LOOK OUTSIDE

Lo sguardo come atto politico

Guardare fuori, quando tutto ti chiede di restare dentro.

C’è un orrore più subdolo in Look Outside: non sto riferendomi a quello delle creature, ma a quello di riconoscersi nei loro volti. Come ha scritto Andrea nella sua recensione, “Look Outside si apre accogliendo il giocatore con una truce schermata di game over che imbastisce con una certa schiettezza le regole del suo mondo. È un JRPG horror minuscolo che nasconde una varietà impressionante di idee, meccaniche e suggestioni, crudele sia nella sua narrazione che nella voglia di accanirsi sulla psiche del giocatore”. 

Partendo da qui vorrei sviluppare un ragionamento con voi che inizia da un assioma: il vero motore narrativo non è la minaccia, è la tentazione. Ogni giorno, il protagonista – Sam – si alza, lava i piatti, cerca da mangiare, sente bussare alla porta. Ogni “toc toc” può essere un vicino, un amico o una di quelle presenze mutate. Ogni finestra è un limite tra la pulsione all’autoconservazione e la tentazione umana di superare i propri limiti.

1. Il quotidiano come forma di sopravvivenza

Il gioco costruisce il suo ritmo sulla ripetizione della routine: cucinare, lavarsi, dormire, tenere pulito l’appartamento. Gestire la fame e l’igiene non è solamente un espediente di gameplay, ma una pratica di realtà: Look Outside ci obbliga a ritualizzare la paura, a trasformarla in un’abitudine, forse per debellarla, forse per ampliarne la forza. 

È un’esperienza di isolamento che ricorda la clausura pandemica, ma che diventa qui allegoria molto più ampia: il quotidiano diviene una fragile barriera contro la dissoluzione del sé. Nel loop dei gesti, Sam diventa il simulacro di una società che sopravvive ripetendo le proprie abitudini mentre tutto, fuori, cambia in modo irreversibile: il clima, la scena politica, le guerre che infiammano il mondo. La routine come anestesia, la manutenzione del proprio corpo come unico modo per non impazzire.

2. L’altro come orrore

Il “fuori” di Look Outside non è solo il mondo esterno: è l’altro. Ogni incontro è una possibile minaccia perché mette in crisi i confini dell’identità. Gli altri personaggi, come abbiamo detto, il più delle volte bussano alla porta, parlano con voci ambigue, portano notizie mai verificabili. Aiutarli o rifiutarli diventa una scelta che non riguarda la semplice morale, ma la paura del contagio — non tanto biologico, quanto percettivo. 

Guardare l’altro, in Look Outside, significa esporsi alla possibilità della trasformazione. È fare i conti con la realtà senza il diaframma di uno schermo.La creatura non è fuori, è in attesa, sulla soglia, nel punto in cui la nostra sicurezza interiore si incrina. E quando Sam, sospettoso, si rifiuta di aprire, il gioco non lo punisce in maniera volgare: lo costringe a convivere con il dubbio di aver smarrito la propria umanità nel gesto di difendersi.

3. Guardarsi allo specchio

Il momento più potente del gioco non è una battaglia né una rivelazione (non tanto, non solo), ma un gesto quotidiano: il guardarsi allo specchio. Sam può farlo per controllare chiaramente se mostra segni di mutazione. A volte il riflesso è normale. Altre volte, impercettibilmente, cambia: un occhio che si muove in ritardo, un’ombra dietro di lui, una grinza che non c’era. È lo sfarfallio del reale, quel “tic” che solo noi possiamo individuare. È il glitch della realtà. 

Guardarsi diventa così il gesto politico più profondo del gioco. In un mondo dove la minaccia arriva dal “guardare fuori”, lo specchio è il compromesso — un “guardare dentro” che rischia di rivelare l’estraneo in noi. È l’immagine dell’auto-sorveglianza, della società che si osserva per verificare la propria conformità. Ma, in fondo, è anche l’unico spazio in cui il soggetto può ancora domandarsi: chi sto diventando? Che cosa ne sarà di me? Chi sono, io?

4. La mutazione è il linguaggio

Le mutazioni in Look Outside non sono meri effetti orrorifici. O, meglio, lo sono anche e sono goduriose, ma qui vorrei analizzarle proprio dal punto di vista linguistico e filosofico. Sono, secondo me, l’esempio più evidente di un linguaggio della crisi. I corpi che si deformano, le voci che si allungano, le texture che collassano su se stesse, gli occhi che aumentano a dismisura, le bocche che diventano centinaia: queste distorsioni sono una forma di comunicazione, un modo in cui il gioco esprime la perdita di continuità tra individuo e collettivo. È la cesura tra noi e gli altri. 

L’orrore, qui, non è punizione ma messaggio. È la testimonianza di un mondo in cui la distinzione tra umano e mostruoso non regge più. 

In questo senso, l’opera dialoga con l’immaginario “aldrichiano” — quel mostro-astro che attraversa il cielo e muta chi lo guarda. Non è una metafora cosmica, ma una metafora mediale: la luce che corrompe, l’informazione che trasforma, la visione che contamina. L’aldilà del visibile come luogo politico dell’inconscio contemporaneo. Questo gioco è clamorosamente attuale, se non lo avete ancora capito.

5. Il vuoto come libertà — Byung-Chul Han e la stanchezza del visibile

In La società della stanchezza Byung-Chul Han scrive che “viviamo nell’epoca dell’eccesso di positività: tutto deve essere visibile, produttivo, trasparente”. L’invisibile non ha più diritto di cittadinanza. La mancanza è patologizzata, il silenzio è sospetto, l’ombra è da illuminare. Look Outside lavora esattamente su questa ferita. E ci cosparge anche il sale sopra. Il suo orrore non nasce dall’oscurità, ma dalla presenza assoluta della luce. Guardare fuori significa esporsi a un bagliore devastante, un’iper-luminosità che non rivela, ma cancella. È la tecnologia del “tutto e subito” che finisce per annichilire la nostra capacità di percepire il reale. Non è la cecità come privazione (giusto, Saramago?), ma la cecità per sovraesposizione. Han sostiene che la vera libertà oggi consista nel ritrovare il vuoto, nel “non fare”, nel “non guardare”. Nel gioco, questo pensiero si traduce in un’esperienza concreta: Sam che si ferma, che chiude le tende, che sceglie di non aprire la porta, che smette di reagire. La stasi, in questo contesto, diventa un gesto politico. Non nel senso della rinuncia, ma come rifiuto dell’iperproduttività del vedere. Il capitalismo non morirà per un gioco fatto di pixel, ma forse possiamo iniziare, in noi stessi, a dargli la prima picconata. Almeno nel videogioco.

Han parla di una “società della prestazione” in cui ogni sguardo è un atto economico che si può monetizzare — insomma, una forma di consumo. Look Outside ribalta questo paradigma: guardare diventa un rischio, un costo, un atto di vulnerabilità. Il gioco ci restituisce il diritto al vuoto, alla cecità, al silenzio. 

Laddove la cultura digitale ci impone di “guardare tutto”, “sapere tutto”, “dire la nostra su tutto”, Look Outside suggerisce che “la libertà comincia quando scegliamo di non”. E questo “non” non è negazione, ma forma di cura. Il vuoto diventa una sorta di pausa etica: la possibilità stessa di disattivare il rumore del mondo.

6. Politica dello sguardo

Guardare è sempre un atto di potere, ma Look Outside ne mostra anche la fragilità. E i profondi rischi. Il gioco ci insegna che la vista non è garanzia di conoscenza: è esposizione, vulnerabilità.

Nel momento in cui Sam alza lo sguardo verso la finestra, il giocatore percepisce l’impossibilità di mantenere una distanza etica dal mondo. Guardare significa rischiare di cambiare. In un contesto dove la visione è mediata – dallo schermo, dall’interfaccia, dal filtro – il gioco ci restituisce l’angoscia del vedere “troppo bene”. È una riflessione radicale sulla condizione digitale: più conosciamo, più ci deformiamo

Han direbbe che Look Outside è un laboratorio per la “trasparenza assoluta” – un mondo in cui tutto può essere osservato, ma niente più può essere compreso. Il gioco, però, offre una via d’uscita: accettare la cecità come forma di conoscenza. Capite perché è tanto importante questo gioco “piccino”?

6.1. La sorveglianza come condizione esistenziale

Se per Foucault il Panopticon rappresentava la forma perfetta del potere moderno – uno spazio in cui il prigioniero interiorizza lo sguardo del sorvegliante – allora Look Outside ne è la versione in pixel. Cercate di seguirmi. Sam infatti vive in un appartamento che è al tempo stesso rifugio e prigione: controlla le sue azioni, misura i suoi gesti, si osserva per assicurarsi di restare più o meno “umano”. Il potere, qui, non è una forza esterna ma uno sguardo interiorizzato: la paura di diventare ciò che si guarda

In questo senso, Look Outside aggiorna il panopticon alla nostra epoca di finestre digitali, di geolocalizzazioni, di condivisione sempre e comunque di ciò che si sta facendo in quel momento. Non c’è più una torre al centro della prigione, ma miliardi di schermi, ciascuno dei quali riflette e registra i nostri movimenti. Un occhio che non dorme, proprio come in quella stanza del gioco.Il giocatore, come Sam, non è più osservato: si osserva da solo. E quando, alla fine, lo sguardo cede e la trasformazione comincia, il gioco mostra l’essenza del potere contemporaneo: non la coercizione, ma la seduzione della visibilità.

7. Il gesto della disobbedienza

Alla fine, Look Outside non offre redenzione né catarsi. Non esiste di per sé la vittoria, ma solo la sopravvivenza per un determinato lasso di tempo. Eppure, dentro questa claustrofobia anche temporale, il gesto del “guardare fuori” diventa un atto politico. Non è curiosità, ma coraggio: la scelta di esporsi o di non esporsi all’alterità, di accettare che l’altro – umano o mostro che sia – faccia, in fondo, parte di noi. 

Come in una riscrittura di Foucault e Han, il gioco ci mostra che la libertà non nasce dall’isolamento, ma dalla consapevolezza del proprio limite. Guardare fuori è ricordarsi che esiste ancora un mondo, anche se distorto, anche se ci muta. Intessere relazioni con gli altri non significa mostrarsi deboli perché si ha bisogno di qualcuno, ma diventare – nel gioco letteralmente – “più forti” perché si sta assieme.

Conclusione: ballà l’oeucc

In Look Outside, la politica dello sguardo si risolve in una tensione impossibile: il bisogno di sapere e la paura di scoprire di essere cambiati. L’orrore non è nel mostro, ma nello schermo – ops, volevo dire nello specchio.

E forse è questo che rende il gioco tanto importante oggi: la capacità di trasformare la paranoia visiva contemporanea – la sorveglianza, l’auto-osservazione, la saturazione delle immagini – in un racconto morale sul guardare, anche e soprattutto (in) noi stessi. 

Guardare fuori, oggi, non è fuga. È una forma di cura, un modo di essere responsabili. È la consapevolezza che ogni visione lascia un segno, che ogni luce può mutarci, che l’unico modo per restare umani è continuare, ostinatamente, a guardare. 

Così, la prossima volta che, a lavoro, davanti all’ennesima tab di Excel, sentirete – per un attimo – ballare l’occhio, penserete a Look Outside. E tranquilli: quei quattro occhi che vi sono spuntati dietro al collo, forse, li avete sempre avuti.

A cura di
Mattia Nesto

Pubblicato il: 10/11/2025

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