FALLOUT

- RECENSIONE -

In un videogioco come Fallout le scelte del videogiocatore sono fondamentali: condizionano la creazione del personaggio, la sua indole, le quest secondarie e quella principale; possono determinare addirittura quali NPC incontrerà sul suo percorso. Nella serie tv, disponibile su Prime Video, questa cosa non c’è. Ed è normale. Ed è anche giusto. Ma Graham Wagner e Geneva Robertson-Dworet, i due creatori-sceneggiatori, sono riusciti a costruire un mondo coerente, non così diverso da quello della saga di Bethesda, e a filare delle trame verticali capaci di intrecciarsi proprio come se ci fosse qualcuno, davanti alla tv, a prendere delle decisioni. 

Il punto, però, non è solo questo. Sintetizzare un surrogato di quella che è l’esperienza videoludica non basta per realizzare un buon adattamento. Serve altro. Serve, per esempio, un’estetica convincente, calata nell’epoca e nell’ambientazione, che non sembri né povera né approssimativa. Soprattutto, però, serve un tono. E su questo torneremo più avanti, promesso. La storia andrà come andrà, lo sappiamo. Ma quello che conta è il modo in cui lo farà: come staranno insieme i personaggi, che cosa li muoverà; quanto una location sarà importante all’interno delle interazioni e degli scontri, dove inizierà l’azione e finirà, invece, la fantascienza.

La serie tv di Fallout, insomma, va vista come un enorme laboratorio a cielo aperto: costosissimo, pieno di talenti (Jonathan Nolan ha curato la regia di alcuni episodi, mentre Lisa Joy, co-creatrice con lui di Westworld, ha fatto da produttrice esecutiva) e di spunti interessanti. Un mondo come quello del videogioco può essere, da una prospettiva puramente drammaturgica, una sfida enorme. Perché è potenzialmente infinito e perché può contenere dentro di sé tante, troppe cose. Il compito degli sceneggiatori, allora, diventa provare a limitarlo in qualche modo, tracciando una strada più o meno precisa, più o meno riconoscibile, da seguire.

I protagonisti sono tre: il Ghoul interpretato da Walton Goggins, la Lucy di Ella Purnell e il Maximus interpretato da Aaron Moten. Ovviamente, sullo sfondo, ci sono anche altri personaggi, e le loro storie sono utili per comprendere il quadro più ampio del racconto, ma sono come le note di un oggetto particolarmente raro e ricercato: aggiungono altri strati a un racconto già stratificato, e non sono – diciamo così – indispensabili. Ci muoviamo tra passato e presente, e cioè prima dell’apocalisse nucleare e circa duecento anni dopo. La serie tv, rispetto al videogioco, ha bisogno di risposte e di elementi intorno a cui poter crescere. E quindi sì, è normale: alcune cose, molte cose, sono differenti. Ma non importa. Quello che importa è che tutto funzioni e trovi il proprio posto. 

Il Ghoul di Goggins è l’ennesimo prototipo dell’eroe leoniano: né buono ma nemmeno totalmente cattivo, con un suo tornaconto personale, una sua storia e una sua abilità (ogni volta che spara fa centro, e che meraviglia: i suoi combattimenti sono le sequenze action più belle di tutta la serie). Fa da anello di congiunzione tra due parti della trama, e la sua brillantezza, come personaggio, lo rende unico. Uccide, dà la caccia a Lucy, sembra non provare nessuna pietà; si nutre di cadaveri, non ha amici, ride alle sue battute, è ingordo, bugiardo, tagliante. E sa. Ecco qual è la sua vera forza: sa. Lui c’era quando sono state sganciate le bombe atomiche, e c’era anche quando i Vault sono stati inaugurati.

Faceva l’attore, prima che il mondo finisse. Ed era bravo, apprezzato, un ex-veterano. E se vogliamo, Fallout è anche questo: una serie sull’essere attori, sull’interpretare un ruolo e sulla speranza di riuscire, un giorno, a liberarsi delle proprie maschere. E le riflessioni non finiscono qui: perché il Ghoul aveva una famiglia, una moglie e una figlia; e la cosa più importante per lui è stata sempre quella. Sempre, anche dopo. Anche ora. Volendo scegliere un allineamento, potremmo dire che il Ghoul è un Caotico Malvagio, un distruttore: pronto a fare quello che più gli aggrada, senza onore o rispetto; incapace di mantenere la parola data e di provare un affetto genuino e disinteressato per qualcun altro a parte sé stesso.

Il discorso su Lucy è differente. Lei rappresenta l’ago della bilancia, sta in mezzo; viene da un Vault, e per molto tempo non ha conosciuto altro. È ingenua ma non stupida. Quando decide di avventurarsi nel mondo esterno, lo fa consapevolmente, andando contro i consigli e gli ordini del resto della sua comunità. Spera di trovare persone come lei, pronte a darle una mano e ad aiutarla. Ma piuttosto velocemente realizza che l’America non esiste più, che i suoi valori sono stati dimenticati e che sono davvero poche le cose che non minacciano continuamente di ucciderti. È costretta a cambiare. Il suo percorso, che a primo acchito ricorda quello dell’eroe più classico, si capovolge. Da Legale Buono, per dirla con gli allineamenti di un gioco di ruolo, a Caotico Neutrale. 

Ella Purnell deve giocare con le espressioni e con gli occhi; deve restituire allo spettatore una sofferenza mentale, più che fisica, precisa. Palpabile. Se il Ghoul si presta per un parallelo con la recitazione, la storia di Lucy diventa quasi un avviso per le persone: non esistono cose come il bene o il male assoluti; c’è sempre una via di mezzo (rieccoci), ed è importante ricordarselo. Non possiamo fidarci di nessuno, non veramente, non fino in fondo. Probabilmente, e questo è l’aspetto più terrificante, non possiamo fidarci nemmeno di noi stessi. Perché non sapremo mai come reagiremo in una determinata situazione finché, appunto, non ci saremo dentro. E la bestia, a volte, è molto più seducente e utile del bravo cittadino rispettoso delle leggi e della società.

Infine c’è Maximus, che è, dei tre, il personaggio più debole (non da un punto di vista interpretativo, attenzione; come scrittura, però, offre decisamente meno spunti e meno riflessioni di Lucy e del Ghoul). Fa parte di un ordine cavalleresco, ed è convinto di poter salvare il mondo. Anche lui, come Lucy, soffre di ingenuità. Ma al contrario suo viene dal mondo vero, dalla desolazione post-nucleare, e sa che cosa vuol dire avere a che fare con gli altri e con le persone, conosce il prezzo della guerra e della sofferenza: l’ha provato su sé stesso, sulla propria pelle. Ciò che desidera è diventare un esempio. Un eroe. È un incorreggibile Legale Neutrale. 

Per una serie di vicissitudini, finisce per ottenere il controllo di un’armatura. E per buona parte della storia, non vede altro: crede che il suo ruolo e il suo scopo coincidano esattamente con l’involucro che indossa. Ed è un tema che ritorna, anche nella sua storia personale. Cerca una distanza tra sé e il mondo, tra la realtà di ogni giorno e la propria mente. Nel freddo metallo, spera di trovare il più grande degli alleati, qualcosa che possa tenerlo lontano – anche per poco, anche per una manciata di minuti – dalla crudeltà quotidiana. È facile da convincere, e la sua ingenuità risiede proprio nei compromessi che è disposto a fare per essere felice (o per fingere di esserlo, almeno).

Il Ghoul, Lucy e Maximus condividono la stessa missione, la stessa quest, ed è questo, più di ogni altro, a tenerli insieme. Verso la conclusione della serie, si incontreranno più volte e dovranno decidere che cosa fare – se fidarsi, non fidarsi, se uccidersi a vicenda oppure se ascoltare quello che l’altro ha da dire. L’unico a non cambiare, non più di tanto, sarà il Ghoul, perché la sua trasformazione, fisica e mentale, c’è già stata. Il racconto conserva una struttura narrativa estremamente simile a quella di un videogioco, anche se, ed è importante ribadirlo, un videogioco non è. In questa serie, contano le ambientazioni e i colori; conta l’incredibile lavoro che scenografi, costumisti e responsabili dell’effettistica hanno fatto. Conta, poi, la musica. Che è quella del videogioco, sì. E che sa unire, così naturalmente, il passato e il presente. Tra parentesi: il responsabile della colonna sonora, Ramin Djawadi, è lo stesso che ha lavorato a Game of Thrones, House of the Dragon e, ovviamente, a Westworld. L’impronta di Jonathan Nolan e Lisa Joy, insomma, è molto profonda. Ma torniamo al tono, che è davvero la cosa più importante di Fallout

La serie tv, come il videogioco, non si prende mai sul serio. Anche nei momenti più estremi, e ce ne sono, riesce a trovare il modo per scherzare. Non mancano le scene splatter e graficamente esplicite. Sono, anzi, una costante. Ma l’alternanza tra sarcasmo e dramma, tra commedia più pura e surrealismo narrativo sanno creare un tono coerente e invitante, qualcosa che funziona perfettamente con l’ambientazione (incredibile, sotto tanti punti di vista) e con le interpretazioni degli attori. C’è sempre un che di fumettoso nelle armature e nella tecnologia più avanzata. Ma c’è pure, e questo è innegabile, un realismo ricercato che sa fare la differenza: trascinandoci dai flashback, che ci sono e tornano abbastanza di frequente, alla linearità della trama principale.

Questa serie è anche una riflessione più ampia, per generi e finzione, sulla cupidigia umana e sul capitalismo, su ciò che siamo disposti a fare pur di sentirci al sicuro e su ciò che non esiteremmo a sacrificare per continuare a vivere. È una riflessione sulla politica e sul modo in cui, spesso, le persone vivono la politica. Sull’insofferenza dilagante e sulla superficialità autoimposta per evitare di affrontare i problemi. Nella società pre-apocalittica di Fallout, la minaccia nucleare era una costante. Stati Uniti e Russia erano continuamente sul filo del rasoio, pronti allo scontro finale. Eppure le persone preferivano spegnere la tv, divertirsi, vivere il sogno americano a occhi aperti. Il maccartismo era ovunque, a livelli improponibili e assurdi, e amici erano disposti a denunciare amici pur di non finire sul banco degli imputati. La vera coscienza sociale risiedeva negli attori, negli artisti, in chi – paradossalmente – aveva fatto della finzione scenica la propria vita. Non ci si può fidare di nessuno (e l’abbiamo già detto), tranne, forse, di chi mente per mestiere. 

Videogioco e televisione sono sempre più vicini, e Fallout ne è una prova. Non bisogna dimenticare lo spirito originale del materiale di partenza; bisogna, al contrario, preservarlo. Allo stesso tempo, però, non bisogna nemmeno cedere ai compromessi sul linguaggio televisivo, che ha le sue regole e – soprattutto – i suoi limiti. La storia cambia, ma cambia coscientemente. I riferimenti ci sono, ma non sono né morbosi né asfissianti. Fallout deve essere, ed è, una serie per tutti: per chi ha giocato e per chi, invece, non ha ancora recuperato la saga di Bethesda. Il racconto è diviso in capitoli netti, precisi, come quelli di un libro. O, se preferite, come quelli di un diario di gioco. Ogni puntata riprende da un punto particolare, come se avessimo salvato e stessimo ricaricando la nostra partita. È questa l’aria che si respira, dall’inizio alla fine. Ed è questo che fa di Fallout un ottimo adattamento.

Pubblicato il: 15/04/2024

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6 commenti

Nonostante i difetti la Serie TV merita molto.
Se volete recuperare i vecchi titoli vi consiglio di giocare anche i primi due Fallout, spesso e volentieri dimenticati.

Bella recensione.
Non ho giocato la serie Bethesda ma mi sono lanciato nel guardare la serie TV. E' filata liscia come l'olio, stra piacevole e mai pesante, ora però è salita la scimmia di recuperare anche i giochi.

Ci sta

Complimenti per la recensione.
Conclusione dell'articolo perfettamente in linea con il mio pensiero sull'adattamento.

Concordo con l’articolo. L’ambientazione e le musiche di trasportano veramente nel mondo di fallout e i personaggi sono perlopiù ben scritti. Sono al 5 episodio per ora, ammetto di non averla finita, ma non per volontà mia, perché l’ho trova …Altro... Concordo con l’articolo. L’ambientazione e le musiche di trasportano veramente nel mondo di fallout e i personaggi sono perlopiù ben scritti. Sono al 5 episodio per ora, ammetto di non averla finita, ma non per volontà mia, perché l’ho trovata una delle poche serie che mi ha lasciato la sensazione di volerne di più nel esatto momento in cui ero costretto a spengere la tv

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