IL DRAMMA DELLA "PASSION TAX"
O di come amare il proprio lavoro può diventare una trappola
Avete presente il vecchio adagio che recita “scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua”? Si tratta di uno degli infiniti aforismi attribuiti al filosofo Confucio e, come spesso accade, tale assegnazione è quantomeno dubbia. Anche volendo dare per buona la paternità del motto, viene da chiedersi che valore possa avere oggi una massima coniata nel quarto secolo a.C., specialmente considerando quanto retorica confuciana tendesse a imbellettare l’immobilismo sociale. Vabbè, il punto è che si tratta di una clamorosa fregnaccia, una di quelle frasi che hanno senso solo se si mantiene il cervello in modalità “mistero della fede”. Lo sa bene chiunque si muova in un contesto professionale che, per quanto stimolante e affine alle proprie aspirazioni, manifesta un plateale disequilibrio tra l’impegno richiesto e la remunerazione, esigendo enormi sacrifici che si in genere si pagano con la più preziosa fra le valute: il benessere personale. Nella cornice del mercato videoludico, questa dissonanza è nel tempo divenuta una piaga sistemica, la contropartita di quella passione che viene spesso celebrata come il vero motore dell’industria. Tutto molto bello, ma il reale motore dell’industria sono i soldi, e ci vuole un attimo a trasformare la passione in un indebito balzello.
Quando la passione è una tassa
Sebbene il concetto di “passion tax” sia associato alle industrie creative da almeno un ventennio, la specifica locuzione ha guadagnato popolarità in seguito alla pubblicazione di una ricerca promossa dalla Duke University nel 2019, nella quale si prendevano in esame le più recenti forme di sfruttamento in ambito professionale. Più nello specifico, il team guidato dal professor Aaron Kay ha riscontrato una diffusa tendenza a legittimare un ampio spettro di abusi sul posto di lavoro in contesti associati alla “passione”, trasformata in uno strumento sottilmente vessatorio. La casistica delineata dalla ricerca comprendeva l’imposizione di mansioni e orari non previsti dal contratto, di straordinari non pagati e di compensi spesso al di sotto della media: tutte violazioni con un’incidenza assai ridotta in settori in cui il coinvolgimento personale dei lavoratori risulta meno consistente. In buona sostanza, in ambienti come l’industria videoludica l’attività lavorativa viene spesso inquadrata come una sorta di “privilegio”, la fortuna di fare ciò che si ama, e pertanto la possibilità di mettere la propria passione al servizio di un progetto diventa – subdolamente – una giustificazione per pratiche manageriali altamente discutibili, che molto spesso finiscono per generare burnout e alienazione.
Il problema non è solo la spregiudicatezza - più o meno esplicita - dell’apparato dirigenziale, ma l’elevazione di queste prassi a consuetudine di sistema e standard culturale. Vi ricordate quanto, nel 2018, Dan Houser dichiarò che in alcune fasi dello sviluppo di Red Dead Redemption 2 i dipendenti erano arrivati a lavorare 100 ore alla settimana? L’intento era chiaramente quello di dipingere gli sviluppatori come degli instancabili “eroi”, di nobilitare il loro sacrificio, ma all’atto pratico si tratta di una narrazione tossica che sottintende una dedizione estrema e malsana, o peggio una vera e propria coartazione. In quel periodo alcuni ex dipendenti parlarono di esaurimenti, depressione, crisi familiari e ansia cronica, in parte dovuta al timore di essere licenziati qualora non raggiungessero determinati standard di superlavoro. Su queste note, merita certamente una menzione il report stilato nel 2020 da Jason Schreier a proposito di Cyberpunk 2077, nel quale vengono documentati gli intensi periodi di crunch sopportati dagli addetti ai lavori nelle fasi conclusive della produzione. Questo malgrado le promesse fatte a più riprese dal cofondatore di CD Projekt RED Marcin Iwiński, che solo un anno prima del report aveva confermato l’esclusione del crunch obbligatorio dalle proprie pratiche aziendali. Il problema è che, quando la “passion tax” fa parte di un sistema, i confini fra facoltativo e tassativo si fanno eccezionalmente labili, complice il consolidamento di precisi meccanismi psicologici. Alla base di tutto ci sono dinamiche di auto-sfruttamento ben radicate: visto che i lavoratori si sentono emotivamente coinvolti nei progetti in corso, tanto da renderli parte della propria identità, hanno la tendenza a giustificare a oltranza l’impegno profuso, pur in assenza di ricompense commisurate. La condivisione di tali bias cognitivi all’interno di un collettivo ne alimenta la normalizzazione, crea vincoli di responsabilità (e colpevolizzazione) reciproca fra i membri di un team e nutre la succitata “romanticizzazione” della sofferenza.
In Red Dead Redemption 2 sono comparsi dei sottili messaggi di accusa contro la cultura del crunch
Il caso di Cyberpunk 2077 ribadisce peraltro una verità piuttosto elementare: il crunch non è in alcun modo una panacea per i dissesti di una produzione, mentre è ben chiaro quanti danni possa fare alle maestranze. Sorvolando sul problema del turnover da burnout, alquanto endemico in ambienti tipicamente poveri di tutele per i professionisti, i sopracitati meccanismi possono anche falsare la percezione di abusi che esulano dalla sfera strettamente produttiva. In questo senso risultano emblematiche le cause avviate tra il 2020 e il 2021 contro colossi del calibro di Ubisoft e Activision Blizzard, accusati di essere incubatori di una cultura tossica e discriminatoria, fatta di molestie e abusi di potere elevati a norma di sistema. La diffusa tolleranza nei confronti di tali comportamenti (anche di carattere predatorio), che coinvolgevano direttamente membri di spicco della dirigenza, era strettamente legata alla distorsione delle dinamiche microsociali all’interno delle aziende, a quel reticolo di dissonanze cognitive che possono portare ad anteporre il bene della compagnia a quello del singolo, da una parte isolando la “voce fuori dal coro” - la vittima - e dall’altra sottostimando l’entità del sopruso. Capiamoci bene: la passione può rendere l’attività lavorativa infinitamente più appagante e produttiva, a patto però che i dipendenti possano contare su un solido sistema di tutele. Una rete di supporto che in questo momento è ancora piena di buchi.
Qualcosa si muove all’orizzonte
Nel 2018, complice l’intensificazione del dibattito sui mali della “crunch culture”, venne ufficialmente fondata la Game Workers Unite, un network internazionale con l’obiettivo di salvaguardare i diritti dei lavoratori dell’industria videoludica e promuovere la sindacalizzazione. Qualche anno più tardi, la GWU ebbe un ruolo di spicco nella costituzione di ben due unioni sindacali sotto il tetto di Microsoft, le prime nel loro genere.
In ambo i casi parliamo di coalizioni composte principalmente da QA specialist, più nello specifico quelli di Raven Software (Activision Blizzard) e di ZeniMax Online Studios (una delle consorelle di Bethesda Softworks), divenuti membri della Communications Workers of America. Ufficialmente Redmond porta avanti una politica di totale neutralità nei confronti di queste entità, ma all’atto pratico la diffusa precarietà del settore rende oltremodo difficile garantire ai dipendenti una struttura di supporto realmente efficace.
Non è certo un caso se, dopo l’ennesima tornata di licenziamenti avallata da Microsoft (questa estate si è parlato di circa 9000 dipendenti), lo scorso agosto sono esplosi focolai di protesta di fronte agli studi di Activision Blizzard, fomentati dalla notevole distanza tra la narrazione positiva portata avanti dall’alta dirigenza e il clima di profonda incertezza che opprime i lavoratori.
Da un parte abbiamo il CEO Satya Nadella che appende festoni per l’avvento dell’IA, minimizza l’impatto dei licenziamenti e dichiara che Microsoft sta avendo un successo senza precedenti, mentre dall’altra ci sono professionisti come Kelly Yeo, una dei producer di Diablo IV, che parlano di terrore diffuso fra gli sviluppatori, di un ambiente in cui “nessuno è al sicuro, a prescindere da quanto duramente si lavori”.
Per quanto l’orizzonte sia ancora tutt’altro che roseo, la moltiplicazione delle organizzazioni sindacali negli ultimi 7-8 anni (la più recente è la costituzione, lo scorso marzo, di Unite Videogame Workers) rappresenta senza alcun dubbio un incoraggiante passo in avanti per il settore, una falcata lungo un percorso indubbiamente accidentato. Basti pensare alle diverse iniziative messe in atto dal Governo Trump per ostacolare attivamente le iniziative sindacali anche nel settore privato, nella cornice del secondo più grande mercato dell’industria videoludica (gli Stati Uniti sono appena sotto la Cina). In Europa la situazione è tendenzialmente migliore, ma purtroppo non è raro che le sussidiarie di realtà internazionali mettano in atto strategie per eludere le tutele locali. In tal senso, proprio di recente, ha generato un certo scalpore il licenziamento in tronco di oltre 30 dipendenti britannici da parte di Rockstar Games, ufficialmente per gravi violazioni al codice di condotta aziendale. Da un lato Rockstar accusa gli ex impiegati di aver diffuso informazioni riservate su un “forum pubblico”, e dall’altra il collettivo in questione ribatte di aver semplicemente interagito su Discord con alcuni sindacalisti di IWBG (Independent Workers' of Great Britain). Il caso ha innescato una serie di manifestazioni di fronte agli uffici di Rockstar, nonché un’istanza di reintegrazione e compensazione per i professionisti colpiti, che restano fermi sulle loro posizioni dichiarando di aver agito per salvaguardare i propri diritti sul posto di lavoro.
Va da sé che la questione dovrà essere chiarita nelle opportune sedi giudiziali, e non è affatto detto che il procedimento favorisca i lavoratori, al di là del suo esito formale. A questo proposito torna alla mente il caso di SEGA of America, che nel 2023 avviò una “ristrutturazione” che portò al taglio di numerose posizioni nei settori di QA e localizzazione, colpendo una nutrita percentuale degli iscritti all’AEGIS (Allied Employees Guild Improving Sega), un sindacato formato solo qualche mese prima e nel pieno delle trattative per ottenere maggiori tutele professionali. Come detto, la strada verso il sovvertimento di questi paradigmi è ancora lunga e aspra, ed è chiaro che anche l’utenza videoludica ha un importante ruolo da giocare. Come spesso accade, il primo passo è la consapevolezza: fenomeni come la “passion tax” - al pari di altre brutture dell’industria - vanno conosciuti e riconosciuti, e sono più che certo che molti di voi avranno identificato pattern terribilmente familiari fra i vari passaggi di questo articolo. In secondo luogo, è il caso di cominciare a dedicare la giusta attenzione alla dimensione umana del videogioco, criticando apertamente alcune narrazioni come la “glorificazione del sacrificio” (ovvero il crunch), normalizzando i rinvii come parte di un processo creativo sano (le reazioni del pubblico possono acuire le pressioni sui team), e premiando quelle compagini che portano avanti pratiche di lavoro sostenibili. Un’altra buona pratica è quella di dare visibilità ad associazioni di settore (GWU, CWA, Ethical Games) o canali specializzati nel “lato umano” del gaming (People Make Games, ad esempio), per spostare il dibattito dal prodotto agli autori e intaccare il consenso culturale nei confronti dell’abuso. Se amiamo i videogiochi, dobbiamo anche fare il possibile per supportare chi li rende possibili, perché la passione non dovrebbe mai essere una tassa da pagare.
Un po’ troppo retorico? Sarà l’età.
Pubblicato il: 17/11/2025
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