THE SILVER CASE

UCCIDERE IL PASSATO PER SALVARE SÉ STESSI

Cosa succederebbe se, di punto in bianco, il crimine venisse trattato come un virus capace di infettare la psiche umana? Cosa diventerebbe la nostra società se gli atti sconsiderati di un serial killer potessero essere in qualche modo contagiosi, portandoci quindi a replicare le sue azioni venendo come posseduti dal suo spirito antisociale?

Quando Suda51, al secolo Goichi Suda, decise di abbandonare Human Entertainment per mettersi in proprio e fondare Grasshopper Manufacture sapeva di aver bisogno di un’idea forte per il suo primo videogioco da indipendente. Intendiamoci, Suda è sempre stato un autore ribelle, convintamente orientato in direzione ostinata e contraria rispetto a quella di moltissimi suoi colleghi: il suo esordio alla scrittura, dopotutto, fu Super Fire Prowrestling Special, un gioco il cui l’avatar del giocatore decide di togliersi la vita appena dopo aver raggiunto la vetta del mondo del wrestling. Una robetta da niente per il 1994.

Ma torniamo a noi. L’anno è il 1999, e Goichi Suda si affaccia al terzo millennio con la sua creazione più ambiziosa fino a quel momento: una visual novel che da un lato rifiuta la staticità tipica del genere e che dall’altro si impegna nel creare un’esperienza visiva unica nel suo genere.

I (purtroppo) pochi che parlano di The Silver Case, spesso e volentieri, lo fanno a partire dalle sue vibes. Non sbagliano. L’esordio di Grasshopper Manufacture è infatti uno dei videogiochi esteticamente più riconoscibili dell’intera epoca PlayStation, una vera e propria masterclass di UI design declinata appositamente per accogliere ed enfatizzare la sua assurda e aggrovigliata struttura narrativa. Un vero e proprio manifesto dell’estetica internettiana di fine millennio, che recupera riferimenti visivi dall’internet di quel periodo storico, dal cinema, dall’animazione degli anni ‘90 per infilarli in un frullatore e servirli on the rocks, dando così vita a una delle opere più impattanti della sua epoca. Non faccio una colpa a chi Suda51 l’ha conosciuto con quella meravigliosa follia che risponde al nome di Killer7, dopotutto The Silver Case è arrivato da questa parte dell’oceano solo nel 2016 grazie a un insperato remake, ma è davvero assurdo che ad oggi non venga quasi mai citato quando si parla di estetica del videogioco

Questa, però, è Criptidi, l’antro di FinalRound dedicato a tutti quei videogiochi oscuri e dimenticati che meritano una seconda opportunità, quindi facciamo che ci provo io a riscattare il suo nome.

Torniamo alle domande dell’inizio: può un crimine essere considerato “contagioso”? The Silver Case parte proprio da questo quesito per lanciarsi in quella che è una delle detective story più deliranti e convolute che abbiano mai graziato l’intera storia della narrativa moderna. Il gioco è ambientato in un Giappone distopico, nato dalle ceneri di una guerra tra organizzazioni no-profit diventate partiti politici che hanno dato vita a un governo ossessionato dal controllo delle informazioni e della cittadinanza.

Al termine degli scontri, Tokyo è stata riorganizzata, e ai 23 distretti da cui è composta ne è stato aggiunto un ventiquattresimo che viene trattato quasi come se fosse una sorta di città stato a statuto speciale. È proprio all’interno del ventiquattresimo distretto che, nei tumultuosi anni del dopoguerra, emerge per la prima volta il nome di Kamui Uehara, un serial killer colpevole di aver ucciso gran parte dei politici del ventiquattresimo distretto per poi diventare una vera e propria icona del popolo dopo essere stato arrestato. Akira, il protagonista di una delle due porzioni in cui è diviso il gioco, è un agente che entra a far parte della Heinous Crimes Unit della polizia del Distretto 24, un’unità costituita con l’esplicito compito di occuparsi dei crimini “trasmissibili”, ovvero tutti quei reati che possano in qualche modo ispirare potenziali emulatori e destabilizzare il precario ordine della società.

"Apart from The Silver Case, 'logic' is a mere element to construct a story. It is the same even for mystery which has a strong weight upon logic. It is true that if the story has any inconsistency, that might make the user stop following it, but if the work has something more important than keeping the consistency, it is author's choice to prioritize the inconsistency, this is what I think."

- Masashi Ooka

Quello di The Silver Case è un mondo in bilico, dilaniato dalle differenze di classe che hanno spaccato in due la popolazione di quello che doveva essere uno dei più incredibili paradisi abitativi del mondo. I ricchi, infatti, non sono odiati in quanto tali, ma osteggiati dalla popolazione più povera a causa del fatto che, visto il peculiare assetto sociale del Ward 24, hanno libero accesso alle informazioni a cui il popolo non può accedere per limiti economici e tecnologici. Nel 1999, in mezzo al delirio della storia raccontata in questo assurdo ibrido tra visual novel e dungeon crawler in prima persona, Suda51 è riuscito ad anticipare un problema spaventosamente attuale.

Così come Katsuhiro Otomo prima di lui era riuscito, con Akira, a prevedere l’ibridazione uomo/macchina attuale (quando ci fondiamo al nostro smartphone e ci demoliamo la soglia dell’attenzione con i reel di Instagram, dopotutto, assomigliamo tutti in maniera inquietante a Tetsuo Shima), Goichi Suda ha osservato l’internet dei primordi e ne ha previsto la parabola che lo ha trasformato, oggi, in uno strumento fondamentale per l’accesso alle informazioni. Chi è sprovvisto di un accesso alla rete è come se vivesse a una velocità differente, venendo tagliato fuori dalla vita del mondo. Il primo grande colpo di genio è proprio questo: The Silver Case è, nella sua folle confusione narrativa, un’opera che è stata capace di interpretare la sua contemporaneità con una lucidità pazzesca, tale da riuscire a interpretare con una certa esattezza il futuro. Ma non finisce qui.

Sì, perché al di là del suo stile meraviglioso (sul serio, guardatelo in movimento e ditemi che siete davvero immuni al fascino delle sue gloriose schermate minimali e dei suoi inquietanti spazi 3D) e delle sue intuizioni geniali, The Silver Case va vissuto soprattutto per la sincerità estrema con cui tratta i suoi personaggi. Come già brevemente accennato poco fa, il gioco è diviso in due sezioni ben distinte, “Transmitter” e “Placebo”, scritte da autori differenti ma splendidamente coerenti tra loro. “Transmitter” (scritto da Suda) ha come protagonista Akira e immerge il giocatore nella quotidianità della Heinous Crimes Unit della polizia, mentre “Placebo” (scritto da Masahi Ooka e Sako Kato) vede il giornalista Tokio Morishima indagare sul passato di Kamui e sui legami che il misterioso killer sembra avere con i casi affrontati da Akira e colleghi. Ne emerge un humus umano stratificato e complesso, in cui poliziotti ombrosi e incattiviti dalla vita si trovano a convivere tra di loro in un ambiente incapace di conciliare davvero le loro personalità spigolose.

La scrittura di Suda si concede il lusso di lasciare spazio ai suoi protagonisti senza mai ometterne difetti o asperità, spingendosi fino a presentare al giocatore anche i momenti più tediosi della vita da detective senza filtrarli in nessun modo: è proprio dai discorsi affrontati per combattere la noia degli appostamenti o dai litigi scoppiati al quartier generale che emergono i tratti più distintivi dei membri della HCU, a cui viene lasciata la libertà di emergere in maniera splendidamente naturale e, quindi, di mostrarsi senza alterazioni posticce.

Basta qualche ora in loro compagnia per affezionarsi alle loro vite disastrate, al loro passato torbido e alle difficoltà a cui il lavoro li espone quotidianamente. Lo stesso vale per Tokio Morishima, che durante le sue inchieste giornalistiche si ritrova a indagare più su sé stesso che su Kamui, facendo emergere gradualmente la personalità a tratti sgradevole di un protagonista che altri avrebbero probabilmente raccontato in maniera completamente differente. I difetti dei personaggi sono trattati come pietre angolari su cui costruire le loro personalità, e forse è proprio questo a renderli così memorabili e perfettamente distinguibili anche all’interno del caos organizzato di The Silver Case.

"the process of those character designs were something like; Suda shows me a fashion magazine for the costumes, and explains to me each one’s personalities, then I’d imagine the background (it's not told in the game)"

- Takashi Miyamoto

Il risultato finale è che questo pastiche umano finisce per emergere con una forza tale che finisce per inghiottire la narrazione “orizzontale” di The Silver Case. Suda si limita ad appoggiare in giro per la trama riflessioni e intuizioni pazzesche sul ruolo che abbiamo nella società, sulla corruzione dei governi e sulle disparità umane che ci dividono quotidianamente, ma sembra divertirsi moltissimo a non approfondirle mai fino in fondo. Non è un difetto, almeno non per me, perché la giostra impazzita della narrativa del gioco obbliga il giocatore a scavare autonomamente dentro sé stesso per trovare le risposte che cerca; The Silver Case si limita a indicare la strada, ma non si preoccupa mai di prenderti per mano e accompagnarti nella passeggiata. Mi è successo quindi di sentirmi, esattamente come i membri della HCU, imprigionato in una situazione infinitamente più grande di me: io e i miei problemi abbiamo compartecipato alle indagini su Kamui Uehara potendo apportare solo un piccolissimo contributo, proprio come succede a Tokio Morishima, a Kusabi o a Chizuru; è come se quegli eventi li avessimo subiti più che messi in moto o sbrogliati.

Tutto questo si traduce, me ne rendo conto, in un’esperienza complicata, a tratti quasi respingente (soprattutto se si è abituati a scritture decisamente meno spigolose e più pop). Questo, però, non fa che renderla assolutamente irrinunciabile per chiunque abbia voglia di lasciarsi inghiottire dal caos ordinato di Grasshopper Manufacture.

Parlare di The Silver Case mi fornisce un assist fenomenale per parlare di un altro argomento che mi sta particolarmente a cuore. L’estetica del gioco, le splendide illustrazioni “analogiche” dei personaggi e le intromissioni animate che si alternano nelle cornici del Film Window Engine sono forse la quintessenza del look Y2K che sta poderosamente tornando a colonizzare il nostro orizzonte visivo. È inutile che provi a negare quanto fascino eserciti su di me questo tipo di estetica low poly, anche perché è la prima volta della mia vita in cui mi ritrovo a partecipare al revival di un’epoca che ho vissuto personalmente, però di fronte a The Silver Case non ho potuto che fare un’amara riflessione sul senso profondo di questa e altre opere di Suda51.

In “Kamuidrome”, il quarto caso di “Transmitter”, ho rivisto uno spiraglio dell’internet in cui sono cresciuto: quello fatto dagli utenti e non dalle aziende multimiliardarie a caccia di dati sensibili per vendere pubblicità, quello dei forum e delle chat ancora non piegati alle viscide logiche del mercato capitalista. Ho provato una nostalgia pazzesca, un senso di mancanza potentissimo, e per qualche istante ho desiderato di poter tornare indietro a quel momento della mia vita, poi però ho capito.

Sì perché vivo in un mondo che, divorato dal bisogno costante di ingurgitare denaro a più non posso, da anni non fa che riproporre ciclicamente mode ed estetiche del passato per confezionarle ad arte e rivenderle al pubblico pagante. È successo con gli anni ‘80, poi coi ‘90 per poi arrivare agli Y2K. Da tramandare ai posteri del presente non c’è davvero quasi nulla: il mondo è composto quasi interamente da sequel di serie di successo di trent’anni fa, frutiger aero spammato ovunque e appiccicato sulle grafichette instagram, musica pop costruita ad arte sulle pietre miliari della dance dei ‘90 e poco altro. È proprio per questo che il senso profondo di The Silver Case mi ha colpito con così tanta forza: Suda51, nel 1999 stava già riflettendo su tutto questo con trent’anni di anticipo.

Non è un caso quindi che questo sia il primo capitolo della serie tematica di “Kill the Past”, in cui sono confluiti anche Killer7, Flower, Sun and Rain e No More Heroes. I drammi umani dei piedipiatti della Heinous Crimes Unit, il passato torbido di Tokio Morishima e i crimini “trasmissibili” di Kamui Uehara rappresentano un ostacolo che pesa come un macigno sul presente dei personaggi, un passato da uccidere per poter finalmente essere liberi di vivere senza zavorre; l’antinostalgia fatta carne e pixel che dichiara guerra ai passatismi vuoti e inutili.

Ecco, se The Silver Case mi ha toccato così nel profondo è soprattutto perché mi ha mostrato sullo schermo gli effetti di quella ricerca ossessiva per la nostalgia a tutti i costi che il più delle volte si rivela una gabbia dorata.

Sono passati ventisei anni, eppure penso sia in assoluto (assieme a Killer7) il videogioco più riuscito di Grasshopper Manufacture. Una masterclass sul caos e l’illogicità della vita, sul peso delle disuguaglianze imposte dall’alto e sui limiti che ci poniamo quotidianamente pur di non fare i conti con noi stessi e con ciò che ci circonda. È per questo che sento il bisogno di consigliare The Silver Case a chiunque senta il bisogno di andare oltre al semplice divertimento quando avvia un videogioco: nel delirante groviglio narrativo dei suoi umani alla deriva e dietro alla cospirazione dei distopici distretti tokiensi si nasconde una delle morali più potenti e destabilizzanti con cui mi sono confrontato in tutta la mia vita di videogiocatore. Nel caso in cui decidiate di dargli un’opportunità mettete in conto che sulle prime non ci capirete mediamente un cazzo, ma vi chiedo di concentrarvi sul viaggio e non sulla destinazione, perché è nell’ordinarietà delle vite alla deriva raccontate da The Silver Case che emerge la sua reale forza narrativa. 

Permettetemi di aggiungere anche un piccolo dietro le quinte: se Criptidi si presenta in questo modo volutamente disordinato e caotico è perché quando ho cominciato a lavorare a questa rubrica l’ho fatto ispirandomi proprio allo stile di The Silver Case.

Pubblicato il: 13/10/2025

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2 commenti

"Nel delirante groviglio narrativo" bon, mi hai convinto

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