The Legend Of Zelda

TEARS OF THE KINGDOM

In molti sceglieranno di cominciare dal senso di libertà. Ovvero dalla sottile ma percepibile consapevolezza, onnipresente nel corso dell’avventura, che non ci sia mai una sola via per raggiungere l’obiettivo, per risolvere un enigma o per sconfiggere un drappello di mostri. Insomma dall’idea che Tears of the Kingdom, ancor più di quanto non facesse Breath of the Wild, si appoggi su un sistema di regole da studiare e scardinare, da piegare al proprio volere, da usare senza limiti né impedimenti per lasciar correre la fantasia.“Tears of the Kingdom è un inno alla creatività”. Lo leggerete spesso, nei titoli e nei testi delle recensioni... e lo leggerete perché è vero. È una dimostrazione di quanto sia monumentale l’estro di Aonuma e del suo team, ed è un invito costante a sperimentare soluzioni ardite, a lasciarsi meravigliare.Sarebbe giusto, in effetti, cominciare proprio da qui: da quel coraggio che serve per cambiare, per evolvere, per costruire un sequel che abbia almeno in parte un sapore nuovo. Un coraggio del genere serve all’industria del videogioco più di ogni altra cosa, ma spesso viene invece messo in secondo piano in nome di un conservatorismo più rassicurante. Eppure la bellezza di Tears of the Kingdom non sta soltanto in ciò che è nuovo, ma anzi nel suo equilibrio tra la rivoluzione e la continuità. Tears of the Kingdom è un seguito diretto di Breath of the Wild e io voglio cominciare da lì, da ciò che trovo – dopo un centinaio di ore di gioco – il cardine e il sostegno di un’esperienza indimenticabile: le terre di Hyrule. A rendere meravigliosa quest’avventura non sono gli antichi arcipelaghi che fluttuano nel cielo, troppo pochi e rarefatti per rappresentare la parte più consistente del gioco; né le tetre profondità di un sottosuolo quasi “alieno”, che si estende sotto tutta la mappa principale senza però condividerne spessore e varietà. È ancora una volta Hyrule che anima e sostiene il viaggio inesauribile di Link.

Ho un rapporto spesso conflittuale con i mondi aperti, trovo che renderli densi e interessanti sia un lavoro complesso e difficile. Hyrule mi ha lasciato completamente disarmato di fronte alla sua assortita ricchezza, a quella che voglio chiamare… molteplicità. Anche in questo caso siamo di fronte a un gioco fatto di contrasti: capita spesso di percepire un avvolgente senso di vuoto, di camminare per lunghi minuti senza incontrare un nemico, di trovarsi faccia a faccia con un muraglione da scalare in silenzio, con pazienza, con “fatica”. Non si tratta mai di una sensazione spiacevole. È anzi una sensazione di incontro con una natura schiva e solitaria, di sfida alla frontiera, ma soprattutto di esplorazione e (ri)scoperta. Le terre di Hyrule sono anche piene di rovine, di caverne che si estendono per centinaia di metri, e poi di scorci meravigliosi, di cittadine distrutte o ricostruite. Dal ciliegio in fiore sul monte Satori (devoto tributo a una delle personalità più importanti per Nintendo in questa fase di apertura alla contemporaneità), alle rocciose prospettive del Monte Morte, dai picchi nevosi che circondano il borgo dei Rito fino alle paludi sferzate dalle tempeste torrenziali, Hyrule proprio non ce la fa ad estinguersi. Ci sono, è chiaro, elementi ricorsivi, che a intervalli regolari si ripetono un po’ meccanicamente: le grotte in cui scovare gli schivi Rospettri tendono a somigliarsi un po’ tutte, e gli enigmi che portano a raccogliere i semi Korogu, presenti in quantità ancor più soverchianti che in passato, diventano ripetitivi molto prima di quanto si possa sperare. Però c’è anche tutto il resto: le storie degli Stallaggi e le fonti delle fate, le torri da sbloccare risolvendo enigmi sempre diversi, le baite nascoste, i fossili monumentali, gli insediamenti dei nemici, i labirinti, i Geoglifi disegnati sui campi e sulle pareti delle montagne, che nascondono antichi segreti. Oggi come sei anni fa, è uno dei mondi virtuali meglio caratterizzati di sempre, è uno spazio calcolatissimo colmo di storie silenziose, di leggende antiche e di microscopici fatti quotidiani nei villaggi Finterra e Calbarico. È difficile definirlo “denso”, come invece lo sono altri Open World riempiti a forza di quest tutte uguali; meglio usare un aggettivo ben più prezioso al giorno d’oggi: è un ambiente significativo. Un mondo carico di spazi memorabili, che lasciano il segno.

"Capita spesso di percepire un avvolgente senso di vuoto, di camminare per lunghi minuti senza incontrare un nemico, di trovarsi faccia a faccia con un muraglione da scalare in silenzio, con pazienza, con “fatica”. Non si tratta mai di una sensazione spiacevole. È anzi una sensazione di incontro con una natura schiva e solitaria, di sfida alla frontiera, ma soprattutto di esplorazione e (ri)scoperta"

E se è vero che la geografia di Hyrule è la stessa di Breath of the Wild, è molto difficile avvertire una spiacevole sensazione di riciclo, proprio perché il team si è divertito a immaginare come sono cambiati gli spazi, come si sono evoluti dopo la sconfitta della calamità Ganon e l’arrivo di una nuova minaccia. In un villaggio la vita quotidiana si è trasformata dopo che delle imponenti rovine sono piovute dal cielo, un altro è stato invece assalito dai pirati. I grandi baratri che si sono aperti nel suolo, vomitando sulla terra un miasma velenoso, hanno sconvolto i popoli di Hyrule e le abitudini di alcuni esseri antichi quanto il tempo, e anche solo scoprire come i Goron o gli Zora abbiano deciso di reagire alla nuova crisi scaccia l’idea di un pigro riutilizzo del materiale di sei anni fa.

Sarebbe però disonesto affermare che non si sente affatto la sensazione di trovarsi di fronte a un sequel più… regolare. Tears of the Kingdom non lo è per quanto riguarda le meccaniche, ma decide di aderire a una struttura sostanzialmente identica a quella del suo predecessore. Quattro popoli da salvare ai quattro angoli del regno e un racconto che procede attraverso flashback dilatati, a volte un po’ impalpabili. E ancora i sacrari sparsi sulla superficie di Hyrule, e i semi Korogu che abbiamo già citato, e lo stesso sistema di crescita dell’eroe, attraverso i Portacuore e i Portavigore. Se sognavate un’esperienza riscritta nelle fondamenta rispetto a Breath of the Wild, se immaginavate che Tears of the Kingdom potesse calcare strade inconsuete come al tempo fece Majora’s Mask, o se pensavate addirittura a una ricomparsa di elementi più classici come i dungeon, sappiate che non troverete nulla di tutto questo. Il team di sviluppo, anzi, sembra aver rifiutato categoricamente alcune delle rimostranze del pubblico, conservando anche gli elementi più discussi o problematici del predecessore. L’usura delle armi, ad esempio, viene solo in parte mitigata dal potere del Compositor, che permette di fondere manici, else, bastoni e oggetti, e i combattimenti si svolgono sempre con quel filo di ansia legato al consumo di strumenti ottenuti anche molto faticosamente. È una dinamica che spinge a sperimentare, soprattutto sulle prime, ma che alla lunga finisce per mettersi un po’ di traverso.

Alla stessa maniera sarebbe stato bello trovare, alla fine delle missioni principali, dei dungeon più strutturati, che avessero il sapore e la struttura di quelli di Twilight Princess, e invece c’è poco di più rispetto ai Colossi di Breath of the Wild. Diciamo che le aree in cui si concludono le quest rappresentano quasi delle piccole “antologie di enigmi” piuttosto che intricati labirinti. Migliorano un po’ le battaglie con i boss, anche se i meccanismi per sconfiggerli sono sempre abbastanza chiari, legati all’uso di poteri speciali su cui – da quel momento in avanti – Link potrà fare affidamento, non troppo diversi rispetto alle vecchie abilità di Revali, Mipha, Urbosa e Daruk.

"Se sognavate un’esperienza riscritta nelle fondamenta rispetto a Breath of the Wild, se immaginavate che Tears of the Kingdom potesse calcare strade inconsuete come al tempo fece Majora’s Mask, o se pensavate addirittura a una ricomparsa di elementi più classici come i dungeon, sappiate che non troverete nulla di tutto questo."

Mi duole ammettere che non tutti gli elementi che avrebbero dovuto differenziare poderosamente Tears of the Kingdom dal capitolo di sei anni fa hanno un impatto dirompente sugli equilibri del gioco. Come dicevo le isole celesti, al di là di un paio di momenti legati alla trama principale, in cui si visitano strutture complesse e meravigliose, hanno quasi la funzione di “sacrari sopra le nuvole”, proponendo qualche puzzle ambientale o delle sfide di riflessi e ingegno. In fin dei conti non sono neppure moltissime.

Gli spazi che funzionano meno sono quelli sotterranei. La prima volta che mettiamo piede nel sottosuolo di Hyrule veniamo colti da una sensazione di straniante meraviglia: avvolti da un buio primordiale ci accoglie una musica atipica, cacofonica ma con uno strano accordo alle sonorità epiche e solenni che invece dominano in superficie. La vegetazione contorta, sbiadita, deturpata dal miasma sembra formulare la promessa di un lugubre mondo tutto da scoprire, ma è un patto che si infrange rapidamente. Nel sottosuolo si procede lanciando semi luminosi per schiarirsi la via, alla ricerca di radici che hanno la funzione di grossi fari rivelatori. Le buie profondità della terra sono però uniformi, più vuote del previsto, teatro di un’esplorazione meno partecipe e interessante. Per fortuna ospitano alcune missioni interessanti, della trama principale e non. È però vero che, sebbene né le isole fluttuanti né la Hyrule sotterranea abbiano il rilievo sperato, tornare di tanto in tanto in cielo – proiettati dalle torri di osservazione – o nelle profondità della terra – lanciandosi negli strapiombi che squarciano il terreno – basta a diversificare un po’ la progressione dell’avventura, variandone piacevolmente le tonalità.

E poi bisogna ricordare una cosa importante: che a livello di ispirazione, senso di meraviglia e ritmo, Breath of the Wild è ancora un open world imbattuto. Tears of the Kingdom estende quel senso di meraviglia, in qualche momento persino lo moltiplica, lo incanala in un gran numero di quest scritte e di piccoli eventi nascosti o manifesti. È un’esperienza di cui si parlerà per anni, una delle più significative di questa generazione, anche grazie a un racconto messo in scena con più convinzione. Non si può parlare certo di una narrazione che riconquista un ruolo del tutto centrale, ma almeno di una storia raccontata con strumenti più affilati: un paio di sequenze, compresa una battaglia finale da mozzare il fiato, sono animate da un fervore quasi lirico, decise a imprimere nella memoria del giocatore la leggenda di nuovo eroe e della principessa che lo ha reso tale.

"E poi bisogna ricordare una cosa importante: che a livello di ispirazione, senso di meraviglia e ritmo, Breath of the Wild è ancora un open world imbattuto. Tears of the Kingdom estende quel senso di meraviglia, in qualche momento persino lo moltiplica, lo incanala in un gran numero di quest scritte e di piccoli eventi nascosti o manifesti."

Se di Tears of the Kingdom si parlerà a lungo sarà anche grazie alle sfumature di un gameplay che decide di cambiare, anzi di osare apertamente. Dismessi gli strumenti precedentemente a disposizione di Link il gioco si concentra su una serie di poteri legati all’antica civiltà degli Zonau, estinta da secoli eppure così presente in questo capitolo. Si tratta di poteri pensati generalmente per giocare con l’ambiente e soprattutto gli oggetti, che permettono combinarli e alterarne le funzioni. L’utilizzo di alcune abilità è più regolare: Ascensus permette di proiettarsi verso l’alto, e attraversare le superfici che stanno sopra la testa di Link. Risalire verso Hyrule lungo le titaniche colonne che spuntano nel sottosuolo, o sbucare fuori da una grotta appena esplorata senza dover compiere il percorso a ritroso (o ancora tuffarsi in un pozzo, nuotare per qualche metro, e magicamente lanciarsi all’interno una stanza chiusa), comunica un senso di grande libertà e velocizza il processo di esplorazione, ma si va poco oltre: a parte qualche enigma, è evidente che Ascensus non voglia sostituirsi alle arrampicate e ridurre l’importanza della stamina.

Reverto riavvolge il tempo soggettivo degli oggetti, che in Tears of the Kingdom conservano la memoria dei loro ultimi spostamenti. Si presta di tanto in tanto a utilizzi creativi che sembrano “rompere” alcuni enigmi, ma in generale ho finito per utilizzarlo molto meno rispetto al Compositor e all’Ultramano. Col primo si assemblano armi estrose e scudi dalle funzioni più disparate, ma è il secondo potere che rappresenta la pietra angolare di un gameplay votato, come dicevo all’inizio, alla libertà e allo sperimentalismo. Con l’Ultramano si afferra qualsiasi oggetto, anche di grandi dimensioni, per collegarlo ad altri elementi. Due piattaforme per costruire un ponte, qualche tronco per una zattera, un pallone e del fuoco per una mongolfiera. Ma anche piattaforme semoventi, piccoli carri armati automatizzati, cannoni, carrucole, carrelli, slitte. Si può provare a fare di tutto, componendo inguardabili storture architettoniche o perfette riproduzioni di vetture, di aerei, di carri da attaccare alla bardatura di un cavallo.

Lo studio che sta dietro all’uso dell’Ultramano è una fragorosa lezione di game design; una di quelle che, sono convinto, verrà studiata da intere generazioni di aspiranti creativi. Il team di Aonuma è riuscito a trovare il bilanciamento perfetto fra immediatezza, pluralità e stilizzazione. Ovvero: con un sistema di composizione relativamente semplice, è possibile combinare un numero non certo soverchiante di tipologie di oggetti per ottenere invece un numero enorme di risultati, di veicoli, di funzioni. Sono sinceramente ammirato da questa soluzione – essenziale ed elegantissima – nonostante sia profondamente refrattario al crafting di Minecraft e di un’altra marea di survival e di sandbox. La soluzione di questo Zelda non è dispersiva, non è asfissiante, è sintetica ma fertile.

"Il team di Aonuma è riuscito a trovare il bilanciamento perfetto fra immediatezza, pluralità e stilizzazione. Ovvero: con un sistema di composizione relativamente semplice, è possibile combinare un numero non certo soverchiante di tipologie di oggetti per ottenere invece un numero enorme di risultati, di veicoli, di funzioni."

Dopo aver metabolizzato un sistema di controllo che conserva degli elementi di forte complessità, anche grazie all’introduzione molto morbida con cui il gioco lo spiega e lo introduce, si riesce con buona rapidità a costruire i primi oggetti. Si sperimenta con elementi molto “primitivi”, ruote e vele e assi di legno. Poi, gradualmente, Tears of the Kingdom introduce nuove possibilità. Succede, quasi per magia, che progressivamente si sblocchino nuovi congegni Zonau, così che anche il potere dell’Ultramano abbia una sua progressione. Non ci si sente sopraffatti perché la scoperta di questi oggetti è graduale, spesso anticipata da qualche enigma presente nei Sacrari o sulle isole celesti. È come se nel gioco trovasse spazio un tutorial frammentato, un “mosaico di istruzioni per l’uso” disseminato per tutta Hyrule. Esemplare è il lavoro di identificazione degli oggetti da concedere al giocatore: dapprima ventole, ruote e cloche, poi degli elementi che permettono quasi di “programmare” o di automatizzare le proprie creazioni. E così arriva una testa che punta il nemico più vicino, o un piccolo cingolato che lo insegue, o ancora un “sempreinpiedi” (ma dalle mie parti si chiama anche “misirizzi”), un oggetto che ritorna sempre in posizione verticale, portando con se qualsiasi elemento connesso. Ottimo per una catapulta improvvisata.

Se come me siete un po’ spaventati dalla libertà senza confini, ma vi piace invece l’idea di avere una gamma (un poco più limitata) di possibilità per risolvere certe situazioni, sappiate che Tears of the Kingdom riesce, in maniera quasi poetica, a coniugare proprio queste due dimensioni. Da una parte lascia la possibilità, usando i congegni Zonau presenti nell’inventario e accumulati presso appositi distributori, di realizzare dispositivi complessi e meccanismi fuori di testa. Dall’altra dissemina in tutte le aree di gioco, con una costanza impressionante e un’artigianalità quasi maniacale, degli elementi che suggeriscano al giocatore un espediente rapido e percorribile, ingegnoso ma non folle né cervellotico. È come se il team strizzasse l’occhio agli utenti che cercano un’avventura più classicama non del tutto classica – indirizzandoli morbidamente: senza imporre una via preferenziale, senza limitare la loro creatività, ma concedendogli una soluzione “di rapido consumo”. Considerando che all’interno dei Sacrari anche l’Ultramano viene messa al servizio di puzzle molto più classici (e generalmente molto ispirati), si compone il profilo di gioco che sa muoversi agilmente sul confine tra avventura e sandbox, fondendo le due categorie con molta più convinzione di quanto non avesse fatto Breath of the Wild.

Non credo che sia un titolo perfetto – ammesso e non concesso che la perfezione si possa cogliere e digitalizzare – ma di sicuro è la perfetta formula per un seguito. Per un videogioco, cioè, che non rinneghi le sue radici, evidenziando forti elementi di continuità con il predecessore, ma che al contempo cambi, osi dove conta di più, evolva storie e meccaniche.

Tears of the Kingdom e Breath of the Wild si parlano, si inseguono e si fiancheggiano, si incalzano e si completano. Un po’ come facevano i due capitoli di Mario Galaxy, complementari e diversi, affini e distinti.Non è un caso che l’emblema di Tears of the Kingdom sia un Uroboro, il serpente circolare che si morde la coda, e che nel logo incornicia il titolo e la spada dell’eroe, allo stesso tempo nuova e distrutta. C’è una ragione legata al racconto se quel serpente sta lì, ma credo sia importante pensare anche a quello che l’Uroboro simboleggia. Ovvero l'unità, la totalità, l'eterno ritorno.

L'immortalità.

Pubblicato il: 11/05/2023

Provato su: Nintendo Switch

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40 commenti

Mi è piaciuto giocare a TOTK ma al tempo stesso credo abbia segnato la "dipartita" di Zelda dalla mia vita da videogiocatore.
Rivisitare Hyrule a caldo è stato bello, tutto così simile eppure diverso. A distanza di qualche mese, credo mi abbia la …Altro...
Mi è piaciuto giocare a TOTK ma al tempo stesso credo abbia segnato la "dipartita" di Zelda dalla mia vita da videogiocatore.
Rivisitare Hyrule a caldo è stato bello, tutto così simile eppure diverso. A distanza di qualche mese, credo mi abbia lasciato quel retrogusto di "è la decima volta in questa settimana che mangio lo stesso piatto". Non è un sentimento nato mentre giocavo, ma dopo, a freddo. Il retrogusto migliore rimane quello del sottosuolo e quello della paravela. Le isole del cielo sono francamente sottoutilizzate, almeno a fronte della forte pubblicità fatta al riguardo. Sicuramente migliori di quelle di Skyward Sword.

I nuovi poteri si sono rivelati molto divertenti anche se li ritengo poco fluidi nel contesto esplorativo: ascensus fa partire un'animazione lunga anche per tratte brevi, ultramano è macchinosa, autoultramano è dispendiosa, reverto spacca tutti i dungeon ed è forse la più divertente per questo motivo (praticamente inutile nel flow delle battaglie se non per dei gimmick).

Sacrari maggiori: Gerudo e Piccioni belli, per motivi diversi. Tartarughe ninja di roccia molto meh, Street Shark bello fino a poco prima dell'isola finale.
E cazzo hanno peggiorato i poteri, nel senso che è un costante menuing per mettere e cavare quei fantasmi demmerda che occupano tutto lo schermo e costantemente appaiono e spariscono, che cazzo di maldimare.

Ottimo il redesign dei nemici e il redesign della progressione delle armi, legata a doppio filo al livello dei nemici.

Trama: goduta. Bella, alcuni momenti Zelda pare rincoglionita, ma quando deve premere i punti di pressione giusti nella mia emotività lo ha fatto. Fossi stato in Nintendo avrei fatto giocare con Zelda il passato. Non so se in altri giochi prima Zelda abbia fatto sacrifici del genere. Bellissima sequenza finale, anche se per mio gusto non avrei fatto sopravvivere Zelda: pensando a questi due ultimi capitoli come ad un soft reboot, lasciar morire Zelda avrebbe dato un nuovo significato al titolo dei videogiochi.

Tutto sommato giocarlo è stata una bella esperienza, che non vorrei ripetere.

Bella recensione Fossa, forse me l' aspettavo più lunga ma ci sta, hai voluto raccontarci le tue sensazioni ed emozioni lasciando fuori le cose più scontate ( come il comparto tecnico di cui si è parlato molto in altre recensioni), volevo chiedere …Altro... Bella recensione Fossa, forse me l' aspettavo più lunga ma ci sta, hai voluto raccontarci le tue sensazioni ed emozioni lasciando fuori le cose più scontate ( come il comparto tecnico di cui si è parlato molto in altre recensioni), volevo chiedere una cosa a te e anche la community, secondo voi la struttura portante di 4 punti da raggiungere, sacrari per portacuore e vigore, ecc. si poteva cambiare? A me non sta dando troppo fastidio perché i nuovi sacrari li trovi a tratti anche più ispirati di BOTW, però leggo e sento di persone un po' deluse da questa 'continuità'.

Nintendo
(e Fossa).

Grazie Fossa, una bellissima recensione, davvero.

Top come sempre!

Grande Fossa!

Bellissima recensione, Fossa

Ciao, bella rece ma non lavori più per Eye?

Bellissima recensione.
Un articolo che spiega molto bene il gioco è le sensazioni che porta, senza infrangere il senso di avventura e scoperta su cui il titolo si basa.
Complimenti

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