THE
CALLISTO
PROTOCOL
Non ricordo, di recente, un gioco che mi abbia amareggiato quanto The Callisto Protocol. Arrivo a dire che per il titolo d’esordio di Striking Distance Studios utilizzerei una di quelle descrizioni abusate che raramente mi piace scomodare. Però ecco: per me The Callisto Protocol è una grande occasione sprecata. Sfrutto raramente questo concetto perché spesso lo trovo applicato a sproposito. Diverse produzioni che in tanti fanno ricadere nella categoria “ha potenziale ma non si applica”, in verità, quel potenziale non ce l’hanno nemmeno. Si tratta invece di giochi pompati dai reparti marketing e spacciati per il nuovo paradigma del genere, ma che non hanno né efficacia né idee: il potenziale, in quei casi, è interamente “costruito” dalla comunicazione. Badate bene: anche il publisher di The Callisto Protocol (Krafton) e il director Glen Schofield, su questo fronte, ci sono andati giù pesante, al punto da etichettare il gioco come il primo “quadrupla A” mai realizzato. A questo tipo di spericolate acrobazie pubblicitarie va però lasciato meno spazio possibile, e infatti la mia considerazione nasce dall’idea che The Callisto Protocol, quel potenziale di cui dicevo, ce l’abbia eccome, e anzi lo mostri con decisione nelle prime ore di gioco. Non è soltanto questione di grafica. Sarebbe sciocco non ribadire che l’impatto visivo è impressionante, con un colpo d’occhio straripante di dettagli e valorizzato da effetti volumetrici, texture all’avanguardia e un’illuminazione allo stato dell’arte. Il rendering si sporca un po’ nelle situazioni più intense (la risoluzione nativa si abbassa leggermente), e le fiamme che si propagano in alcuni scenari sono realizzate con una qualità infima se rapportata a tutto il resto, ma The Callisto Protocol rimane, visivamente, uno dei titoli più ricchi e sontuosi degli ultimi anni, nonostante lo sviluppo cross-gen e la necessità di girare anche sulle console della scorsa generazione. Il lavoro grafico ed estetico viene utilizzato anche per dare carattere all’ambientazione, che ho trovato efficace fin dalle prime battute. La fantascienza ruvida e violenta di The Callisto Protocol non è delle più originali, ma è convincente e messa in scena con grande consapevolezza. Si mescola, a tratti, con le prospettive di una science-fiction meccanica e industriale, sporca di morchia e bitume, e in questo si avvicina sicuramente a Dead Space, Punto di Non Ritorno, Pandorum; eppure il tema della prigione risulta molto caratterizzante, distingue in maniera netta The Callisto Protocol proprio dal titolo Visceral Games che tanti utilizzano come metro di paragone. È anzitutto una questione di sfumature: gli spazi del carcere non sono opprimenti come quelli della Ishimura, le strutture sono diverse, nella funzione e nell’estetica, rispetto a quelle di una nave spaziale, e in fondo manca anche quella sensazione di un orrore sanguigno, di una follia viscerale fatta di carne e di ossa. I biofagi di The Callisto Protocol ricordano più una minaccia mutante, risvegliano la paura di un’epidemia o di un contagio, e tra i due giochi c’è una distanza anche tematica: Dead Space risveglia le fascinazioni di un orrore cosmico mentre The Callisto Protocol punta sul terrore biologico. Il primo si perde nella solitudine, nel vuoto e nel silenzio dello spazio profondo; il secondo invece procede sulle inospitali distese del satellite di cui porta il nome.
In verità The Callisto Protocol esplora, nel corso dell’avventura, anche altri canoni della science-fiction, infilandosi in lugubri complessi minerari oppure esplorando gli alloggi futuristici e asettici degli alti dirigenti della prigione. Quello che voglio dire è che le somiglianze con Dead Space - sbandierate come uno degli elementi più controproducenti per The Callisto Protocol - in realtà si esauriscono in fretta. Neppure il gameplay è davvero paragonabile, in quanto il nuovo titolo di Glen Schofield punta poco sulle sparatorie e invece tantissimo sulle zuffe corpo a corpo (che diventeranno, come vedremo, una delle principali dannazioni della produzione). L’obiettivo è quello di rendere gli scontri diretti, feroci, facendo avvicinare il personaggio – e con lui il giocatore – al pericolo, alla violenza e alle perverse atrocità dell’infezione. Il vero problema è che lo strano balletto del protagonista, fatto di schivate a ritmo che sembrano quelle di un boxeur professionista, si fa ben presto noioso e prevedibile, rappresentando di fatto l’unica soluzione per affrontare tutti i nemici: si aspetta sulla difensiva, si schivano i primi due o tre colpi delle creature folli e aberrate, si risponde con qualche sonora mazzata. E così via per tutto il gioco, a parte in quei rarissimi momenti in cui The Callisto Protocol schiera in campo dei predatori subdoli e più insidiosi, capaci di mimetizzarsi e arrampicarsi sui soffitti, quasi alla maniera dei Licker.
Nelle prime fasi dell’avventura, mentre si interiorizzano le regole di questo sistema, non è spiacevole l’approccio manesco del protagonista Jacob (un altro nome biblico come fu per l’Isaac Clarke di Dead Space, e non credo sia casuale il fatto che nei testi sacri Giacobbe sia proprio figlio di Isacco). Basta una manciata di ore per cambiare idea. Anche sbloccando varie armi da fuoco il sistema non varia di una virgola, dal momento che pistole e fucili servono più come supporto che come strumenti risolutivi per gli scontri, e che l’incedere diventa noioso, monocorde, persino asfissiante. Il sistema, inoltre, funziona male quando è necessario gestire più nemici contemporaneamente, e in alcune situazioni la disparità numerica è tale che il massacro dei biofagi diventa frustrante.
The Callisto Protocol, invece di innescarsi e crescere progressivame nel corso delle dieci ore necessarie per portarlo a termine, si ferma, vacilla, inciampa e sbaglia tutto quello che può sbagliare. Persino le cruente sequenze che sottolineano le ingloriose morti di Jacob finiscono per mettersi di traverso: sono poche, non tutte ben realizzate, e soprattutto allungano drasticamente il tempo necessario a ripartire dopo un fallimento. Piuttosto che osservarle morbosamente, ghignando per lo stile granguignolesco ed esagerato, ci si trova a premere ogni tasto nella vana speranza di saltare l’ennesima profanazione riproposta fino allo sfinimento. Mortificante è pure il sistema di checkpoint, sballate le animazioni di ricarica, limitata la gestione dell’inventario, colposa la scarsa varietà delle creature che infestano la superficie di Callisto. Quest’ultimo punto, in particolare, travalica ogni limite quando si scopre che i boss del gioco, oltre ad avere gli stessi comportamenti di tutti gli altri nemici (declinati in versione steroidea e ultramuscolare), sono praticamente tutti identici... un unico modello riutilizzato due, tre, quattro volte, appena prima di uno scontro conclusivo che rappresenta una pallida variazione su tema di tutti gli altri, senza di certo risultare più ispirato. Persino il racconto riesce a neutralizzare tutte le idee "seminate" nella prima parte dell'avventura. Non che mi aspettassi una trama particolarmente dirompente, ma almeno un colpo di scena, per quanto prevedibile, e qualche rivelazione sulle intenzioni o sul passato dei personaggi tirati in ballo. Invece niente: i protagonisti di The Callisto Protocol non hanno spessore, i comprimari passano senza lasciare traccia, e la sceneggiatura si limita a declinare in maniera non troppo originale alcuni dei più triti cliché della narrativa di genere.
In fin dei conti tutto quel che mi resta della torbida scampagnata su Callisto è soltanto un incipit memorabile, anche per merito di un'iconografia subito riconoscibile, che potrebbe nel caso sostenere un'eventuale prosecuzione del brand. Ma non c'è davvero nulla di più, in questo action legnoso e frustrante: al momento, lasciatelo confinato nei più cupi recessi del cosmo.
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