei meno foga di voler fare tutto a tutti i costi e un ritorno ad una scrittura un pelino più elegante. 

Va benissimo anche così (soprattutto alla luce delle ore finali del gioco che sono semplicemente incredibili), perché i videogiochi di questo tipo e fattura sono pochi e vanno celebrati nella loro voglia di distinguersi e di andare controcorrente

Pubblicato il: 04/03/2025

Provato su: PlayStation 5

Abbonati al Patreon di FinalRound

Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori

5 commenti

Menomale che qualcuno lo dice che la scrittura è banale! Ottima recensione come sempre

Bueno son contento che vada Bene e con decisione per la sua strada !

Gioco fantastico, tanto quanto l'impaginazione!

geniale :

info@finalround.it

Privacy Policy
Cookie Policy

FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128