DIABLO IV
Recensione
E.U.M.A.T.E.
Ovvero: Entra, Uccidi Mostro, Arraffa Tesoro, Esci. Con questo acronimo, per tanto tempo e forse ancora adesso, si è identificato un peculiare approccio al gioco di ruolo pen & paper, focalizzato interamente sulla componente statistica, sul senso di crescita del proprio eroe e sul progressivo miglioramento dell’equipaggiamento. Senza sapere esattamente perché, ho sempre avuto questo strano termine nel mio “vocabolario nerd”, al punto da credere che si trattasse di una sigla ufficiale. Invece EUMATE è un vocabolo che non ha un corrispettivo inglese, non esiste nei manuali o nelle guide ufficiali: è stato inventato dagli autori di Spellbook, una fanzine fiorentina pubblicata a partire dal 1987 e interamente dedicata ai giochi di ruolo. Approcciati – stando alle parole di uno dei suoi fondatori, Marco Serpieri – “con una buona dose di cazzeggio”.
Per intenderci, il sistema EUMATE non prevede nessuna sfumatura interpretativa, una scarsa attenzione alle descrizioni del mondo e un tiepido interesse alla moralità dei personaggi: ci si imbarca più semplicemente in un massacro sequenziale di avversari mostruosi, uno dopo l’altro, attacco dopo attacco, dado dopo dado, al fine di impossessarsi dei rari tesori che nascondo nelle loro tane e di accumulare punti esperienza. È con un moto di fiero campanilismo che ritengo il termine EUMATE uno dei metodi migliori per descrivere la filosofia alla base di Diablo IV. Prima che qualcuno vada su tutte le furie: mi è chiaro che alla base della saga di Blizzard ci sia un meticoloso lavoro di costruzione del mondo, e nel caso del quarto capitolo pure una maggiore attenzione alla trama e al modo in cui viene raccontata.
Capisco e apprezzo il fascino di Sanctuary, della sua turpe demonologia, e trovo che la mitologia angelica e infernale del brand sia uno degli elementi che ancora oggi lo distingue da tanti altri prodotti fantasy, molto più classici e spesso anche molto più spuntati. Eppure, mi sembra lampante il fatto che Diablo IV si tenga in piedi grazie alla sua natura principalmente... incrementale. Alla sua capacità, cioè, di veicolare un senso di crescita attraverso l’incremento di statistiche, di danni inferti agli avversari, di potenza distruttiva, di bonus attivi e passivi che siano.
Lo voglio dire chiaramente anche per orientare le aspettative di chi la serie non l’ha mai frequentata, e magari la avvicina solo con questo quarto capitolo: stando alla denominazione in voga nel 1996, quando uscì il primo capitolo, Diablo è un classico hack’n’slash… un gioco dove spesso si clicca e basta, e forsennatamente, sul tasto destro del mouse, e si utilizza una precisa sequenza di abilità (una “rotation”, per citare un termine molto usato nell’ambito degli MMO) per massimizzare i danni inflitti in un determinato lasso di tempo. Se non subite il fascino di questo fervore matematico e statistico, sappiate che vi troverete di fronte a un prodotto che potreste considerare molto noioso, ripetitivo per natura, e sostanzialmente “senza gameplay”. Il gameplay, in realtà, è proprio legato all’attribuzione dei punti abilità, al raffinamento delle combinazioni, e a quella che in gergo viene chiamata operazione di min-maxing.
Mi perdonerete se in questo pezzo sto utilizzando termini un po’ più tecnici, lo faccio nella speranza che possiate trovarli curiosi o interessanti. Anche dietro questa dicitura c’è una sfumatura analitica: si tratta infatti del processo che porta a minimizzare gli elementi negativi di una classe (per esempio il consumo di mana) e al contempo a maximizzare quelli invece più utili (per esempio l’efficacia degli effetti di stato inflitti ai nemici).
Con tutti questi esempi spero di aver fatto capire a chi non conosce gli Horadrim e i Primi Maligni che Diablo IV è un gioco con un’attenzione morbosa per i numeri, al punto che potrebbe scoraggiare fin da subito chi cerca una partecipazione più attiva agli eventi e una maggiore interazione con personaggi e ambientazioni. Diablo non è mai stato quel tipo di Gioco di Ruolo.
Una premessa che mi sento di fare a questo punto, prima di andare oltre, è che quella che state leggendo non è una recensione. Non può esserlo, per motivi logistici, di trasparenza e di struttura. Diablo IV è un prodotto che mira a proporsi come un Game as a Service. Oppure un Live Game, se volete usare una dicitura alternativa, un gioco in continua evoluzione basato su aggiornamenti costanti e su una distribuzione stagionale di contenuti. Purtroppo Blizzard non ha ancora spiegato nel dettaglio come saranno impostate le stagioni, quali saranno le opzioni di monetizzazione, e dopo la brutta esperienza di Immortals (un gioco che cambia faccia quando si raggiungono le fasi avanzate) credo che sia opportuno valutare quanto influenti o predatorie saranno le microtransazioni. C’è anche da dire che il metodo e le tempistiche con cui Blizzard mi ha permesso di accedere ai server non mi sono bastati per avere un’idea dell’endgame, del multiplayer, di come cambi l’esperienza quando si aumenta il livello del mondo (e di conseguenza la difficoltà). Per sapere se Diablo IV possa funzionare meglio del terzo capitolo, bisognerà lanciarsi in decine di Spedizioni Incubo, bisognerà spargere il sangue di altri giocatori nei Campi dell’Odio, e soprattutto bisognerà capire se e come reggerà il bilanciamento: un’impresa davvero impossibile in questo momento, vista la quantità di combinazioni, build e abilità.
Dopo cinquanta ore di gioco c’è comunque molto da raccontare. Ad esempio che Diablo IV è il capitolo più concentrato sulla narrazione e sul racconto della serie, valorizzato da scene d’intermezzo che caratterizzano efficacemente luoghi e personaggi. Il mondo di Diablo ha sempre avuto una sua contorta materialità: Sanctuary è una dimensione fatta di carne e sangue, attraversata da un dolore pervasivo e onnipresente. Forse non è un mondo sconfitto e marcito come quelli di Miyazaki, ma di sicuro è un mondo popolato da disperati, da popoli che nulla possono di fronte alle macchinazioni delle stirpi infernali o angeliche. Non è un regno fallito ma è insomma un regno di pedine, di villici e di poveri impegnati in una lotta eterna contro la dannazione, contro il peccato, contro una fauna deforme e caprina.
In Diablo IV questa connotazione si percepisce ancora più intensamente. Da una parte grazie al comparto tecnico, che lavora sui dettagli e sulle atmosfere: dalle caverne umide alle sabbie riarse dei deserti, dalle prigioni abbandonate alle cattedrali consumate dall’odio, ogni zona riesce a materializzare un’aria collerica e miserabile, di un fantasy sporco e profano. Questo rifiorire di particolari apparentemente infinitesimali, in combinazione con la visuale isometrica, ti mette di fronte a meravigliosi diorami digitali che sembrano quasi voler suggerire una connessione col mondo dei giochi di ruolo cartacei (da cui pure questo articolo è partito, e che ha influenzato moltissimo il capostipite dalla saga).
Oltre al colpo d’occhio c’è una storia raccontata convintamente, che prova a coccolare chi cerca una narrazione più classica e che lavora molto bene sul concetto di nemesi, dipingendo figure di una malvagità atavica che hanno in sprezzo la vita, le relazioni umane e familiari, il destino degli uomini. Come anticipavo, la storia non vuole comunque essere il pilastro dell’esperienza, che fin da subito si focalizza invece sullo sviluppo del personaggio e dell’equipaggiamento.
Nel corso della prima decina abbondante di ore Diablo IV è davvero impeccabile, per quanto riguarda ritmi e senso di soddisfazione. Di livello in livello si sbloccano le varie tipologie di abilità (prima quelle di base, poi le primarie, fino ad arrivare alle Ultra), e si mettono alla prova varie configurazioni. Ogni classe ha skill differenti con cui sperimentare, e il gioco incentiva un’esplorazione partecipe e curiosa dello skill tree, alla ricerca del proprio archetipo preferito e delle combo più interessanti.
Il Negromante, la classe con cui ho affrontato Lilith e i suoi sottoposti, può focalizzarsi sulle magie d’ossa, sulle evocazioni, sull’utilizzo “creativo” dei cadaveri dei nemici, sulle maledizioni che ammorbino gli avversari e li rendano vulnerabili. Ci sono così tante combinazioni ed è così facile riassegnare i punti abilità, che per diverse ore si resta impegnati in un’operazione di costruzione del proprio personaggio molto attiva e partecipe. Che risuona, fra l’altro, con il piacere un po’ perverso del drop: i pezzi di equipaggiamento rari e leggendari, poi le gemme da incastonare tra anelli e corazze, permettono di far risaltare ancora di più le specificità dell’eroe che stiamo creando. Arriva un momento, però, in cui questa operazione lascia il passo a una progressione di diverso tipo.
Si smette di provare, di inventare, e si comincia solo a massimizzare il danno, giocando ore e ore con le stesse abilità e con la stessa rotation. Insomma, arriva un momento in cui si clicca, e si clicca ancora, e ancora di più, e per non sbagliare si clicca oltre. Questa fase, inevitabile per ogni capitolo di Diablo, risulta in questo quarto episodio un po’ più tediosa del previsto, a mio modo di vedere per colpa di alcune scelte strutturali e creative.
Diablo IV decide di muoversi in direzione dell’open world, proponendo al giocatore una mappa dall’estensione impressionante che può essere esplorata liberamente. Ogni tanto le dimensioni di quest’area non giocano a favore del ritmo: ci si trova spesso e volentieri a percorrere sentieri già battuti, diluendo un po’ l’intensità dell’avventura, e le quest secondarie tendono ad amplificare ulteriormente questo “andirivieni” (una sorta di backtracking molto meno stimolante rispetto a quello dei metroidvania). Fatto salvo per le missioni di liberazione degli avamposti (tra le attività scenicamente e narrativamente più intriganti del gioco), gli incarichi opzionali sono raramente ispirati e trascinanti.
Arriva persino un momento in cui la maggior parte degli oggetti recuperati dai cadaveri e dalle casse non destano il minimo interesse nel giocatore, perché poco utili per la build ormai consolidata. Per innescare nuovamente l’entusiasmo della progressione bisogna arrivare al livello 50 e cominciare ad assegnare i punti Paragon all’interno delle board, tracciando un sentiero fatto di bonus alle statistiche e dirompenti effetti passivi. Il moderato “friccicore” per il loot si riaccende invece facendo salire il livello del mondo, incrementando quindi la letalità degli avversari ma anche la qualità delle ricompense. È proprio in questa fase che Diablo IV diventa Diablo, pienamente, abbracciando in maniera integrale le sue premesse.
Rimane sempre e comunque una strisciante sensazione di ripetitività, legata al riutilizzo molto evidente delle stesse tipologie di nemici – serpi striscianti, sciami di insetti, uomini-capra, spettri furiosi, redivivi deformi – ma anche a una serie di ambientazioni che non si discostano molto da quelle viste in altri capitoli della saga. Forse si poteva osare un po’ di più, soprattutto nelle fasi iniziali e centrali dell’avventura. Chissà se i contenuti stagionali, in arrivo a partire da luglio, riusciranno a ridurre o eliminare questa sensazione di consumata familiarità.
Certo è che Diablo IV, in attesa delle future iniezioni di contenuti inediti, fa di tutto per incentivare una seconda run, spingendo così a provare nuovi personaggi. C’è infatti una progressione legata all’account, e non al singolo eroe, che permette di ripartire con diversi vantaggi: le cavalcature già sbloccate (per velocizzare l’esplorazione del mondo), diversi bonus alle statistiche ottenuti grazie agli altari di Lilith, e qualche skill point da assegnare appena si mette piede nelle regioni nevose di Sanctuary, così da avere un set di abilità attive già a disposizione. Tutto sommato mi è sembrato insomma che ci sia un buon equilibrio nell’esperienza di gioco, una grande attenzione a distribuire gli incentivi sufficienti a superare le inevitabili fasi di stanca.
Una Blizzard così attenta e meticolosa non la vedevo da un bel po’ di tempo, e spero vivamente che il team sia in grado di preservare questa tensione, palpabile e a tratti persino febbrile, che al momento spinge a fare un passo in più, uccidere un altro nemico, a ripulire un altro labirinto. Non sarà un’impresa facile, e il terzo capitolo è inciampato più volte proprio nella fase più delicata (ovvero quella del mantenimento), ma le fondamenta di Diablo IV mi sembrano più solide e le possibilità di successo non mancano.
Mentre mi dedicavo a questa recensione, mi sono venute in mente tante questioni che sarebbe utile approfondire. Si tratta di argomenti forse un po’ più filosofici che pratici, ma che trovo estremamente interessanti. Per esempio si potrebbe tornare a parlare, in maniera più più serena di quanto non si sia fatto ai tempi di Death Stranding, sullo sfumato concetto di divertimento, e su come i videogiochi debbano (o non debbano) declinarlo. Non si può dire che le meccaniche di Diablo IV siano divertenti, in quanto ripetitive e limitate. Ma anche senza scomodare il senso di sorpresa e meraviglia per il racconto o per la scoperta del mondo, è innegabile che Diablo IV inneschi, in più di un giocatore, una sensazione goduriosa: una “fantasia di onnipotenza”, un senso di crescita e di progresso.
Alla stessa fantasia, per come la vedo, rispondono giochi come Stardew Valley, Dredge, lo stesso Death Stranding. In questo caso il drive, la spinta su cui poggia l’intera esperienza, è puramente numerica, ma gli obiettivi che il giocatore si dà sono sempre gli stessi: sviluppo, perfezionamento, dominio incontrastato sul mondo di gioco e sulle difficoltà che esso presenta. Non tutti si sentono attratti da questa fantasia, e anzi c’è chi nei videogiochi cerca altre sensazioni, magari di pacifica decrescita o di stasi.
C’è però un’altissima probabilità che chi ha frequentato i giochi di ruolo, cartacei o digitali, sia incline a lasciarsi irretire dal morboso furore statistico di Diablo IV. E qui si potrebbe aprire un’altra parentesi, su cosa sia o meno un RPG. La componente interpretativa è fondamentale affinché un gioco sia annoverato in questa categoria? Bisogna avere facoltà di intervenire sul mondo o sulla moralità del proprio personaggio, perché la dicitura Role Play abbia effettivamente senso? Oppure ci si può invece dedicare soltanto alla progressione, schematica, del proprio eroe? Sono abbastanza convinto che la risposta a queste domande sia diversa per ogni giocatore, e che questa risposta determini anche il grado di apprezzamento di ciascuno di noi per l’impostazione di Diablo. O, se non altro, almeno l’approccio che si dovrebbe utilizzare per affrontarlo: giocarlo una volta sola, dall’inizio alla fine, per sconfiggere le forze maligne che si addensano su Sanctuary, oppure lasciarsi catturare dal vortice di cifre, di bonus, di combinazioni? Scegliete voi quale approccio utilizzare, con una sola certezza.
Quando vi chiederanno esattamente cosa avete fatto, giocando a Diablo IV, la risposta più giusta sarà sempre:
Sono entrato, ho ucciso mostri, arraffato tesori, sono uscito.
Pubblicato il: 30/05/2023
Provato su: PC Windows
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