SLITTERHEAD

Keiichiro Toyama è sempre stato uno dei creativi che più ho apprezzato tra quelli che hanno deciso di sporcarsi le mani con questa cosa del fare i videogiochi. Alla fine Silent Hill poteva essere pure un colpo di fortuna propiziato dalla giovinezza, ma non ti inventi Forbidden Siren prima e Gravity Rush poi se non sei uno con le idee giuste, no? Ecco, sì, le idee sono sempre state al centro del percorso intrapreso da Toyama, sin dai tempi del suo folgorante esordio in Konami, ed è per questo che negli anni è stato idolatrato come un genio di questo settore.

 Non è mai bello veder “cadere” uno dei propri idoli. Davvero.

Se chiedete in giro Slitterhead è stato accolto come un pessimo videogioco. Non che i trailer facessero presagire qualcosa di profondamente differente, beninteso, eppure ci ho sempre voluto credere almeno un po’. Guardavo le presentazioni del titolo d’esordio di Bokeh Game Studio e ci rivedevo dentro lo stesso spirito che ha animato in passato tanti piccoli team giapponesi senza soldi ma con la voglia di creare qualcosa che potesse in qualche modo lasciare il segno. Parlo di produzioni come Disaster Report, Earth Defence Force o Tokyo Jungle, videogiochi sicuramente poco appariscenti se messi a confronto con i grandi tripla A che occupano il palco di questo mercato impazzito (e spesso tristemente appiattito) ma carichi di idee che in qualche modo li hanno trasformati in piccoli cult da quella nicchia di appassionati abbastanza ricettivi da voler scavare sotto i difetti per trovare qualcosa che fosse realmente di valore.

È stato esattamente questo lo spirito con cui ho approcciato Slitterhead. Ero pronto a sfilarmi qualche scheggia dai polpastrelli per la legnosità dei comandi e a far finta di non vedere una modellazione poligonale indietro di almeno due generazioni pur di scavare; ero preparato a sopportare la noia e gli evidenti limiti del budget per scavare e scavare e scavare fino a trovare qualcosa che avrebbe nobilitato anche solo parzialmente Slitterhead. E sapete che vi dico?

Avevo ragione.

Lo sfondo è quello della città murata di Kowloon, un quartiere realmente esistito poco fuori dal centro di Hong Kong fino all’alba degli anni 2000. Si tratta di un alveare umano composto da case costruite letteralmente una sopra l’altra, privo di tantissime comodità che spesso diamo per scontate quando guardiamo un’area residenziale, i cui palazzi sono così verticali e vicini tra loro da non permettere alla luce del sole di filtrare fino al livello della strada. La chiamavano City of Darkness per un motivo, dopotutto. Quello che per noi occidentali abituati alle distese nebbiose di Olgiate Olona può sembrare un incubo a cielo aperto per molti è stata un’oasi di pace perfetta per sfuggire al controllo dei governi di Cina e Regno Unito, un’isola felice devastata dalla droga e dall’influenza delle Triadi in cui però gli abitanti hanno spesso raccontato di aver vissuto felicemente. Quando le difficoltà sono uguali per tutti, alla fine, si finisce per aiutarsi e stringere legami più saldi di quelli che nascono nell’hinterland milanese medio-borghese.

Mentre la città attende col fiato sospeso l’”handoff” che avrebbe portato il governo inglese a restituire Hong Kong alla Cina si moltiplicano i casi di omicidio nel quartiere. Una vera e propria epidemia di uccisioni violente porta la popolazione a fare i conti con la seria e sempre più alta possibilità di imbattersi nel cadavere di qualcuno abbandonato in un vicolo. La verità, però, è che quei cadaveri sono tutti uguali: presentano tutti un foro nel cranio da cui qualcuno o qualcosa sembra aver estratto il cervello delle vittime. La Kowloon di Slitterhead è, non a caso, popolata di slitterhead, strambe creature insettiformi capaci di celare il proprio aspetto prendendo il controllo dei corpi che riescono a sottrarre agli umani. 

Il protagonista della storia però non è un valoroso detective dal passato oscuro che indaga sugli spargimenti di sangue o una giovane studentessa predestinata dal destino, ma uno spirito incorporeo e senza ricordi che si risveglia nel bel mezzo del quartiere e che si infiltra nella coscienza degli esseri umani con cui incrocia il proprio cammino prendendo il controllo del loro corpo.

Il cuore di Slitterhead sta proprio qui, e risiede nella scelta di un protagonista decisamente non-umano per raccontare una storia bizzarra e genuinamente fuori di testa. Night Owl – questo il nome che un’umana decide di affibbiare allo spirito – può sopravvivere solamente parassitando gli abitanti di Kowloon e manipolando il loro sangue facendo in modo che coagulando si trasformi in un’arma con cui sbudellare gli slitterhead. Per muoversi tra i vicoli maleodoranti del quartiere si è quindi chiamati a possedere un umano alla volta, saltando di corpo in corpo per raggiungere il proprio obiettivo nel minor tempo possibile. Questo si traduce nel fatto che nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un ostacolo insormontabile si può – alla pressione di un tasto – uscire dal corpo che si sta occupando e librarsi brevemente in aria per prendere il controllo di un’altra persona che si trova già al di là dell’impedimento, superandolo in scioltezza. Lo stesso principio si applica ai combattimenti, che vanno affrontati saltando di corpo in corpo a gran velocità per disorientare il nemico e colpirlo alle spalle. Badate bene: ogni umano ha caratteristiche differenti, quindi nel caso ci si trovasse a possedere una vecchietta quest’ultima avrà movimenti molto lenti e HP ridotti, mentre un giovane potrebbe muoversi più velocemente ed essere più utile in battaglia.

Tutto questo, però, si struttura attorno ad un videogioco pieno zeppo di problemi, primo fra tutti un sistema di combattimento molto strambo e poco responsivo (vi basti sapere che bisogna lockarsi su un nemico premendo uno dei dorsali rinunciando alla possibilità di controllare la telecamera per deflettere i colpi dei nemici con l’ analogico destro). I nemici hanno tutti lo stesso pattern di attacco, il tempismo delle deflessioni è impreciso e tra un attacco e l’altro passano una quantità enorme di secondi che vanificano le intenzioni di un combat system chiaramente pensato per essere decisamente più frenetico di quanto non sia nella realtà.

Ho sinceramente apprezzato il fatto di aver impostato il gioco come una serie di missioni contenute senza lasciarsi andare all’ennesimo open world compilativo (probabilmente non c’era neanche lontanamente il budget per arrivarci, me ne rendo conto), però bastano poche ore per rendersi conto che le missioni di Slitterhead sono terribilmente ripetitive, sensazione enfatizzata dal fatto che spesso il gioco richiede obbligatoriamente di tornare indietro nel tempo per rigiocare specifiche missioni in modi differenti in modo da ottenere epiloghi inediti e aprire nuove strade narrative precedentemente precluse al giocatore.

Tutto ruota infatti intorno al reclutamento degli Unicum, umani speciali in grado di sintonizzarsi alla perfezione con Night Owl e di avere accesso ad abilità speciali da utilizzare in combattimento: sono loro a mandare avanti la trama del gioco, rendendo così quella di Slitterhead una storia corale composta dalle singole storyline degli Unicum sparsi per Kowloon che si intrecciano fra di loro.

Sulla carta un’idea interessante che però si scontra violentemente con la realtà di un budget risicatissimo. La narrativa di Slitterhead è un disastro, sia per quanto riguarda quello che racconta che per come viene raccontato. Non esiste doppiaggio nel gioco se non per qualche piccolo banter che viene ripetuto ossessivamente ogni volta che uno dei personaggi apre bocca, così come non esistono cutscene. La trama viene mandata avanti da brevi e statiche scene di dialogo fra gli Unicum, che vengono mostrati in momenti della loro quotidianità (mentre fanno yoga o lavorano, per esempio), e Night Owl. Non aiutano nemmeno la scrittura (banale, a tratti proprio rinunciataria) e una traduzione italiana tra le più brutte che abbia visto negli ultimi anni (e che puzza tantissimo di IA in più di un’occasione, ma spero di sbagliarmi).

Slitterhead è letargico, a tratti proprio immobile, però se lo si guarda dalla giusta angolazione è possibile scorgere delle idee molto chiare sommerse da un codice sbilenco, delle animazioni goffe e dalla scrittura sconclusionata. A pensarci bene qui dentro c’è tutta la carriera di Keiichiro Toyama: le sezioni di platforming richiedono spesso di volare adottando un sistema di movimento chiaramente figlio di Gravity Rush, mentre nelle missioni in cui bisogna tallonare gli slitterhead per smascherarli è possibile osservare il mondo attraverso i loro occhi per desumerne la posizione proprio come succedeva con il sightjack di Forbidden Siren. È poi anche un gioco meravigliosamente spietato, che suggerisce spesso e volentieri di sacrificare pedine umane pur di portare a termine una missione, come quelle volte che ci si trova sul tetto di un palazzo e bisogna inseguire un nemico che si trova al livello della strada: Night Owl invita esplicitamente a lanciarsi nel vuoto e, mentre si è a mezz’aria, abbandonare il corpo che si è deciso di suicidare per possederne un altro molto più vicino allo slitterhead di cui si è alla caccia.

Slitterhead è un brutto videogioco – a tratti pure bruttissimo – però è davvero un’opera unica nel suo genere. Credetemi: non esiste un altro Slitterhead là fuori. Per tanti è un bene, per me è prezioso che sia così. Perché sí, è noioso, ripetitivo e a volte anche così ottuso da sembrare stupido, però è unico, e io un po` di bene non riesco a non volerglielo. Sarà anche colpa (o merito) delle sue intelligenti citazioni al cinema di Fruit Chan e Wong Kar-Wai, ma un certo tipo di autorialità glielo riconosco senza ombra di dubbio. Fallisce in quasi tutto quello che prova a fare, però ci prova dall’inizio alla fine, e questa è una cosa che tanti videogiochi molto più blasonati di lui hanno smesso di fare da anni. È un valore, e questo non glielo si può negare

 La verità è che ho un debole per operazioni di questo tipo, e se tutto andrà come deve andare per FinalRound, tra qualche anno sarà un candidato perfetto per una puntata di Criptidi.

Pubblicato il: 11/11/2024

Provato su: PlayStation 5

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5 commenti

A rare look inside the Kowloon Walled City in 1990 https://www.youtube.com/watch?v=Mq4jAwPdCMw&t=1s

Da quello che avevo sentito sembrava che il gioco fosse semplicemente disastroso, non è un bel gioco ma è messo molto meglio di quello che mi aspettassi. Certo è ripetitivo e molto approssimativo ma l'atmosfera che ha mi piace e in fondo si lascia …Altro... Da quello che avevo sentito sembrava che il gioco fosse semplicemente disastroso, non è un bel gioco ma è messo molto meglio di quello che mi aspettassi. Certo è ripetitivo e molto approssimativo ma l'atmosfera che ha mi piace e in fondo si lascia giocare abbastanza bene. Tutto sommato mi sta piacendo.

Ciao Sori, ho letto con interesse il tuo (notevole) pezzo e volevo chiarire un aspetto del combat system. I controlli possono risultare macchinosi, ma va comunque detto che il lock sui nemici è presente e si attiva pigiando R3, con la possibilità d …Altro... Ciao Sori, ho letto con interesse il tuo (notevole) pezzo e volevo chiarire un aspetto del combat system. I controlli possono risultare macchinosi, ma va comunque detto che il lock sui nemici è presente e si attiva pigiando R3, con la possibilità di passare da un bersaglio all’altro grazie alla levetta analogica destra. La parata si esegue invece col grilletto sinistro e può fungere da soft-lock orientando (e confondendo) il giocatore verso la parry. Certo, a difficoltà normale la differenza è minima, ma giocare a difficile/incubo cambia molto l’esperienza: l’aggressività dei nemici obbliga a destreggiarsi tra parate perfette, scambi continui tra civili e l’uso strategico delle abilità. Sono sfumature che trasformano il gameplay in qualcosa di più profondo e modulare, un aspetto che - purtroppo - fa fatica a emergere a normal.

Riguardo la storia, concordo che la narrazione soffra della cronica mancanza di fondi e che questo abbia portato a uno storytelling più frammentario e minimalista. Tuttavia, non direi che sia banale - anzi - proprio grazie alla sua natura didascalica, riesce a distinguersi e a dirottare subito verso fulcro dell'esperienza: l'azione. La tua recensione è molto "sentita", lo si avverte fin dalle prime righe. Semplicemente, per citare in parte la tua conclusione, io credo che Slitterhead sia spesso un brutto videogioco, ma mai bruttissimo. Allo stesso modo sa distinguersi come un’opera unica che andrebbe affrontata con il giusto approccio, sia ludico (non alla difficoltà base) sia mentale per raccogliere appieno ciò che di buono ha da offrire. Non potrei consigliarlo a cuor leggero, ovvio, questo tipo di immersione dipende dalla sensibilità individuale, ma la tua emerge in modo chiaro, per cui mi sono sentito spronato a condividere le mie impressioni con te.

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