GOD OF WAR RAGNAROK
VALHALLA
“Ecco un’altra modalità roguelike posticcia, di quelle infilate a forza in un gioco che non ne ha mai previsto ritmi e strutture”. Questo è quello che ho pensato, come tanti altri giocatori, di fronte al trailer di Valhalla, il DLC gratuito che allunga di qualche ora il viaggio di Kratos dopo la sua funesta apocalisse norrena.
A fomentare questo pessimismo c’erano sostanzialmente due elementi, due spinte convergenti: da una parte quell’amarezza, non ancora attenuata dal tempo, per un sequel che non ha retto il confronto con l’originale, risultando troppo urlato, leggermente diluito e meno potente a livello di tematiche, eventi e caratterizzazione dei personaggi; dall’altra la tendenza del mercato a sfruttare con fin troppa insistenza le mode del momento. Non so a voi, ma dopo il successo di Hades a me pare di vedere un pizzico di roguelike sparpagliato ovunque, anche dove non se ne sente il bisogno.
Ultimamente soffro molto questo slancio con cui il settore videoludico tende all’uniformità, inseguendo le formule di successo per andare sempre sul sicuro. Di recente è successo con gli elementi RPG, il loot, la progressione dell’equipaggiamento (che ci siamo ritrovati ovunque, persino in Hogwarts Legacy), e sto cominciando a sentire un po’ di stanchezza anche per certe dinamiche dei Metroidvania: ci sono giochi che ti fanno rimbalzare avanti e indietro come la pallina di un flipper senza che il backtracking sia davvero significativo.
Fatto sta che nel caso di Valhalla la mia diffidenza ci ha messo davvero poco a infrangersi contro la qualità complessiva di un’esperienza solida e concentrata, e pure insospettabilmente elaborata a livello narrativo. La più grande sorpresa del DLC è proprio questa: che ci sia una storia; anzi: che ci sia una storia ben raccontata. Le scene d’intermezzo che si affollano nella prima ora servono a spiegare perché Kratos voglia esplorare le aree minacciose sale del Valhalla e quali siano le reazioni e le preoccupazioni dei suoi alleati. Di lì a poco si scoprirà che quello di Kratos è un viaggio alla ricerca di sé stesso, o meglio del perdono che non ha mai saputo darsi. Piuttosto che focalizzarsi sulla difficile paternità e sul rapporto con Atreus (che in questo contenuto quasi non viene nominato), Kratos cerca di razionalizzare le fasi più violente del suo passato, la rabbia da cui è stato mosso al tempo del suo regno brutale. Per i fan di lungo corso è anche un modo per ricordare i truci eventi della trilogia originale: l’idra avvinghiata alla nave con cui si è aperta la saga, il massacro di Elio, e ancora quei pochi momenti di umanità risvegliati dall’incontro con Pandora, la figlia di Efesto.
Mi chiedo se chi non ha giocato le avventure originali possa apprezzare Valhalla fino in fondo, senza coglierne tutti i riferimenti e soprattutto senza capire i passi di quello che è di fatto il percorso psicanalitico del protagonista, un po’ ruvido e autoindulgente ma comunque scritto in maniera coerente. Chi non conosce il passato dello spartano (fatemelo chiamare così, in memoria dei vecchi tempi) forse non riuscirà a cogliere tutte le sfumature del racconto, ma di sicuro ne avvertirà il cambio di tono: anche nei momenti più leggeri (quelli legati all’intimità emotiva di Mimir, che pure si mette a nudo), la scrittura di Valhalla recupera quella gravitas che Ragnarok aveva quasi completamente perduto, e che invece risuonava poderosamente nel capitolo del 2018. Non me ne vogliano i fan di Atreus e delle sue scorribande adolescenziali, ma sono abbastanza convinto che la priorità che gli è stata accordata in Ragnarok, nel futile tentativo di parlare a una generazione di giovanissimi, abbia rotto i sottili equilibri su cui poggiava il nuovo corso di God of War.
Sarà un discorso da vecchio giocatore imbruttito, ma preferisco di gran lunga la seria dignità di Kratos alla deriva disneyana di Angrboda, di Ratatoskr, di Gryla, dei colori di Jotunheim.
Se Valhalla si tiene in piedi, in ogni caso, non è grazie al racconto, ma anzi per merito del combat system, elemento centrale anche nel gioco base, e che qui si riscopre in gran forma. La componente action di God of War è ancora oggi stimolante anche se non eccessivamente tecnica, piacevolmente “fisica”, sufficientemente varia e spettacolare da risultare un ottimo fondamento anche per una modalità roguelike.
Ricominciare dopo un tentativo fallito è questione di un attimo, e sebbene i tentativi possano durare anche una mezz’ora abbondante la voglia di ricominciare immediatamente non manca mai. Santa Monica ha trovato un buon modo di veicolare il senso di progressione si all’interno della run (in cui si possono potenziare statistiche, attacchi runici, effetti bonus), sia grazie agli elementi di persistenza, che si potenziano fra un tentativo e l’altro e incrementano le probabilità di trovare risorse e potenziamenti migliori.
Che il gameplay di God of War non sia stato originariamente pensato per questo tipo di esperienza, comunque, si vede: diciamo che non tutte le armi e le abilità sono efficaci alla stessa maniera, e in molti casi portare avanti un tentativo con la Lancia Draupnir – per esempio – è meno efficace rispetto a potenziale le Lame del Caos. Anche le varie declinazioni della Furia di Sparta e gli scudi non hanno tutti la stessa utilità in battaglia; non aspettatevi quindi il bilanciamento perfetto delle armi di Hades, perché siamo molto lontani da quella calcolatissima precisione. Poco misurato è anche l’impatto della progressione sul grado di sfida: basta qualche ora e ci si ritrova per le mani una macchina da guerra indistruttibile, capace di arrivare alla fine del Valhalla senza troppa fatica. Meglio quindi alzare il livello di difficoltà oltre quello standard, soprattutto se volete prolungare l’esperienza oltre le sei ore necessarie a chiudere la questline principale.
Motivi per farlo, a dirla tutta, non ce ne sono moltissimi: le Valchirie che osservano il viaggio di Kratos hanno qualche storia da raccontare, c’è qualche obiettivo aggiuntivo da portare a termine, e alcune stanze-sfida potrebbero irretire i più curiosi, ma in generale gli stimoli del DLC si esauriscono assieme alla scena finale. Da un certo punto di vista è un peccato: con qualche boss fight in più e qualche contenuto sbloccabile (una nuova arma o almeno un nuovo scudo?) Valhalla avrebbe persino potuto rivendicare una sua autonomia rispetto a Ragnarok. Ma sarebbero serviti grossi investimenti, produttivi e creativi, e Valhalla è un DLC gratuito. Per come la vedo è meglio così, non solo perché lo trovo un approccio rispettoso dell’utente finale, ma anche perché spero che le energie di Santa Monica vengano presto impegnate per il loro progetto futuro, piuttosto che per portare avanti la saga di God of War. Se dovessi fare insomma un parallelismo con The Last of Us Part II e il suo No Return (un’altra modalità roguelike su cui ad oggi nutro gli stessi dubbi che avevo nei confronti di Valhalla), direi che stavolta Santa Monica ha fatto scelte molto più virtuose di Naughty Dog.
Il valore di Valhalla, comunque, è indipendentemente dalla sua gratuità: senza costruirci sopra troppi castelli interpretativi, postulando che si tratti di un DLC fondamentale per il futuro della saga o per redimere Ragnarok dalle sue colpe, ci si può godere un qualche ora di mazzate veraci ed elleniche nostalgie. Non è la redenzione di Eric Williams, semmai il terreno di prova per nuove menti creative (in particolare Bruno Velasquez e Mihir Sheth, che hanno co-diretto questo contenuto), che possano rafforzare il valore di Santa Monica come uno dei team centrali delle future strategie di PlayStation.
Pubblicato il: 30/12/2023
Provato su: PlayStation 5
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