CHILDREN OF THE SUN
Un singolo, spietato, proiettile di grande calibro
Un fucile di precisione, una maschera e una giacca su cui campeggia la scritta “NO PEACE”; è tutto ciò che serve alla Ragazza per imbarcarsi in un oscuro viaggio alimentato dalla sua sete di vendetta. Questo, e un singolo, spietato proiettile di grosso calibro. Le hanno portato via tutto: famiglia, amicizie, sogni e speranze, e un’innocenza che non tornerà mai più. Children of the Sun è il titolo dell’opera prima di René Rother ed è anche il nome della setta che ha distrutto la vita della sua rabbiosa protagonista, un culto cristiano deviato che si è macchiato di colpe indicibili in nome del suo enigmatico leader.
Ci vuole poco a capire cosa abbia spinto Devolver Digital ad apporre il proprio logo sulla copertina di Children of the Sun: quello di Rothier è forse il videogioco più vicino ad Hotline Miami che l’azienda abbia mai pubblicato dai tempi del folgorante esordio di Dennaton Games; un concentrato di iperviolenza ludicizzata che grazie ai suoi eccessi esorta chi sta da questa parte dello schermo ad interrogarsi sul significato dei comandi che impartisce all’avatar di cui è in controllo.
Permettetemi di fare un passo indietro.
Hotline Miami è un misto tra shooter e puzzle game che richiede una buona dose di meticolosità per strategizzare ognuno dei bagni di sangue in cui si è chiamati ad immergersi. Bisogna studiare attentamente ogni stage e pianificare ogni mossa, ignegnerizzare il proprio percorso provando e riprovando fino a trovare la strada più efficiente che permetta di trasformare ogni nemico in un groviglio di budella crivellate e crani spappolati con cui dipingere le pareti a ritmo di musica synthwave. Alla fine – e il genio di Hotline Miami sta tutto lì – il protagonista è obbligato a tornare sui propri passi attraversando le stanze lastricate di cadaveri ammassati sul pavimento. La musica incalzante si spegne, i battiti rallentano e tutto ciò che resta è la silenziosa realizzazione del massacro appena compiuto. Hotline Miami sfrutta l’ultraviolenza per riflettere sul significato intrinseco della violenza nei videogiochi; lo fa associando un punteggio ad ogni nemico trasformato in un colabrodo lasciato ad agonizzare in una pozza del suo stesso sangue per poi svelare che – sorpresa! – un senso quelle stragi non ce l’hanno mai avuto. Abbiamo semplicemente ucciso perché il videogioco a cui stiamo giocando ci ha ordinato di farlo, e abbiamo accettato senza fare un fiato.
Children of the Sun si muove all’incirca nello stesso modo: la Ragazza possiede dei poteri psichici che le permettono di “abitare” il singolo proiettile di cui è armata e di controllarne la traiettoria in volo, imponendogli una nuova direzione ogni volta che questo trapassa il corpo di un nemico ignaro di ciò che l’ha colpito. Si tratta di uno strano puzzle game travestito da rail shooter che racconta la rabbia di una vittima della setta colpevole di aver sterminato la sua famiglia e di aver tentato di impadronirsi dei suoi poteri, similissimo nell’estetica e nel mood a quel Killer 7 che proiettò Suda51 nell’olimpo dei game designer ormai vent’anni fa. Ogni stage si svolge praticamente allo stesso modo: inizialmente bisogna tentare di identificare tutti i nemici da ammazzare, poi basta trovare una posizione comoda per prendere la mira, inquadrare la prima delle nostre vittime e premere il grilletto. Da lì inizia un breve ma intenso viaggio in cui si controlla direttamente la pallottola, indirizzandola di volta in volta verso il corpo di un nemico per poi cambiare improvvisamente direzione e abbaterne un altro, poi un altro ancora e così via fino a che l’unica persona rimasta in vita è solamente la Ragazza. Ogni colpo andato a segno fa accumulare punti in base alla parte del corpo colpita e alla distanza percorsa dal proiettile per conficcarsi nel teschio di ogni nemico, e il tutto è supportato da un moltiplicatore che va tenuto vivo muovendosi con precisione e in fretta per massimizzare il punteggio finale.
Esattamente come la prima volta che mi sono seduto di fronte a Hotline Miami mi sono ritrovato di fronte ad una deformazione dell’arcade che mi ha spinto a fare numerosi tentativi per progettare il percorso più elegante e remunerativo da seguire per compiere delle vere e proprie stragi in miniatura, drogato dal punteggio in alto a sinistra che continuava a crescere ad ogni uccisione. Tutto questo, peraltro, è enfatizzato dal fatto che il massacro viene osservato in prima persona dal punto di vista del proiettile. Alla fine di ogni stage, però, Children of the Sun svela la sua menzogna: l’eccitazione del massacro lascia spazio ad una ripresa dall’alto dello stage, dove i corpi esanimi dei cultisti appena sterminati vengono collegati da una linea che riepiloga il percorso affrontato dal proiettile per ucciderli tutti disegnando una sorta di macabra costellazione sullo schermo, mentre sulla destra appare la leaderboard che segnala il proprio punteggio in mezzo a quelli di tutti gli altri cecchini che hanno affrontato lo stesso stage.
Sembra quasi che il gioco stia lì a farsi beffe del fatto che hai appena passato gli ultimi quindici minuti della tua vita a calcolare con precisione il metodo più efficiente per ammazzare più persone nel minor tempo possibile.
Non solo: l’hai fatto per bearti della sensazione di vedere il tuo nickname sopra a quello degli altri assassini, per essere incoronato come stragista provetto.
Bravo! Sei l’assassino più efficace del tuo server: eccoti una coccarda premio
È esattamente in quell’istante che il gioco si decostruisce di fronte allo sguardo del giocatore, il momento in cui svela di essere – per l’appunto – un videogioco. Lo fa riesumando la grammatica dell’arcade e applicandola a delle meccaniche che chiedono costantemente di immergersi nella violenza. L’ho trovata una scelta di game design molto potente.
Children of the Sun con me vince facile perché ho un debole per le storie sui culti deviati e sulle derivazioni folk horror tipiche di certi immaginari. Lo sfondo è quello dell’america rurale, fatta di vaste distese di nulla punteggiate da insediamenti di cemento in cui un pazzo alla guida di una setta religiosa può fare a lungo il bello e il cattivo tempo senza che nessuno se ne accorga. Il gioco trasuda il marciume tipico di quei paesaggi spogli e morti dentro che hanno dato vita alla Manson Family, al People’s Temple, all’Ordine del Tempio Solare, all’Heaven’s Gate e a tutti quei culti che hanno attirato centinaia di reietti in cerca di salvezza. Children of The Sun, con i suoi cieli plumbei e violacei e le sue chiese improvvisate in mezzo alle radure, incapsula perfettamente le atmosfere disturbanti dei culti impazziti che hanno popolato l’America nell’ultimo secolo.
Un ottimo titolo, anzi il primo videogioco a marchio Devolver Digital ad aver abbracciato di nuovo dopo tanti anni quell’immaginario pulp e un po’ weird che ha definito per molto tempo l’immagine dell’azienda in un mercato dove tutti sembrano voler fare tutto. Un omaggio a Hotline Miami in un mondo in cui Hotline Miami è diventata una vera e propria icona nonché uno dei videogiochi più influenti dell’epoca moderna, sia dentro al mondo indie che dentro a quello più mainstream.
Il fatto, però, è che Hotline Miami era costruito attorno all’idea che la violenza fosse realmente insensata e che il giocatore fosse un burattino nelle mani del gioco stesso che lo istigava ad esercitarla, mentre Children of the Sun racconta una storia che in qualche modo tenta di giustificare i suoi tanti massacri. La sua è una storia narrata per immagini, senza quasi mai fare ricorso alle parole se non in una – significativa – singola occasione, ma è un racconto con cui non è difficile empatizzare.
La Ragazza non è una squilibrata assetata di sangue; o meglio sí, ma non è del tutto colpa sua se è diventata così: c’è una giustificazione narrativa, che però stride con il senso dell’opera suggerito dalle sue meccaniche.
Do you like hurting other people?
Pubblicato il: 09/04/2024
Provato su: PC Windows
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