Quattro suggestioni dal The Mix 

A margine dell’evento di apertura della Summer Game Fest presentato da un Geoff Keighley in forma smagliante (che per la prima volta da quando ha usurpato il ruolo di volto pubblico del gaming nel mondo è riuscito a non farmi addormentare quindi kudos a lui) ho deciso di avventurarmi al The Mix, evento in presenza dedicato agli sviluppatori indipendenti che si tiene a Los Angeles in concomitanza con le celebrazioni di quello che ormai è per tutti il “non E3”. Nella splendida cornice della terrazza panoramica del Grammy Museum di LA, che si sporge sulla facciata del leggendario Figueroa Hotel (da sempre il simbolo dell’Electronic Entertainment Expo), mi sono ritrovato immerso in una vera e propria festa del videogioco indipendente in tutte le forme in cui ho avuto modo di provare alcuni titoli decisamente interessanti e di scambiare quattro chiacchiere con i rispettivi sviluppatori. Purtroppo i ritmi imposti dalle convention digitali mi hanno lasciato a disposizione molto meno tempo di quello che mi sarebbe servito per mettere mano anche solo a un quarto dei titoli in mostra all’evento, eppure ne sono uscito con in tasca quattro piccole esperienze a loro modo molto significative. 

Permettetemi, a margine, anche un commento spassionato: l’atmosfera che si respira all’interno di questo tipo di eventi è impareggiabile. Nonostante sia arrivato sullo showfloor nelle fasi finali di questa edizione di The Mix mi sono ritrovato circondato da sviluppatori sfiniti ma felicissimi di raccontare le proprie creazioni alla stampa, ai creator e ai colleghi. È rinvigorente percepire il clima di collaborazione genuina che aleggia in momenti come questi, che sono animati da uno spirito davvero tangibile di voglia di fare e, soprattutto, di condividere. Non c’è quasi mai spazio per acredini e competizione tossica, ed è una vera figata.  

Torniamo a noi però, e lasciate che vi racconti quattro dei (pochissimi) titoli su cui sono riuscito a mettere le mani prima di venire allontanato dalla terrazza per permettere a PR e Sviluppatori di godersi una meritatissima notte di sonno ristoratore.

AIRFRAME ULTRA

È il nuovo gioco del team che ha sviluppato Rain World, ad oggi assurto meritatamente allo status di indie di culto e che ha stretto a sé una community di appassionati devotissima. Il merito di Rain World, in questo senso, è stato quello di aver nutrito il suo pubblico di misteri profondi e complessissimi da decifrare che sono andati nel tempo a costituire l’ossatura di quello che si è trasformato nel tempo in un vero e proprio culto apocrifo dedicato alle avventure del lumagatto: Rain World è, dopotutto, un videogioco spietato e crudele dietro a cui si nasconde la storia eccezionale di un’umanità ormai crollata sotto il proprio stesso peso. Era quindi scontato aspettarsi che il nuovo gioco dei suoi sviluppatori fosse… un racing game low poly ispirato a Twisted Metal!! 

Airframe Ultra è un gioco assurdo, che mi è stato raccontato come un titolo nato dal bisogno di Videocult e Akupara di sganciarsi da Rain World e di sviluppare qualcosa che si posizionasse agli antipodi delle avventure di sopravvivenza del lumagatto. E sì, è un gioco di guida ultraviolento in cui ci si scorna a bordo di motociclette antigravitazionali futuristiche in quello che di fatto è una sorta di strambissimo deathmatch zero-G all’ interno di mondi open map in cui darsele di brutto per racimolare punti in una competizione all’ultimo sangue. Si tratta, di fatto, di un racing game estremamente atipico, in cui non esistono veri e propri circuiti ma in cui ad intervalli regolari si viene invitati a seguire degli indicatori che limitano brevemente la libertà di movimento e che portano ad un traguardo. Chi arriva per primo guadagna un punto, ma si viene ricompensati anche ogni volta che si riescono a uccidere gli avversari con le armi sparpagliate in giro per le arene: chi raggiunge per primo la quota di punti prefissata viene incoronato vincitore a discapito di tutti gli altri, costretti ad inchinarsi.

Quello che mi sono trovato di fronte è un titolo multiplayer fuori da ogni canone esistente, che da un lato mi ha ricordato ovviamente le suggestioni di Twisted Metal e di Carmageddon, ma che mi ha anche riportato alla mente le mattinate passate a giocare a Road Rash su PS1. È un titolo completamente fuori dal tempo (oltre che ogni tipo di logica), meravigliosamente evocativo nella sua estetica PlayStation ma anche complicatissimo da controllare a dovere, complice una telecamera fin troppo sensibile e un livello di abilità generale richiesto per tenere tutto sotto controllo -- tra gare e randellate sui denti -- che non fa di Airframe Ultra un titolo immediatamente accessibile. In un certo senso questo mi ha permesso di inquadrarlo con poca fatica come naturale proescuzione del discorso intavolato da Rain World tanti anni fa, nonostante si tratti di una produzione estremamente distante dal debutto di Videocult e Akupara Games. 

Di dettagli da limare ce ne sono una valanga, eppure non riesco a non guardare con una certa fascinzazione Airframe Ultra. È sicuramente un gioco coraggiosissimo – al punto di rischiare di passare per spaventosamente ingenuo – la cui direzione intrapresa è tanto chiara quanto pericolosamente complicata da garantirgli una risposta immediata da parte della platea adorante dei lumagattari. Ne vorrei di più, perché la demo presente al The Mix era asciuttissima e insufficiente per poter capire a fondo alcune delle sfaccettature più nebulose del gioco, eppure ne sono rimasto colpito.

PRISON OF HUSKS

Prison of Husks è comparso per la prima volta giusto un paio di settimane fa all’interno del mio feed di YouTube e mi ha conquistato istantaneamente. Il titolo d’esordio di Glass Head Dolls, sviluppato per qualche anno dalla solodev Tammy Morley prima di trovare i fondi per permettere al gioco di “diventare grande”, è una piccola gioia per gli occhi degli sciroccati nostalgici come me. Parliamo, infatti, di un soulslike low-poly che guarda con attenzione alle atmosfere poligonali della prima PlayStation per costruire quello che il team definisce come un punto d’incontro tra ICO e Dark Souls. E, devo essere onesto, per quanto si tratti di un claim ambiziosissimo, non posso che registrare che l’atmosfera evocata dalla demo è a tutti gli effetti quella di un gioco di Fumito Ueda che è stato corrotto dall’anima oscura di Hidetaka Miyazaki: quello di Prison of Husks è un mondo decadente e malinconico che sembra quasi sospeso nel tempo e nello spazio, ma che è anche permeato dalla dolcezza quasi fiabesca della storia di Ico e Yhorda. Curioso pensare come Miyazaki stesso negli anni abbia dichiarato a più riprese che il gioco che più di tutti lo ispirò a voler diventare uno sviluppatore fu proprio ICO; Prison of Husks celebra entrambi in maniera inaspettatamente efficace, ricongiungendo così maestro e allievo sotto lo stesso tetto digitale.

La breve demo che ho potuto provare si ambientava all’ interno di una prigione medievale, e mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con la visione di ciò che il soulslike deve essere secondo Glass Head Dolls. Il focus principale è posto sull’esplorazione degli ambienti, interrotta qua e là da degli scontri all’arma bianca contro altre bambole imprigionate nello stesso castello della protagonista. Ad avermi colpito positivamente sono stati sicuramente il level design, in cui trovano spazio numerosi percorsi segreti, scorciatoie e trappole infami, e le animazioni dei nemici. Nonostante una certa clunkyness fisiologica derivante dalla natura volutamente retrò del gioco, i nemici hanno set di animazioni molto diversificati e perfettamente adattati alla loro natura di “oggetti” animati, il che li rende contemporaneamente difficili da leggere e soddisfacenti da combattere. Parliamo, comunque, di un combat system che non si discosta mai dalle idee di FromSoftware, se non per l’introduzione di un indicatore dell’adrenalina, che cresce ad ogni schivata o parata eseguita col giusto tempismo permettendo di infliggere molti più danni al nemico esponendosi però alla possibilità di subire danni sempre più ingenti. A questo si lega anche la seconda grande novità del gioco, ovvero la possibilità di subire fino a tre attacchi senza che la propria barra degli HP venga ridotta quasi come se si fosse protetti da degli scudi. Una volta ridotta a zero la “carica” di questi scudi si rimane esposti agli attacchi nemici e si viene quasi costretti a cambiare approccio, prediligendo la distanza e il controllo dello spazio in attesa che si ricarichino. 

È un gioco particolarissimo e spigoloso, ma Prison of Husks mi è piaciuto tantissimo e sono contentissimo abbia trovato i fondi per arrivare fino a compimento. I membri del team, peraltro, mi hanno confermato di star puntando ad una release nel corso del prossimo anno, per un esperienza che in totale dovrebbe durare poco più di una decina d’ore. Io, fossi in voi, ci butterei un occhio, perché ha davvero fascino da vendere.

NEON INFERNO

Mentre curiosavo in giro tra le varie postazioni sono stato letteralmente rapito da uno schermo in particolare su cui faceva bella mostra di sé uno dei filtri CRT migliori che abbia mai visto. Sono una persona semplice: basta metterci delle scanlines per farmi interessare più o meno a qualsiasi cosa. Neon Inferno mi ha irretito così, e per fortuna quella che ha tentato di propormi non è stata una truffa o la più banale delle operazioni nostalgia, ma una demo costruita con una precisione e una pulizia davvero più che invidiabili. Quello sviluppato da Zenovia Interactive (quelli di Steel Assault) e pubblicato da Retroware (Iron Meat, Toxic Crusaders) è un run ‘n’ gun che qualcuno ha simpaticamente definito un AAA del 1992 strappandomi una risata ma andando estremamente vicino al cuore del gioco

Non siamo di fronte all’ennesimo clonazzo senz’anima di Contra, ma al contrario Neon Inferno adotta una serie di meccaniche che gli permettono di risultare freschissimo e molto moderno nel suo tentativo di portare avanti la dialettica dello sparatutto bidimensionale arcade. Faccio specificatamente riferimento alla presenza della possibilità di deflettere alcuni colpi nemici e di indirizzarli ovunque si voglia sulla schermata e al fatto che quello che inizialmente può sembrare solamente uno sparatutto in due dimensioni riesce a sfondare, con la sola pressione di un tasto, l’orizzonte della parallasse, incorporando delle dinamiche da gallery shooter che mi hanno ricordato da vicino Wild Guns e Cabal. Ad essere splendida è però la fluidità estrema del gioco, che scorre sullo schermo come se fosse burro e, soprattutto, è reattivissimo agli input dati dal controller. Peccato solo il rifiuto quasi categorico di appellarsi ad un immaginario che non sia già stato riproposto davvero in tutte le salse, ma ci si passa sopra molto facilmente. E occhio, perché è uno di quei titoli che danno il meglio se giocati in couch co-op.

CROWN GAMBIT

La coccarda per il miglior gioco messo alla prova durante il The Mix va, però, di diritto a Crown Gambit, secondo titolo sviluppato dai bretoni di Wild Wits Games che verrà pubblicato a strettissimo giro da Playdigious Originals. Crown Gambit si è mostrato in splendida forma, benedetto da una direzione artistica folgorante e da un’identità visiva semplicemente grandiosa. Il dramma è che si tratta forse di uno dei videogiochi più complessi da inserire all’interno di un contesto caotico e rumoroso come The Mix, dal momento che per sua natura è una produzione che ha bisogno di essere fruita con calma per immergersi nella sua scrittura e nelle sue atmosfere. Crown Gambit, infatti, è un deckbuilder dalle spiccate velleità narrative, che da un lato riprende la progressione tipica di titoli come Darkest Dungeon e Inscryption, mentre dall’altro tenta di costruire un sistema di combattimento in griglia molto originale grazie al fatto che ognuno dei tre personaggi che è possibile controllare possiede un mazzo di carte abilità personale da sviluppare indipendentemente dagli altri.

La componente narrativa vede il giocatore alla guida di un gruppo di tre paladini incaricati di scortare il principe in un viaggio nel cuore del regno per proteggerlo dai turbamenti politici della regione, e la progressione è legata a delle tappe in cui è possibile incappare in situazioni peculiari in cui l’alchimia del gruppo viene messa a dura prova dalla visione del mondo profondamente diversa che caratterizza ogni personaggio del party. Ci si ritrova quindi spesso di fronte a dei bivi morali in cui è possibile scegliere da che parte schierarsi, rischiando di volta in volta di scontentare i propri compagni di viaggio. È un tipo di narrativa che trovo spesso molto stimolante, ma i pochi minuti di demo su cui ho messo le mani mi hanno permesso solamente di sfiorarne le sfaccettature, quindi non vedo l’ora di potermi dedicare ad una sessione più approfondita per sperimentare un po’ con le scelte multiple. Il combat system, come già anticipato, è basato sul deckbuilding in una maniera che mi ha ricordato molto lontanamente alcune istanze di Inscryption, soprattutto nella gestione della griglia che fa da campo di battaglia.  

A rubarmi il cuore, in ogni caso, è stata la direzione artistica di un progetto che gli sviluppatori mi hanno detto essere profondamente ispirato a Game of Thrones e a Berserk (e che è anche orgogliosamente bretone vista l’ ambientazione che ricorda i panorami di Mont-Saint-Michel). Sono rimasto irretito di fronte ad ogni illustrazione, alle carte e a ogni piccolo dettaglio della sua componente estetica: Crown Gamibt è un piccolo gioiellino da scoprire. 

Date retta.

Pubblicato il: 08/06/2025

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