A proposito della sostenibilità del Game Pass
Una riflessione sullo stato dell'abbonamento di casa Microsoft
All’apice della settima generazione videoludica, la platea smanettona si ritrovò schierata in massa ai margini di una frontiera densa di fermento e straripante di possibilità. Nel giro di una manciata d’anni avevamo assistito al consolidamento di concetti prima astrusi come “multipiattaforma” e “digital delivery”, alla folle rimonta di Nintendo con Wii, e al quasi-pareggio fra Playstation e Xbox: un esito figlio dei malavveduti piani di Sony sul versante dell’hardware e delle tattiche aggressive messe in campo dalla controparte. Al netto di una brancata di passi verso il lato oscuro – tipo l’infame varo del concetto di microtransazione – la sezione gaming di Microsoft sembrava lanciatissima e pronta a seminare scoppole nel suo terzo round contro il maciste di Tokyo. Peccato solo che in quel periodo Xbox avesse il fisico di un campione ma la testa di un pugile suonato. Le priorità di Don Mattrick, allora alla guida della divisione, erano infatti platealmente in rotta con la buona riuscita della transizione verso la next gen, nonché ancorate a un pezzo d’hardware avveniristico ma infruttuoso (il Kinect), e a strategie di marketing a dir poco discutibili, che si muovevano fra un’apparente marginalizzazione del gaming e proclami al vetriolo in risposta ad alcune delle – legittime - perplessità espresse dall’utenza, ad esempio sulla questione “always online”.
Ancor prima dell’avvento del cosiddetto “resolutiongate”, insomma, Xbox One sembrò incespicare sui blocchi di partenza del tracciato generazionale, e così Microsoft optò per un cambio in corsa, con qualche intervento di “contenimento dei danni” e un volto nuovo da schierare di fronte al pubblico delle grandi occasioni. La discesa in campo di Phil Spencer segnò l’inizio di un lungo processo di trasformazione multifase per l’ecosistema ludico di Microsoft, non sempre lineare e perfettamente leggibile, ma generalmente percepito come migliorativo rispetto alla falsa partenza della settima generazione. A giro di boa del ciclo vitale di Xbox One, Spencer quindi presentò al mondo quello che in seguito sarebbe diventato il perno dell’ecosistema “verdecrociato”: un servizio in sottoscrizione modellato su quello dei principali erogatori di “content-on-demand”, nonché inquadrato nella cornice di una strategia aziendale sempre più orientata verso il cloud.
Sebbene sia arduo stabilire quali fossero in quel momento le prospettive a lungo termine di Game Pass, al di là della fitta bruma dei claim corporativi, è scontato che l’obiettivo numero uno fosse quello di accaparrarsi un attrattore capace di restituire a Xbox delle importanti quote di mercato, posto in cima ai tracimanti forzieri di Microsoft e fondamentalmente non replicabile. Su queste note, già in quel periodo era difficile non incappare in dibattiti sulla reale sostenibilità della proposta, ma tali discorsi finivano col perdersi nel fragore entusiastico di una platea che – ragionevolmente – vedeva in Game Pass un modo per giocare molto di più pagando molto di meno. D’altronde, ora come allora, è più che legittimo sbattersene allegramente del contributo del servizio alle casse di Microsoft, ma ci sono almeno due considerazioni su cui sarebbe stato opportuno indugiare sin dal primo istante.
Il primo punto è una questione banale ma di grande importanza: il Game Pass è sempre stata una strada a senso unico, piena di cantieri aperti e quasi impossibile da percorrere a ritroso. Il servizio si può acconciare, ampliare, riequilibrare in termini di costi\benefici, ma è chiaro che Microsoft non può fare dietrofront e chiudere i rubinetti. Nel bene o nel male, Game Pass è ora più che mai l’architrave dell’identità di Xbox. Arriviamo quindi alla domanda che, nell’ultimo decennio, ha dominato le attività del mio pensatoio sull’argomento: preso atto che Game Pass è qui per restare, in un modo o nell’altro, che impatto ha avuto, sta avendo e avrà sulla cultura del videogioco e sui meccanismi che muovono l’industria a partire dalla community?
Eh, bel casino.
Quanto costa un pic-nic?
Partiamo da un presupposto: tutte le notizie che passano tramite i canali ufficiali di una grande compagnia vanno interpretate, dissezionate alla ricerca degli spazi grigi in cui i confini fra informazione e marketing si fanno indistinti. Facciamo un esempio pratico. Quando Microsoft dice di aver tagliato di un decino il prezzo di The Outer Worlds, possiamo celebrare la scelta e lodare la volontà del colosso di assecondare gli umori del pubblico, oppure possiamo chiederci cosa bolle davvero in pentola. È una questione di matematica: se Game Pass può arrivare a cannibalizzare gran parte delle vendite retail su Xbox e dintorni, e perfino un titolo come Doom: The Dark Ages fatica a macinare numeri sulle altre piattaforme a prezzo pieno, ridurre la cifra non è un atto di buona volontà ma una revisione necessaria, un taglio che serve a preservare – nei limiti del possibile - la redditività. Non c’è nulla di male, sia chiaro, ma resta il fatto che le major videoludiche hanno l’abitudine di imbellettare quanto possibile la comunicazione.
Per questo è buona norma chiedersi quanto “non detto” c’è dietro l’annuncio di Satya Nadella sui risultati record di Game Pass, ad esempio in relazione alle già citate perdite sul fronte retail, o alle omissioni riguardanti i costi dello sviluppo, che in questi casi vengono esclusi dal conteggio delle spese operative. Allo stesso modo, quando Microsoft dice che gli abbonati a Game Pass giocano un maggior numero di titoli e spaziano di più per quel che riguarda generi e categorie ludiche, è giusto interrogarsi sugli effetti secondari del banchetto imbastito dalla piattaforma. Se da una parte è innegabile come la formula spinga l’utenza a muoversi fluidamente all’interno di un catalogo in continua espansione, dall’altra i dati rilevabili su portali come TrueAchievements suggeriscono come, in moltissimi casi, la dieta videludica degli iscritti sia composta da un’interminabile sequela di “spuntini”: i giochi vendono scaricati, avviati, provati per un tempo variabile ma tendenzialmente ridotto e poi abbandonati per passare ad altro. È la versione digitale di un meccanismo che in ambito alimentare chiamiamo “effetto buffet”, lo stesso che ci spinge a piroettare famelici da una parte all’altra di una tavolo imbandito, assaggiando un po’ di tutto senza assaporare davvero nulla.
La grande disponibilità, a braccetto col continuo avvicendamento di pietanze ludiche, nutre la FOMO in accordo con i meccanismi del neotribalismo social (guai a essere tagliati fuori dalla chiacchiera internettiana), e questo invito alla distrazione viene interiormente legittimato da un’alterata percezione di ogni singolo prodotto. In buona sostanza, se non paghiamo direttamente per un gioco, siamo naturalmente portati a sottostimarne il valore e ad approcciarlo con una certa superficialità, dedicandogli una minore attenzione. È chiaro che si tratta di una generalizzazione, ampiamente opinabile su base empirica ma, restando in tema di esperienza diretta, vi invitiamo a riflettere su quante volte vi è capitato più o meno inconsapevolmente di assecondare i meccanismi sopracitati. Quante volte avete detto, sentito o letto la frase “aspetto che arrivi su Game Pass”? È un mantra endemico, ed è un problema sempre più rilevante per diverse ragioni.
Selezione artificiale
Prima di parlarne, urge specificare l’ovvio: la configurazione in divenire dell’ecosistema di Microsoft, sempre più decentralizzato e con ambizioni tentacolari, è indubbiamente parte dell’avanguardia di una transizione sistemica verso un modello economico imperniato sui servizi, e sarebbe quantomeno incauto pensare che le strategie di Redmond non abbiano un impatto sull’intera industria. Partiamo dal basso. Fino a qualche anno fa il contenitore ID@Xbox veniva visto come un preziosissimo incubatore di esperienze ludiche che, fuori dalla vetrina del Game Pass, sarebbero rimaste celate allo sguardo del grande pubblico. Dai tempi d’oro dell’iniziativa, però, le cose sono notevolmente cambiate: gli accordi con gli studi sono diventati sempre meno solidi e generosi, e non è scontato che la visibilità concessa dal catalogo abbia effetti positivi sulle vendite complessive. Va poi detto che la “cultura del Game Pass” fa ora sì che un gioco indipendente sia fondamentalmente invisibile se non incluso nell’offerta, almeno su Xbox. In buona sostanza, se un piccolo team ambisce a raggiungere tutte le piattaforme di gioco, l’ingresso nel Game Pass diventa un passaggio quasi obbligato, e questo a fronte di una competizione sempre più accesa per accedere al catalogo, che si traduce in una “selezione artificiale” non necessariamente incentrata sulla qualità dei prodotti. Anche nel migliore degli scenari, i rischi a lungo termine restano gli stessi: svalutazione dei giochi, disequilibrio fra l’engagement iniziale e le vendite totali, dipendenza finanziaria dal servizio, pressioni per adattare il game design ai caratteri dell’ecosistema.
Passando al panorama “tripla A”, i problemi sono potenzialmente i medesimi, specie considerando come, nell’ultimo decennio, gli Xbox Game Studios siano diventati l’etichetta multipiattaforma più grande dell’industria. Al momento Xbox è il publisher di maggior successo anche sulle sponde di Sony, complice la profonda crisi d’identità del brand PlayStation, e la cosa sta certamente favorendo la macchina produttiva di Microsoft, sempre meno interessata all’attrattiva delle proprie ammiraglie. “Tutto è Xbox” significa che l’ambizione di Microsoft è quella di consolidare l’agnosticismo dei propri servizi, per colonizzare ogni spazio fino a diventare il modello dominante.
Capiamoci: non sto identificando il marchio Xbox come il male primigenio, una cornucopia di miseria e scelleratezza. Tutti i colossi corporativi puntano più o meno alle stesse cose, ovvero fare sempre più soldi ed emarginare la concorrenza. Resta il fatto che se Microsoft dovesse raggiungere il proprio obiettivo, quella Game Pass diventerebbe la cultura imperante del mondo videoludico, ed è difficile non riconoscere in questo orizzonte qualche spiraglio distopico. Al di là delle precedenti considerazioni sulla bulimia da “overchoise” e sull’impatto sul valore percepito dei videogiochi, c’è un altra questione da tenere in considerazione: chi domina un sistema è libero di alterarne gli standard. Chiediamoci quindi cosa impedirebbe a Microsoft di tagliare gli investimenti sul gaming e ritoccare i parametri qualitativi\quantitativi di Game Pass per massimizzare i ricavi, magari in combo con un progressivo aumento dei costi di sottoscrizione.
Sì, mi rendo conto che la cosa suona vuotamente allarmistica e pure un po’ prevenuta, ma le strategie di Redmond lanciano da tempo segnali preoccupanti, anche al di là dell’idiosincrasia fra presunti risultati da record e licenziamenti in massa. Mi rendo pure conto che, leggendo queste parole, a tanti verrà da dire “e allora PlayStation? Loro hanno dominato il mercato console per anni e nessuno si è mai lamentato di niente”. A parte che non è proprio vero, ma poi in questa generazione abbiamo ben visto cosa può succedere quando un’entità dominante non si preoccupa troppo di farla fuori dal vaso: millemila GaaS messi in cantiere senza criterio, comunicazione sclerotica, dispersione di risorse ai massimi livelli e una spremitura indiscriminata delle licenze più popolari. Ora come ora, in virtù degli attuali equilibri concorrenziali, è ancora possibile identificare con chiarezza le brutture di questa condotta, ma nell’era dei servizi non è detto che ci sia sempre una proposta alternativa utile a inquadrare correttamente lo stato delle cose. Tanto vale quindi farsi ora qualche domanda in più, andare oltre l’indubbia convenienza di una proposta come quella di Game Pass, e chiedersi quali potrebbero essere gli effetti a lungo termine delle nostre abbuffate.
Nel dubbio, meglio comprare qualche gioco in più e giocare qualche titolo in meno. La FOMO è una stronzata.
Pubblicato il: 06/09/2025
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