Se Nintendo la fa fuori dal vaso
A proposito dei brevetti registrati dalla grande N e del loro impatto sull'industria
Verso la fine degli anni ‘80, in un periodo in cui una bella fetta dell’industria stava ancora tamponando le emorragie causate dal cosiddetto “Atari Shock”, esplose quella che oggi viene ricordata come la prima guerra dei brevetti nella storia dei videogiochi. L’anno è il 1988, e una Magnavox ormai quasi del tutto aliena al settore decide di citare in giudizio una giovane Activision, accusata di aver replicato in maniera illegittima la tecnologia di Odyssey. In realtà la questione riguardava più le logiche basali di Pong che l’hardware da gioco, cionondimeno la vittoria di Magnavox segnò una tappa seminale per il settore, sia per ciò che riguarda la regolamentazione dei conflitti legati alla qualifica e all’uso delle IP, sia per quel che concerne i margini di manovra sul versante creativo in materia di “deriva concettuale”. Di conseguenza, etichette e sviluppatori cominciarono a moltiplicare i loro contatti col le istituzioni schierate su questo specifico fronte, con richieste di registrazione più o meno articolate, discutibili e problematiche. Volendo citare qualche caso clamoroso, è impossibile non tirare in ballo Namco, che dal 1995 al 2015 (divenuta ormai Bandai Namco) impedì l’inserimento di minigiochi nelle schermate di caricamento, prerogativa esclusiva dei titoli del publisher giapponese fin dai tempi del primo Ridge Racer. Sì, uno potrebbe replicare che nel 1987 Commodore aveva già varato l’idea col suo Invade-a-Load (una sorta di Space Invaders che accompagnava il caricamento dei giochi su C64), ma in questo contesto la paternità del concept vale come un poker di assi davanti a una scacchiera.
Brevetto originale depositato da Namco per la riproduzione di mini giochi nelle schermate di caricamento
Chi prima registra meglio alloggia, insomma, e la cosa vale anche in un ambito spesso accostato a quelli brevetti tecnici, ovvero il vivace e colorito mondo dei marchi registrati. Su queste note, merita certamente una menzione il tentativo di Sony fare sua la formula “Let’s Play”, naufragato nel 2016 anche in virtù della reazione scomposta ma univoca di pubblico e addetti ai lavori. Giusto qualche anno prima, Bethesda citò in giudizio Mojang per l’uso del termine “Scrolls” (il nome originale del TCG Caller’s Bane), e in questa occasione lo scontro culminò in un accordo extragiudiziale che limitava l’uso commerciale del brand. Va da sé che cose sarebbero molto peggio se Notch, ancora in testa allo studio, non fosse stato seduto su una miniera d’oro voxelata. Tanto per buttare là una metafora da osteria, si potrebbe dire che il posteriore aureo di Markus Persson è un po’ l’emblema di quello che, al di là dei sensazionalismi passeggeri, è il vero grattacapo quando si parla di molti dei brevetti e dei marchi in mano alle major del gaming: non importa quanto siano inopportune e scorrette certe pratiche, il problema è avere i mezzi per far valere le proprie ragioni.
Il brevetto incriminato
Dopo il consueto preambolo da vecchi merletti, approdiamo quindi nell’attualità con l’ultima mossa di una Nintendo che, sin dagli albori, ha sempre portato avanti un approccio decisamente aggressivo nel proteggere le sue proprietà intellettuali. Capiamoci: non c’è niente di male nel difendere a spada tratta i frutti del proprio ingegno, ma è indubbio come talvolta il limite fra legittima salvaguardia e abuso di potere sia davvero sottilissimo. Per meglio snocciolare la questione, nata della cornice dello scontro fra il colosso di Kyoto e Pocketpair (lo sviluppatore di Palworld), è opportuno tracciare un percorso logico composto da tre tappe fondamentali. Tanto per cominciare, urge capire bene qual è nel concreto l’oggetto del brevetto depositato da Nintendo lo scorso marzo e convalidato all’inizio di settembre. Il documento delinea sei scenari che, se replicati in toto, permetterebbero alla compagnia di muovere causa a un’altra compagine commerciale.
I primi due sono i più generici: si parla di un gioco archiviato su un qualsiasi supporto di memoria e utilizzato su un generico dispositivo elettronico (PC, console, ecc.), che permetta a un utente di muovere un personaggio all’interno di uno spazio virtuale. Il terzo punto descrive la possibilità di evocare un personaggio secondario, fondamentalmente inquadrato come una qualsiasi entità diversa da quella principale e ad essa subordinata. I successivi passaggi tratteggiano a grandi linee le azioni contestuali che l’evocazione eseguirà una volta schierata in campo, sia in presenza di un avversario collocato nello spazio visibile (combattimento manuale o automatico), sia in assenza di altre entità.
Il brevetto depositato da Nintendo a Marzo 2025
Se i tratti fondamentali del brevetto, così snocciolati, vi appaiono sommamente generici e associabili a una gamma fin troppo vasta di istanze ludiche, non solo mi sento di darvi ragione ma vi comunico che avete già colto il problema sul quale è imperniato il secondo punto all’ordine del giorno. In soldoni, come sottolineato dall’esperto in regolamentazione dell’industria Florian Mueller e da diverse altre voci autorevoli, il linguaggio utilizzato da Nintendo nella documentazione garantisce alla compagnia margini di manovra fin troppo ampi, poiché la vaghezza del brevetto fa sì che gli scenari descritti possano essere considerati sovrapponibili a contesti ben diversi da quelli dei titoli “monster-taming”. Vi ricordate Lost Kingdoms, uno dei giochi dimenticati di From Software in cui si utilizzavano carte magiche per evocare mostri et similia? Ecco, oggi il gioco rientrerebbe nel novero delle produzioni potenzialmente imputabili, e lo stesso vale la saga di Shin Megami Tensei, malgrado il suo ruolo determinante nel creare l’alfabeto ludico utilizzato dalla serie Pokémon. Strano a dirsi, anche titoli strategici con il meccanismo delle unità eroe potrebbero in qualche forma “violare” il nuovo brevetto di Nintendo, che semplicemente – nella sua forma attuale - non avrebbe dovuto superare così agilmente il controllo delle autorità preposte. A tal proposito, sebbene sia sempre possibile contestare un brevetto dopo la sua registrazione ufficiale, si tratta di una procedura quantomeno accidentata, che alcune recenti modifiche al quadro normativo statunitense hanno reso ancor più ostica. Arriviamo quindi al terzo nodo di questo discorso, che riguarda le effettive conseguenze dell’iniziativa di Nintendo.
Allo stato dei fatti, è improbabile che la compagnia si lanci in una serie di azioni ostative ai danni di brand più o meno consolidati, così come non ci si aspetta che il brevetto comporti una crescita esponenziale delle missive “cease and desist” inviate dal suo quartier generale. Questo anche in virtù del fatto che, storicamente, procedimenti di questo genere richiedono una mole di tempo e risorse, e raramente culminano in un dibattimento giudiziale. Attenzione, però, perché il punto non è tanto ciò che Nintendo farà, ma quello che potrebbe eventualmente fare da qui in avanti. Sì, mi rendo conto che sembra una supercazzola, ma adesso arriva lo spiegone.
L'effetto spauracchio
Ritornando al caso di Mojang contro Bethesda, con qualcosa come 50 milioni di copie vendute, lo studio di Minecraft aveva le spalle sufficientemente larghe da affrontare la battaglia legale con Zenimax Media, ma alla fine ritenne comunque più conveniente stipulare un accordo. Quando il piccolo team di No Matter Studio si trovò ad affrontare una simile disputa con Prey for the Gods (Bethesda possedeva il marchio Prey per l’omonima serie), l’unica scelta fu quella di abbassare la testa e cambiare il titolo, creando l’ennesimo precedente di questo genere. Tornando al mondo dei brevetti, il più grande pericolo derivante dalla mossa di Nintendo è l’effetto “spauracchio”: viste e considerate le possibili conseguenze di una violazione, e preso atto sia delle risorse che del piglio alquanto bellicoso (legalmente parlando) della casa di Mario, è ragionevole pensare che in futuro saranno in molti a voler evitare a tutti i costi un contenzioso.
Questo vuol dire che potremmo assistere a una diminuzione consistente di produzioni in qualche modo riconducibili - come modello ludico - alla serie di Game Freak, come conseguenza di quello che è a tutti gli effetti un impedimento arbitrario alla libertà creativa degli sviluppatori, e all’evoluzione di un intero sottogenere. Soprattutto in relazione all’ultimo passaggio, la strategia di Nintendo le ha procurato de facto un vantaggio artificiale nella competizione sul mercato, peraltro a favore di un franchise che da tempo si muove col freno tirato. Nulla di cui la platea ludens possa rallegrarsi, insomma, specialmente alla luce del fatto che la più attiva fra le fucine d’innovazione dell’industria, il segmento a cavallo fra scena indipendente e doppia A, semplicemente non ha i mezzi per correre il rischio di indispettire la Grande N.
Ribadisco che, realisticamente, aziende del calibro di Atlus non subiranno significative battute d’arresto nella gestazione di titoli come Persona 6, ma il fatto stesso che il pericolo esista è un problema da non sottovalutare, che merita una presa di posizione netta da parte del pubblico. È giusto farsi girare vorticosamente i gingilli, quindi, pur consapevoli che un dietrofront è altamente improbabile. Vi siete mai chiesti perché nessuno ha mai più riproposto qualcosa come il Nemesis System de La Terra di Mezzo, pur in assenza di azioni legali da parte di Warner Bros? Facile, “perché al cavaliere nero nun je devi cacà er cazzo”.
Sipario. Maretta.
Pubblicato il: 01/10/2025
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