- RECENSIONE -
FINAL
FANTASY
XVI
Bello, bellissimo.
Però...
La storia del mio rapporto con Final Fantasy è a dir poco peculiare. Ho iniziato da X-2 convinto che il mix di numeri arabi e romani in copertina fosse un modo “cool” di intendere il numero 12, e l’ho giustamente abbandonato perché non ci stavo capendo nulla (errori di gioventù, mi perdonerete). Successivamente, tentato da un amico boxaro felicissimo di poter finalmente giocare un titolo della serie principale sulla 360 di Microsoft, provai XIII e ne uscii annoiato e confuso. Decretai sbrigativamente che quella roba lì, semplicemente, non facesse per me. Anni dopo misi quasi per caso le mani su Final Fantasy VI e capii di essermi perso qualcosa di davvero troppo bello e importante per farmi abbattere dalle mie due pessime prime impressioni, e da lì iniziai un lungo processo di recupero dei capitoli numerati della serie, che è diventata inesorabilmente una delle mie preferite in assoluto. Dopo le prime ore passate su Final Fantasy XVI, dopo aver assistito ad innumerevoli dibattiti anche piuttosto accesi su cosa rendesse tale un Final Fantasy, ho ripensato alla mia luna di miele col sesto capitolo e al perché me ne fossi infatuato al punto da considerarlo uno dei miei videogiochi della vita.
Potrei citare il treno fantasma, la splendida sezione dell’opera sulle note di Aria de Mezzo Carattere o la meravigliosa bossfight finale contro quello che ancora oggi, per me, resta uno dei villain migliori dell’intera storia del medium, eppure nella mia testa si è impresso a fuoco il ricordo di un momento semplicissimo che però secondo me racchiude al suo interno l’anima della serie di Hironobu Sakaguchi: Camminando nella world map dalle parti di Mobliz sono incappato in una casetta apparentemente abbandonata in mezzo al niente. All’interno di quell’abitazione c’era un vecchietto che mi ha fatto capire di essere il padre di Gau, un membro del party che è cresciuto assieme alle bestie della catena montuosa del Veldt e che per questo non sa interagire con gli umani. Quella che fino a quel momento per me era poco più che una macchietta che citava Tarzan e Mowgli si è trasformato in un personaggio completo, con un dolorosissimo passato alle spalle e una storia di abbandono da parte di un padre impazzito di dolore per la perdita della moglie dopo il parto di quello che lui considerava solamente un demone. Poche linee di dialogo scovate quasi per caso all’interno della world map hanno trasformato un personaggio che fino a quel momento non avevo digerito quasi per niente in un membro del party a cui mi sono affezionato profondamente. La backstory di Gau è un piccolo premio per i giocatori curiosi e determinati ad esplorare il mondo, e per me Final Fantasy si riassume essenzialmente in questo.
Tra Final Fantasy VI e Final Fantasy XVI ci sono quasi trent’anni di differenza, trent’anni in cui la folle idea di Sakaguchi e soci si è trasformata in uno dei franchise di maggior successo della storia, nonché una delle serie di riferimento per tutto il genere dei JRPG. Nonostante questo, e nonostante una spirale discendente che sembrava aver inghottito la serie regolare dopo il dodicesimo capitolo, Final Fantasy XVI mi è sembrato sin da subito un alieno, un’anomalia nel sistema che non riuscivo a collocare all’interno del grande puzzle del franchise. Intendiamoci: io c’ero al lancio di XV e non ricordo piacevolmente la delusione che mi divorò dentro una volta passate le prime ore di gioco. XVI è stata una boccata d’ossigeno di cui sentivo davvero il bisogno. Eppure, terminata l’avventura nelle terre falcidiate dalla piaga di Valisthea, non posso dire che tra me e questo sedicesimo capitolo sia scattato l’amore. È stato come salire su una montagna russa, che in certi momenti mi ha messo di fronte ad alcuni dei momenti più riusciti e potenti degli ultimi anni del medium, ma che mi ha anche trascinato in abissi che non pensavo possibili per un capitolo della serie. Final Fantasy XVI è così, bello e dannato come il suo protagonista, elegante e contemporaneamente così rozzo da farmi rabbrividire. Per riassumerla in due parole, la cifra stilistica di quest’ultimo capitolo della serie è “sì, però…”, e mi porterà a fare una cosa che generalmente non sopporto: una lista dei pregi e dei difetti dell’opera legata alle sue componenti fondamentali. Non posso farci niente, il mio cervello ha ancora bisogno di compartimentare per poter descrivere ed approfondire le cinquanta ore di gameplay, quindi se come me malsopportate questa pratica abbiate pazienza, non ho trovato un altro modo per farlo in maniera più elegante.
Voglio partire col parlare del gameplay, citando in primis il puro divertimento che mi ha regalato il nuovo combat system messo a punto da Ryota Suzuki. Sì, XVI ha abbandonato ufficialmente i turni per aprirsi ad un’inedita svolta action che sulle prime ha ingannato tutti cammuffandosi da stylish per poi rivelarsi una reinterpretazione elegante e moderna delle rotation tipiche degli MMO. Non è un caso, dopotutto in cabina di regia siede lo stesso Naoki Yoshida che ha fatto la fortuna della serie distruggendo per poi ricostruire da zero il capitolo quattordicesimo che, per l’appunto, è uno degli MMO di maggior successo dell’epoca moderna.
Parte piano, è verissimo, ma migliora anche più in fretta del previsto in una curva evolutiva del gameplay che diventa sempre più ripida ogni volta che si ottiene la possibilità di controllare un nuovo Eikon - che altro non sono se non la nuova reinterpretazione delle summon classiche della serie, qui declinate in maniera del tutto diversa e, per l’appunto, action. Non ci sono neanche piccoli riferimenti ai vari stili di combattimento a turni adottati dalla serie, né ci sono punti di contatto con il sistema ibrido adottato da Final Fantasy VII Remake, che univa l’ATB a degli elementi action in tempo reale sorprendentemente rifiniti e soddisfacenti. Final Fantasy XVI è un netto punto di rottura col passato e lo dimostra in primis così, sganciandosi del tutto dai classicismi per - lo hanno dichiarato a più riprese varie personalità legate al titolo - aprirsi a un pubblico più ampio che mai.
Sì, però...
Se è vero che combattere è a tratti vergognosamente divertente, è anche vero che bastano poche ore per rendersi conto del grande problema di tutto il combat system. Già, perché è evidente che i vari Eikon vogliano aprire un ventaglio di possibilità il più ampio possibile per spingere il giocatore a sperimentare accenni di build differenti, ma dopo poco tempo ci si rende conto del fatto che più della metà delle opzioni offerte dal combat system rotation-based di XVI siano del tutto inutili per la progressione in game. Il ritmo con cui si sbloccano gli Eikon è scandito in maniera imprecisa, al punto che diventa quasi innaturale variare lo stile di combattimento interiorizzato per ore ogni volta che si ottiene la benedizione di una nuova divinità elementale. È un problema che diventa sempre più ingombrante man mano che si progredisce nel gioco, tanto che l’ultimo Eikon lo si ottiene in un momento così vicino ai titoli di coda da non avere nemmeno il tempo materiale di sperimentare un pochettino per inserirlo all’interno delle proprie routine di combattimento. Per non parlare del fatto che tre degli otto Eikon con cui è possibile sintonizzarsi sono così tanto più efficaci degli altri cinque che una volta ottenuti (peraltro tutti entro la prima metà di gioco) è difficile che li si abbandoni per cercare combinazioni più vantaggiose.
A questo si unisce il fatto che la componente ruolistica di Final Fantasy XVI è una menzogna completamente irrilevante: la progressione è legata a doppio filo allo svolgimento della trama e rende quasi impossibile livellare impegnandosi in sessioni di grinding estremo perché l’esperienza ottenuta combattendo con i mostri in giro per la mappa è irrisoria, mentre quella ottenuta progredendo per la storia è tantissima. Lo stesso vale per la personalizzazione e per la gestione dell’equipaggiamento, composto da armi, armature e talismani che non permettono in alcun modo di creare build derivanti da sinergie particolari ma solo di aumentare di qualche punticino i danni inflitti ai nemici.
La narrazione è una di quelle da grandi occasioni, che vede Final Fantasy XVI avvicinarsi pericolosamente agli scenari immaginati tanti anni fa da Yasumi Matsuno con Final Fantasy Tactics, Vagrant Story e Final Fantasy XII. XVI è un gioco politico e orgogliosamente maturo, che sì, cita anche apertamente Game of Thrones, ma allo stesso tempo è alla costante ricerca di una propria identità, che a livello narrativo emerge con più forza e convinzione nella seconda metà dell’opera. Valisthea è una terra costantemente in guerra, dove regni, imperi e ducati si contendono la benedizione dei cristalli e il dominio su un territorio funestato da una piaga che ne sta prosciugando l’essenza vitale giorno dopo giorno. A Valisthea si muore con una semplicità impressionante. I trattati di pace e le alleanze hanno valore solamente di facciata, vengono infranti costantemente e, soprattutto, la piramide sociale è costruita su ingiustizia, classismo e schiavitù. Credetemi se vi dico che mi ha fatto un certo effetto vedere le piume dei Chocobo usati come cavalcature di guerra macchiarsi di sangue; Final Fantasy mi ha abituato da sempre al fatto che quella violenza venisse solamente suggerita e mai mostrata in tutta la sua crudezza. Ho apprezzato davvero l’onestà di Yoshida nel non voler nascondere sotto al tappeto la maturità della storia che ha deciso di raccontare, l’ho trovata una grande forma di rispetto nei confronti dell’intelligenza del pubblico. Final Fantasy XVI è un gioco adulto e non ha paura di esserlo. Lo dimostrano la cura a tratti maniacale per le cutscene, le dinamiche interpersonali mai addolcite artificialmente e il gusto spiccatamente europeo per la gravità dei toni con cui viene raccontata l’epopea di Clive, nato nobile, tradito dalla madre e rivenduto come schiavo dopo aver ucciso il fratello che ha giurato solennemente di proteggere.
Sì, però...
La cura dedicata alle cutscene non è stata riservata alle altre sezioni narrative dell’opera, e lo stesso vale anche per il rispetto per l’intelligenza del pubblico di cui ho parlato poco fa. Il ritmo di Final Fantasy XVI è terribilmente altalenante, con sezioni di trama che quasi esplodono per la ferocia con cui vengono raccontate e messe in scena a cui però fanno da contraltare dei momenti di una vuotezza e di una piattezza imbarazzanti. Nella fase centrale del gioco c’è una bossfight lunghissima e goduriosamente scenografica che si porta dietro anche un carico emotivo notevole, si tratta sicuramente di uno dei momenti più esplosivi di Final Fantasy XVI che sembra in qualche modo suggerire un cambio di passo in previsione della fase finale del gioco. È un momento che ricorderò a lungo; peccato che immediatamente dopo io sia stato pugnalato alle spalle da quasi un’ora di fetchquest obbligatorie di una pochezza narrativa senza eguali, utili solamente ad allungare il brodo con il continuo andirivieni tra un personaggio e l’altro all’interno del rifugio di Clive e compagni. Certo, sono micro incarichi che svolgono una (debole) funzione narrativa, ma le informazioni raccolte in quella sezione specifica della trama potevano benissimo essere condensate all’interno di una cutscene di tre minuti scarsi. Final Fantasy XVI è così dall’inizio alla fine, è una continua alternanza di colpi da maestro e ingenuità ludiche e narrative che è francamente assurdo abbiano trovato posto all’interno di una produzione di questa caratura e importanza anche solo simbolica.
A questo si aggiunge un altro elemento che mi ha fatto alzare gli occhi al cielo a cadenza regolare, ovvero la discrepanza che si viene a creare tra l’urgenza con cui vengono raccontati e affidati a Clive degli incarichi e la totale anticlimaticità con cui tali incarichi vengono portati a termine. Mi faccio aiutare ancora una volta da un esempio pratico: c’è un momento in cui al rifugio si diffonde la notizia che una collaboratrice segreta della fazione di Cid e Clive è scomparsa e nessuno sa dove possa essere finita. Tutti temono il peggio. Una volta arrivati sul posto è però possibile trovare tale collaboratrice ad una distanza di circa trenta metri dalla porta della città, in mezzo alla strada principale. Di esempi simili se ne potrebbero elencare quasi all’infinito, quello che conta però è quanto negativamente impattino con il pathos di cui Final Fantasy XVI si ammanta ogni volta che ne ha l’occasione. È lo stesso problema che sorge quando di fronte ad un mondo devastato da guerra e carestia al giocatore viene chiesto di raccogliere lettere o consegnare delle mele a un soldato.
C’è un abisso tra tutto ciò che è parte della main quest e le missioni secondarie, che sono quasi al 100% delle fetchquest terribili nell’esecuzione, noiose e ripetitive in maniera ossessiva e svogliata. Certo, dietro a quella ripetitività si nascondono sempre degli interessanti “premi” narrativi utili ad approfondire la società di Valisthea o il background di certi popoli e personaggi, ma non c’è giustificazione alcuna per aver deciso di nascondere determinate informazioni di worldbuilding dietro a delle istanze di gameplay tanto noiose e respingenti, tantomeno da una produzione che ha avuto l’intelligenza e la lungimiranza di inserire l’Active Time Lore nel gioco, ovvero una sorta di compendio accessibile in ogni momento (soprattutto durante i filmati) che offre una spiegazione relativa a chi sta parlando, ai domini nominati o a specifici eventi.
Credo sinceramente che Clive sia a tutti gli effetti un grandissimo protagonista, che la storia della sua vendettta che si trasforma in redenzione meriti un posto di riguardo nello storico della serie e che era tanto che non mi interessavo in maniera così approfondita a dei personaggi della serie. La tragedia umana di Benedikta Harman mi ha emozionato davvero, sia per come viene introdotta la sua figura così disperatamente affamata di potere, sia per come quella fame venga spezzata in maniera anche piuttosto crudele. Lo stesso discorso vale per altri comprimari, come Cid che è forse la persona più positiva dell’intera vicenda narrata o Dion che racchiude in sé il dramma di un tradimento così brutale da portarlo pericolosamente vicino alla follia. Lo stesso discorso vale anche per Anabella, figura terribilmente negativa costruita magistralmente con la chiara intenzione di farla odiare senza possibilità di redenzione dal giocatore. L’ho odiata con tutto il cuore, ma ho trovato toccante la sua evoluzione, il suo essere una macchinatrice senza scrupoli e, soprattutto, il fatto che abbia accettato in maniera così totalizzante il suo ruolo di donna, quindi subalterna nei giochi di potere di Valisthea, al punto da negare sé stessa e ricercare la gloria riflessa che solo un figlio diventato imperatore avrebbe potuto donarle.
Sì, però...
È anche vero che si è costretti a passare tantissimo tempo con altri personaggi che hanno lo spessore della carta velina. Jill, in particolare, è piegata dallo stesso destino beffardo capitato a Clive, tradita e venduta come schiava ad un regno che la disprezza in quanto dominante di Shiva ma che la sfrutta sotto minaccia come arma di distruzione di massa da schierare in battaglia per combattere guerre non sue. Perdonate i continui riferimenti a Final Fantasy VI, ma l’impostazione che viene data a Jill mi ha ricordato un po’ Terra e un po’ Celes, la prima schiavizzata tramite controllo mentale dall’impero, la seconda generale di un esercito che non si pone grossi problemi nel sacrificarla per i propri interessi.
Il fatto è che Jill non è niente di tutto questo, perché per la stragrande maggioranza del tempo ricopre una posizione di assoluta inutilità, mitigata solo parzialmente da una sezione di trama lievemente più incentrata sul suo passato recente che una volta conclusa, però, la riporta sullo sfondo. Lo stesso vale per Otto, Charon, Blackthorne e altri personaggi che popolano il rifugio a cui vengono dedicati piccoli approfondimenti solo a patto di avere voglia di imbarcarsi nelle già tanto discusse missioni secondarie. Non ho sofferto particolarmente la mancanza di un combat system a turni, ma la mancanza del party sì perché mi ha fatto sentire terribilmente solo anche quando solo non lo ero, e perché non ha permesso a personaggi secondari come Jill di ritagliarsi dello spazio utile per farsi apprezzare nonostante una scrittura assolutamente non all’altezza.
Chiudo parlando dell’estetica, che mette in mostra un character design non sempre all’altezza a cui fanno da contraltare un monster design e un gusto nella modellazione di Eikon e dominanti davvero sopraffino (molto più vicino agli ultimi capitoli che ai classici, ma pur sempre d’effetto). Ad essere davvero sbalorditivi sono gli ambienti e in particolari le capitali dei regni di Valisthea costruite all’ombra dei giganteschi cristalli madre che forniscono magia agli imperi in guerra, ognuna caratterizzata da stili architettonici e atmosfere molto differenti tra loro, seguendo quella che è una tradizione del genere. Tra il meraviglioso castello gotico di Oriflamme che si staglia imperioso davanti al suo cristallo madre quasi ad imitarne le forme, il brusio costante dei mercati dell’arabeggiante Ran’Dellah e le splendide architetture alte, strette e appuntite di Sponde Gemelle abbracciate dal suo colossale cristallo blu che sembra proteggerla dallo sfondo, Valisthea è una regione incredibile sia per estensione suggerita che per cura nella sua costruzione. Per non parlare poi dello splendido mescolarsi di culture, tradizioni e costumi diversi in un momento storico così tumultuoso per quelle terre.
Sì, però...
Quelle splendide costruzioni intricate, figlie dell’incontro tra l’ingegno dell’uomo e la natura magica plasmata dalla presenza dei cristalli madre, rimangono solamente una gioia per gli occhi e mai qualcosa di più. Sono solamente lo sfondo della vicenda di Final Fantasy XVI, quasi una promessa non mantenuta dal momento che il gioco si rifiuta categoricamente di permettere al giocatore di esplorarle, costringendolo all’interno di open map, lunghi e vuoti corridoi o piccoli insediamenti che al massimo si estendono solamente fino alle porte delle capitali. Quella grandezza e quell’accecante opulenza sono solamente suggerite, perché l’unico modo che si ha di “visitarle” è attraversare dei lunghi e per niente stimolanti tunnel in cui è possibile solamente combattere o raccogliere qualche piccolo oggetto quà e là.
Dimenticate i mercanti unici e i vicoli nascosti che celano premi e sorprese per i più tenaci e curiosi: l’esplorazione viene scoraggiata dal fatto che deviare dalla strada maestra, quando possibile, porta solamente alla raccolta di noiosissimi materiali da crafting che annullano ogni tipo di curiosità e che peraltro è già possibile raccogliere in seguito ai combattimenti o addirittura comprare all’interno dei negozi. La colonna sonora curata da Masayoshi Soken, peraltro, fa pochissimo per mitigare questa sensazione di piattezza generale, spesso mancando di caratterizzare le singole città (o anche solo i singoli regni) con i classici leitmotiv che hanno fatto la fortuna della serie (pensate a Cosmo Canyon, alle miniere di Narshe o al Villaggio dei Maghi Neri: non capita anche a voi di sentire i loro temi risuonarvi in testa ancor prima di riuscire a visualizzarli?) . Attenzione: non sto dicendo che le composizioni di Soken siano in qualche modo da criticare per come sono state scritte e orchestrate, quello che sto dicendo è che anche la musica fa da semplice sfondo, quasi timorosa di ritagliarsi un ruolo da protagonista al di fuori delle battaglie principali.
Tra tutte, questa è stata forse la mancanza che più mi ha ferito, a prescindere da quello che può essere il mio rapporto con Final Fantasy, perché rende Valisthea inerte e perché le sue culture riescono a trovare spazio per prendere vita solamente all’interno dei testi dell’Active Time Lore. Non c’è musica che si sostituisca alle parole dei popoli o che vada in qualche modo a mimare le caratteristiche di questo o quel posto. Questa sì che era una tradizione da rispettare religiosamente.
In definitiva credo ci siano due modi per approcciarsi a Final Fantasy XVI. O lo si prende come videogioco a sé stante o lo si analizza mettendolo a confronto con la serie in cui è inserito. In entrambi i casi il risultato finale è una creatura strana, che ibrida tra loro momenti di una bellezza sconcertante (permettetemi di dire solamente “Bahamut”) e trovate davvero fin troppo povere e ingiustificabili all’interno di una produzione del genere. È difficile trovare un equilibrio, almeno per me, anche perché ho cambiato idea mille volte durante le mie cinquanta ore di gameplay.
Chiudo il cerchio tornando alla casa di Gau e alla scoperta casuale del suo passato. Final Fantasy XVI mi ha negato momenti di quel tipo, così come mi ha negato la gioia di esplorare le sue magnifiche città o i suoi “dungeon” alla ricerca di oggetti unici che giustificassero la mia curiosità.
Sì, però...
La maturità di Valisthea, il dramma di Benedikta, la rabbia di Clive, la meraviglia del guardare un cristallo dissolversi nel nulla, i chocobo insanguinati ai piedi di divinità usate come armi di distruzione di massa e l’epicità con cui mi hanno tolto il fiato le bossfight sono tutti elementi che ricorderò a lungo e che vorrei vedere riproposte in un’altra chiave tra qualche anno, in quello che sarà un nuovo capitolo della serie. Nuovo capitolo che, per inciso, spero corregga i tanti, troppi problemi che affliggono XVI e che faccia un passo indietro quantomeno sulla coralità dei personaggi e sulla libertà di aprroccio da parte del giocatore.
La differenza che c’è tra Final Fantasy XVI e tutti gli altri Final Fantasy è la stessa che sta tra un’avventura e una storia. XVI è una storia in cui il ruolo del giocatore è esclusivamente quello di attraversare i vari corridoi, malmenare mostri e boss per poi essere premiato da una cutscene spesso diretta magistralmente. L’agency è ridotta a zero, ed è proprio questa mancanza a distanziarlo pericolosamente dai canoni della serie e del genere, da sempre interessati a far sì che ognuno trovasse la strada per la risoluzione della trama a modo suo, combinando tra loro tutti gli elementi messi a disposizione dagli sviluppatori. Lo ripeto: XVI è una storia, non è un’avventura, e tra le due c’è tutta la differenza del mondo, perché le avventure sono quelle che è possibile scrivere da soli, che ti si cuciono sottopelle e rimangono con te per tutta la vita, le storie sono uguali per tutti quelli che si siedono ad ascoltarle, e spesso il rischio è che si finisca per dimenticarle o che finiscano per annoiare.
Pubblicato il: 03/07/2023
Provato su: PlayStation 5
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