Like a Dragon

PIRATE YAKUZA

IN HAWAII

Me lo ricordo ancora come se fosse ieri il giorno in cui ho avviato per la prima volta Yakuza Kiwami sulla mia PlayStation. Erano gli anni del revival degli ‘80, quelli in cui internet cominciava a scoprire il city pop giapponese e l’estetica della Tokyo di un tempo, quelli in cui Sega decise di capitalizzare sul fenomeno (con una furbizia che non sembrava competerle da tantissimo tempo) pubblicando Yakuza 0 e attraendo giocatori di tutto il mondo verso una delle sue serie fin lì meno capaci di far breccia nel cuore del pubblico occidentale. Ci fu un momento in cui tutto attorno a me parlava di Yakuza 0 in maniera così insistente che mi sono convinto di voler provare ad approcciare la serie. Per spirito filologico ho deciso di partire dall’inizio – e questa è una cosa che impongo a chiunque mi chieda consigli su dove iniziare – e il resto è storia. L’ho capito subito che io e la creazione di Toshihiro Nagoshi eravamo fatti l’uno per l’altra, ma non immaginavo che a distanza di qualche anno da quel momento mi sarei ritrovato a parlare di quello che, tra serie principale e spin-off, è il sedicesimo videogioco a marchio Yakuza su cui ho messo le mani. Kiryu Kazuma, Goro Majima e Ichiban Kasuga hanno rappresentato un punto fermo della mia vita da videogiocatore, visto che si potrebbe dire senza problemi che sono cresciuto guardandoli invecchiare, aggrappato alle sorti del Clan Tojo quasi come se ne facessi personalmente parte.  

Forse è proprio in virtù di questa grande confidenza con la serie che di fronte al primo trailer di Like a Dragon: Pirate Yakuza in Hawaii ho immediatamente storto il naso. Io, che a Kamurocho ci ho lasciato un pezzo di cuore e che questa serie sento di conoscerla realmente come le mie tasche, ho intravisto da subito che c’era qualcosa che non andava. Dopotutto sono anni che ripeto che, per quanto Yakuza: Like a Dragon sia uno dei miei capitoli preferiti in assoluto, il primo capitolo della saga di Ichiban ha incastrato la serie in una situazione narrativa davvero scomoda. Infinite Wealth questo problema lo ha tamponato concentrandosi sul passato di Kiryu e permettendo ai fan di vecchia data di passeggiare con lui sul viale dei ricordi, anche se questo ha relegato Ichiban in secondo piano e ha indebolito notevolmente il suo arco narrativo (che era molto debole già di per sé). Nonostante abbia voluto molto bene a Infinite Wealth era chiaro che qualcosa si stesse inceppando in Ryu Ga Gotoku Studio. Pirate Yakuza in Hawaii è, almeno per me, la dimostrazione del fatto che non mi sbagliavo.

Like a Dragon: Pirate Yakuza in Hawaii vorrebbe essere per Goro Majima ciò che Like a Dragon Gaiden: The Man Who Erased His Name è stato per Kiryu: uno spin-off più contenuto nella mole di contenuti e con un twist più o meno pazzo sul combat system. Kiryu vestì i panni dell’agente segreto, Goro gioca a fare il pirata dei caraibi, solo che se Gaiden racchiude al suo interno alcuni dei momenti più potenti e toccanti di tutta la serie lo stesso non si può dire di questo Pirate Yakuza. La premessa è semplice: Goro si risveglia sulla spiaggia di un isolotto tropicale senza alcun ricordo. La sua amnesia è così grave che non gli ha portato via solamente la consapevolezza del perché si trovasse in mare aperto al largo delle Hawaii, ma addirittura i ricordi sulla sua vita da capo della yakuza e il suo nome. Viene salvato da Noah, un ragazzino dai polmoni fragili che vive col padre su Rich Island e che gli racconta di come quella zona di oceano sia frequentata da pirati moderni che fanno a sciabolate nel tentativo di accaparrarsi i tesori sepolti in giro tra gli isolotti della zona. Goro decide di esaudire il desiderio di Noah di vedere il mondo esterno a Rich Island, quindi dopo aver sbaragliato a cazzotti una ciurma di pirati della zona ne sequestra il veliero e si autoproclama capitano della Goromaru, salpando alla ricerca del leggendario tesoro dell’Esperanza, che si dice valga addirittura un miliardo di dollari.

Seguono circa quindici ore di scorribande in mare aperto, di assalti ai galeoni nemici e di cacce al tesoro in giro per gli atolli hawaiani, in quello che, purtroppo, non ho paura di definire il punto più basso mai toccato dalla serie dal 2005 ad oggi. Pirate Yakuza in Hawaii non è un brutto videogioco in senso stretto, intendiamoci, ma ad essere estremamente problematico è ciò che racconta dello stato attuale di Ryu Ga Gotoku Studio e della serie in generale. È un asset flip senz’anima quasi del tutto incapace di inventarsi qualcosa sia a livello ludico che dal punto di vista della narrativa, scritto male ed evoluto peggio, che non fa quasi nulla per nascondere il fatto che si tratti di un’operazione commerciale molto sterile volta a capitalizzare un po’ sull’attesa del prossimo capitolo della serie principale. Facciamo, però, un passo alla volta.

Voglio partire da una convinzione che si è fatta strada dentro me dopo pochissimo tempo dall’inizio del gioco. The Man Who Erased His Name nasceva da delle evidenti necessità narrative che permettessero a RGG di giustificare la presenza di Kiryu all’interno di Yakuza: Like a Dragon e di preparare il terreno al suo ritorno in Infinite Wealth. Fu anche un’occasione d’oro (sfruttata egregiamente) per approfondire ulteriormente la figura del Drago di Dojima e raccontarne certe fragilità mai emerse con la stessa forza prima di quel capitolo. Pirate Yakuza In Hawaii, invece, secondo me nasce da un’idea banalissima: "Majima ha sempre avuto una benda sull’occhio, quindi perché non fargli fare il pirata?" Davvero, io non trovo altre spiegazioni plausibili dietro a quest’operazione, e il gioco stesso non ne fornisce alcuna se non per una brevissima sezione della scena post-credits. L’impressione è che ci si sia voluti appoggiare sul fatto che tanto ormai il pubblico ha inquadrato Like a Dragon come una serie mattissima a cui non servono giustificazioni per fare ciò che fa, peccato che in questo caso si sia davvero passato il segno. Anche qui credo serva una precisazione doverosa: Like a Dragon ha giocato spessissimo ad esagerare, lo dimostrano situazioni narrative assurde come i piani della CIA in Yakuza 3, le dinamiche da 007 del primo Gaiden o il segreto di Onomichi in Yakuza 6, ma il valore dei suoi capitoli è sempre stato in ciò che si è riusciti a costruire attorno a quelle assurdità. Qui non c’è assolutamente niente di tutto questo, ed è un problema.

Si poteva fare infinitamente di più per Majima, soprattutto alla luce della sua amnesia completa. Si poteva esplorare il suo passato in maniera decisamente più creativa o sentita, si potevano far emergere nuovi aspetti della sua personalità o del suo passato, invece ci si è limitati a mettergli in mano un galeone per farlo scorrazzare in giro per le Hawaii dandogli la possibilità di fare il pazzo per qualche giorno alla ricerca di un tesoro leggendario e poco altro. Il dramma è che nonostante si tratti di uno spin-off quasi in tutto e per tutto, Pirate Yakuza racconta quella che ad oggi è una storia inserita nel canone di Like a Dragon, come dimostrano le sue battute finali, e rappresenta di fatto un vero e proprio sequel di Infinite Wealth, su cui questa iterazione piratesca poggia le sue basi in maniera inequivocabile.

Lato gameplay la situazione è la stessa, perché riprende gran parte delle meccaniche tipiche del ramo brawler della serie, ma quando inserisce elementi nuovi lo fa in maniera che mai mi sognerei di definire riuscita fino in fondo. Le scazzottate ultra caotiche funzionano e sono anche divertenti, merito dei due stili di combattimento introdotti in questo capitolo che rievocano la fluidità delle risse di Gaiden introducendo però un’inedita componente aerea al moveset del Cane Pazzo di Shimano che può finalmente sfoderare un buon arsenale di montanti che sospendono in cielo i nemici e permettono di destreggiarsi in dei juggle aerei mai visti prima in Like a Dragon. È anche vero, però, che il fatto di avere uno stile di combattimento (quello da pirata) dedicato principalmente al crowd control ha portato a degli scontri con un numero enorme di nemici a schermo, risultando in situazioni di enorme confusione e di pochissima leggibilità di ciò che accade intorno al protagonista. Gli attacchi speciali scatenabili solo dopo aver riempito l’indicatore di follia, inoltre, sono semplicemente troppo forti, al punto che se si decide di evocare i cloni di Majima quando si sta utilizzando lo stile “cane pazzo” questi possono addirittura sconfiggere un boss senza che si debba attaccarlo in prima persona.

Parlando, invece, delle meccaniche legate alla componente più esplicitamente piratesca del gioco, emergono immediatamente dei problemi per me insormontabili. Esplorare il mare è noioso da morire. Ogni volta che ci si ritrova ai comandi della Goromaru ci si schianta contro un muro fatto di movimenti pachidermici e di una formula esplorativa francamente ingiustificabile che mi ha ricordato addirittura Superman 64 (!!!). Si parte da un faro e si punta la propria destinazione, passando minuti in mare aperto senza nulla da fare se non infilarsi all’interno di archi di vento che permettono alla nave di velocizzare brevemente la sua andatura

Ogni tanto capita di dover affrontare flotte nemiche (e devo ammettere che i combattimenti navali, per quanto essenzialissimi, mi hanno divertito), altre volte si deve calare l’ancora davanti ad un isolotto per mettersi alla ricerca del tesoro nascosto sulla terraferma. Si tratta di sezioni di per sé anche abbastanza intrattenenti, salvo appunto il fatto che per passare da una all’altra si deve accettare di venire imprigionati da lunghe e lentissime sessioni di navigazione in mare aperto ad inseguire i cerchietti della velocità. Non so di chi sia stata l’idea ma – credetemi – era forse il modo peggiore di strutturare l’esplorazione navale di Pirate Yakuza in Hawaii.

La lentezza e la noia appena descritte sono sintomo di un problema ancor più grande, che rappresenta quello che almeno per me è il vero peccato capitale del gioco. Pirate Yakuza in Hawaii ha una gestione dei ritmi veramente pessima. Le prime ore sono lentissime (oltre che piatte oltre ogni aspettativa possibile) e, soprattutto sono trascinate avanti all’infinito da una quantità spropositata di interruzioni costanti. Quella che narrativamente potrebbe durare forse un paio d’ore stando larghi diventa un’introduzione che si mangia più di un terzo delle ore dedicate alla trama principale, che vengono spese a rimbalzare da un punto all’altro di Honolulu perché RGG Studio sembra essere terrorizzata dall’idea che il pubblico possa non vedere tutto ciò che è stato impacchettato dentro Pirate Yakuza.

Questo perché, in fondo, Pirate Yakuza in Hawaii assume più convintamente l’aspetto di una raccolta di minigiochi con una trama appiccicata sopra in fretta che altro, ed è un peccato, perché questa serie si è sempre distinta proprio per la natura opzionale di questi extra, mentre in questa occasione il rapporto tra contenuti secondari e primari si è ribaltato completamente. È sempre impressionante pensare a quanti contenuti il team riesca ad infilare anche all’interno di capitoli più piccoli (basti pensare che qui dentro sono tornati i campionati di Go Kart, c’è un’intera sezione dedicata alla liberazione dei mari dalla minaccia della flotta dei Devil Flags, il tour fotografico Alo Happy, le taglie sui ricercati da riscuotere, la caccia ai tesori, un minigioco di cucina e tutta la parte dedicata ai tornei del colosseo navale di Madlantis) ma trovo estremamente fastidioso il fatto che la progressione venga spezzettata dal fatto che prima di poter fare anche solo un passo avanti si venga obbligati a provare almeno tre contenuti secondari alla volta. Ho sbuffato parecchio, non lo nascondo, anche perché quel poco che ha da dire il gioco è concentrato principalmente verso la fine e la giustificazione narrativa dietro alle quindici ore necessarie per arrivare ai titoli di coda è relegata all’interno della già citata scena post credits in pieno stile Marvel (sigh).

Cosa resta, quindi? Poco, pochissimo. Troppo poco per il primo capitolo della saga interamente dedicato a Goro Majima e per una sottoserie come quella di Gaiden che era partita col botto grazie a The Man Who Erased His Name. Credo sinceramente sia arrivato il momento di prendersi una pausa di riflessione e lasciar respirare la serie, che negli ultimi due anni ha visto la pubblicazione di quattro titoli tra mainline, remake e spin-off. Ryu Ga Gotoku Studio, peraltro, è attualmente al lavoro anche su Virtua Fighter e sul misterioso Project Century, e ha da tempo lasciato intendere di voler portare avanti la serie di remake di Like a Dragon con Kiwami 3 e Gaiden. Sono ritmi da Game Freak, da Assassin’s Creed, e abbiamo le prove del fatto che questa rincorsa compulsiva alla quantità va ad impattare drasticamente sulla qualità dell’offerta. Oggi temo seriamente per il futuro di Like a Dragon, anche se in cuor mio spero che ci si riprenda da questo passo falso e si torni a remare nella direzione giusta e che si esca da queste torbide acque in cui ci si è impantanati.

Pubblicato il: 25/02/2025

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3 commenti

Come siano riusciti ad andare completamente fuori fuoco con questo spin off è allucinante. Lo giocherò? Si. Mi divertirò? Vedremo. Ma leggendo questa recensione fatta da uno dei più grandi fan della serie, mi sa che hanno sbagliato proprio la rot …Altro... Come siano riusciti ad andare completamente fuori fuoco con questo spin off è allucinante. Lo giocherò? Si. Mi divertirò? Vedremo. Ma leggendo questa recensione fatta da uno dei più grandi fan della serie, mi sa che hanno sbagliato proprio la rotta...

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