La verità sul clickbait videoludico che nessuno ti dice
È così che ti manipolano: la scienza del clickbait nei videogiochi (la numero 4 ti sconvolgerà)
Considerando il punto di accesso a questo contenuto, ovvero un portale fondato su pratiche editoriali il più possibile etiche e trasparenti, immagino abbiate colto al volo l’intento provocatorio\didascalico del titolo in testa all’articolo. Si tratta di un insulso concentrato di tecniche manipolatorie in forma testuale, le stesse sversate “ad libitum” sugli approdi di gran parte delle testate online e delle piattaforme video col preciso intento di catturare l’attenzione della platea, e questo al di là dell’effettivo valore delle informazioni al centro dell’elaborato.
Le ragioni di questa tendenza, sempre più dilagante, sono lampanti: l’editoria digitale misura il proprio successo in “click”, e questo nel quadro di un ambito estremamente competitivo, affamato di risorse e inevitabilmente predatorio, almeno per quel che riguarda la competizione settoriale. Per nutrire la macchina è dunque imperativo stimolare l’interesse dell’utenza, nella cornice di un panorama che si barcamena fra ciclici fortunali d’hype e lunghe parentesi di bonaccia: periodi in cui la necessità di riempire le pagine si scontra con la diffusa scarsità di notizie davvero stimolanti, almeno per i parametri del grande pubblico. A onor del vero, sensazionalismi e ambiguità sintattiche hanno sempre trovato spazio fra le maglie del giornalismo, ma dagli anni duemila in poi abbiamo assistito a una progressiva sovrapposizione fra i linguaggi della stampa e del marketing, indissolubilmente legata all’ascesa dei cosiddetti “new media”.
Malgrado i toni un po’ caustici di questa premessa, ritengo che sia semplicistico vincolare il discorso a questioni puramente etiche o deontologiche, specie considerando quanto vacue e strumentali possano farsi queste coordinate a seconda del contesto e del momento. Credo sia meglio imperniare il dibattito su altre basi, delineando in primis quelle che sono le logiche, le tecniche e le leve psicologiche alla base del “clickbaiting”.
Perché clicchi sempre? Ecco la verità
Per quanto la proliferazione del “clickbaiting” abbia ormai rivestito il concetto di una spessa patina di trivialità, è indubbio come la pratica in questione abbia saldissimi legami con le scienze comportamentali, con i meccanismi che determinano la nostra condotta. Prendiamo ad esempio una classica permutazione acchiappa-click: “Incredibile ma vero! Gioco X ha fatto qualcosa che nessuno si aspettava”. L’intenzionale vacuità del titolo genera un vuoto informativo che ci attira per diverse ragioni: i neuroni dopaminergici del “circuito” della ricompensa hanno un ruolo fondamentale nelle nostre dinamiche cognitive, e sono direttamente coinvolti nella manifestazione di impulsi naturali come la curiosità epistemica, che in questo caso ci spinge ad approfondire una nozione incompleta, pregustando (anche a livello neurochimico) il piacere derivante da una conoscenza inizialmente preclusa. L’esclamazione iniziale, scientemente fragorosa, alimenta il processo con una stimolazione emozionale, che accresce l’urgenza di accedere a un contenuto di presupposto valore.
A seconda della composizione “dell’esca”, l’assortimento delle leve psicologiche può crescere e variare, ad esempio rimarcando “il colore” di una notizia per approfittare di determinati bias. Sottolineare – anche inopportunamente - l’andamento fallimentare di un progetto può fare leva sul “negativity bias”, ovvero la nostra connaturata tendenza a dare maggior valore agli eventi negativi rispetto a quelli positivi. Un titolo come “Call of Duty in crisi? Gli analisti lasciano pochi dubbi” può fare filotto evocando non solo il bias succitato ma anche quello di conferma, andando a stuzzicare i numerosi detrattori del franchise di Activision. In virtù di fenomeni come “l’effetto bandwagon” e l’endemica FOMO, mettere in testa a un articolo diciture evocative come “Giocatori infuriati!” o “Caos fra i fan” può accrescerne artificialmente l’appetibilità: da una parte siamo propensi a manifestare interesse per attività o posizioni che coinvolgono ampi gruppi sociali, mentre dall’altra nutriamo il malriposto timore di mancare l’appuntamento con un “qualcosa” di particolare rilievo. Al di là delle connotazioni manipolatorie di questo modello di comunicazione, indubbiamente controverso, gli effetti della sua diffusione sono a dir poco pericolosi.
Oltre la macchina del click
Tanto per cominciare, il successo di queste strategie ne sospinge la propagazione e può ridurre la visibilità di contenuti prodotti con criteri più virtuosi. Così facendo, fra le altre cose, si contribuisce a erodere la fiducia nel giornalismo di settore, visto che rado si trova una valevole corrispondenza fra il taglio reboante dei titoli e la sostanza degli articoli. È facile sentirsi ingannati, insomma. Bisogna poi considerare come la natura sensazionalistica di certi contenuti concorra ad alimentare la tossicità e la polarizzazione del dibattito comunitario, a maggior ragione considerando i casi in cui la lettura si limita a titolo e catenaccio: una quota che, oggi come oggi, fatico a considerare esigua. Su queste note, credo sia legittimo preoccuparsi sull’impatto a lungo termine del “clickbaiting” non solo sulla cultura del videogioco, ma anche sui meccanismi che ne regolano la ricezione e l’assimilazione. Come detto, la scienza della “pasturazione digitale” sfrutta più o meno abilmente le euristiche cognitive dei fruitori, e può perfino influenzare i processi mentali del pubblico. Di base le euristiche sono “scorciatoie” che il cervello utilizza per snellire i procedimenti cognitivi necessari a eseguire un determinato compito, effettuare una scelta o esprimere un giudizio, sulla base di esperienze, conoscenze e idee già sedimentate. Quando il risultato di questa procedura è fallace emergono i bias, errori sistematici che producono distorsioni della realtà soggettiva. La moltiplicazione dei bias influisce sull’efficienza delle euristiche, e visto che il modello di comunicazione in questione fa leva su pattern erronei, si corre il rischio di promuovere la diffusione e la normalizzazione di svariati preconcetti, a detrimento del comune senso critico. Mi sento di aggiungere che una nutrita fetta di professionisti del settore ha un rapporto tutt’altro che idilliaco con la pratica del “clickbaiting”, e lo vede come una pratica dettata da una necessità “di sistema” che stride con gli intenti basali del giornalismo.
Passate in rassegna le meccaniche e le possibili conseguenze dei “titoli esca”, fin troppo rilevanti per essere ignorate, è opportuno chiedersi cosa ognuno di noi può fare per arginare questo trend. Banalmente, se la pratica in discussione vi ha da tempo scartavetrato le pudenda, basta mettere in atto una manciata di strategie di boicottaggio e selezione. Per quanto riguarda il primo passaggio, ogni volta che riconoscete in un titolo le caratteristiche delineate costringetevi a passare oltre. Se il nucleo informativo non è chiaro, se un testo si apre con una domanda sibillina o se include formule\termini atte a generare scalpore, evitate di cliccare e optate invece per una ricerca mirata che, con tutta probabilità, vi metterà di fronte alternative più puntuali ed equilibrate. Qui tocchiamo ovviamente il secondo punto, che coincide con la promozione di realtà con un approccio meno aggressivo e più spiccatamente divulgativo, in grado di fornire una base più solida al dibattito e ostacolare – si spera - l’insorgenza distorsioni cognitive.
Il resto è semplice “darwinismo editoriale”: meno successo ha una certa pratica, maggiori sono le possibilità che venga accantonata. Va da sé che, preso atto delle sterminate dimensioni della platea, è piuttosto improbabile assistere all’inversione di una tendenza che va avanti e cresce da oltre un ventennio, ma vale comunque la pena provarci.
Pubblicato il: 18/12/2025
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