Accessibilità e difficoltà: uno sguardo a Prince of Persia: The Lost Crown
Uno fra gli aspetti per i quali Prince of Persia: The Lost Crown è stato maggiormente lodato è l’incredibile profondità delle opzioni che offre, in grado di aumentarne la leggibilità, l’accessibilità e l’adattabilità a giocatori d’ogni tipo. Tra i principali fautori di questo sforzo c’è il level designer Remi Boutin, che alla Game Developers Conference 2025 è salito sul palco proprio per parlare di questo aspetto della lavorazione e subito dopo mi ha concesso il suo tempo per un’intervista, nella quale abbiamo approfondito il tema ma abbiamo anche parlato del gioco a tutto tondo e della sua carriera da sviluppatore.
Remi ha iniziato ad amare i videogiochi nei primi anni Novanta. Non sa di preciso quale sia stato il primo titolo su cui ha messo le mani ma ricorda di aver giocato tantissimo su Mega Drive a Sonic the Hedgehog e su PC a Return to Castle Wolfenstein, “anche se non avrei dovuto. Ero a casa di un amico, avevo sei anni, e mi innamorai immediatamente dei videogiochi. Da piccolo adoravo i fumetti, passavo tutto il tempo a disegnare, e i videogiochi mi sembravano come dei fumetti interattivi. Ci passavo sopra più tempo possibile.” Boutin si appassionò molto ai videogiochi giapponesi, anche se all’epoca non era consapevole della loro provenienza, e si dice “molto felice di essere cresciuto nel periodo di transizione fra 2D e 3D, e poi l’HD, poter essere stato testimone di quel cambiamento.” Inevitabile chiedergli se all’epoca abbia giocato al Prince of Persia originale: “Assolutamente! Ci giocavo su PC e per me era un gioco misterioso, avrò avuto nove o dieci anni. Tieni conto che è uscito nel mio anno di nascita, quindi ci ho giocato qualche anno dopo.”
Boutin ricorda quanto fosse affascinante chiacchierarne a scuola con i suoi compagni: “Un mio amico mi aveva detto di aver trovato una pozione che faceva cambiare lo schermo! E poi c’era quel momento in cui dovevi saltare nello specchio per uscire fuori dall’altra parte… Ed era difficilissimo, non credo di essere mai riuscito a finirlo giocandoci davvero entro i 60 minuti previsti… A proposito di difficoltà adattabile!” Questo modo di godersi i videogiochi lasciandosi affascinare dai suoi misteri e discutendone con gli amici è stato un punto fermo anche della mia gioventù ma oggi, forse, si è un po’ perso, col fatto che, quando esce un gioco, nel giro di due o tre giorni Reddit l’ha già interamente risolto. Ho chiesto a Boutin cosa ne pensi: “Non hai torto. Ai tempi di Demon’s Souls e del primo Dark Souls c’era ancora quella sensazione, attraverso i forum e le wiki, senza contare che già lavoravo nel settore e alla macchinetta del caffè si chiacchierava un sacco del gioco e dei suoi misteri. Oggi, in effetti, appena un gioco esce c’è tutto su internet.” Boutin mi fa l’esempio di Animal Well, che Billy Basso ha riempito il più possibile di segreti per poi osservare allibito mentre l’hive mind su Discord completava nel giro di un giorno enigmi che pensava avrebbero richiesto mesi. Assieme giungiamo però alla conclusione che sia ancora possibile divertirsi con questa cosa, per esempio proprio come ha fatto Basso, che ha ideato un puzzle in cui ogni giocatore vede solo una parte della soluzione: “Quello è un modo per cavalcare il lato positivo della questione e spingere comunque la gente a giocare assieme e discutere. Però sì, oggi è difficilissimo creare un gioco in cui vuoi avere un senso di mistero.”
Ma come detto, Boutin era alla GDC per parlare di accessibilità e del lavoro svolto in quel senso sul suo gioco più recente. La cosa buffa è che lui non si considera assolutamente un esperto del tema e in effetti The Lost Crown è il primo gioco per il quale se ne è occupato. Inoltre, non era il suo compito principale, ma solo una parte del suo lavoro. Eppure se ne è innamorato ed era a San Francisco proprio per “evangelizzare” il pubblico e spiegare quanto l’accessibilità possa essere importante: “L’accessibilità" ha detto dal palco "non snatura il gioco e non riduce la sfida. Lo rende solo accessibile a chi non ha le risorse, il tempo o l’esperienza necessaria per fare altrimenti.” Ma, appunto, l’accessibilità è solo parte del lavoro fatto su Prince of Persia: The Lost Crown. In realtà Boutin si è occupato principalmente del combattimento, quindi del design e dell’implementazione dei nemici. Ma ha lavorato anche sui sistemi, per esempio quello degli amuleti, sulla mappa e sui menu legati a quel sistema. E sull’accessibilità, come detto. Ma come ha fatto quel ragazzino che a malapena arrivava in fondo al Prince of Persia originale a diventare un membro importante del team che ha sviluppato una fra le sue incarnazioni più recenti?
“Ti do una risposta in due parti,” mi ha detto durante la nostra chiacchierata. “Innanzitutto devo dire che i miei genitori erano molto attenti al tempo che passavo davanti ai videogiochi… Erano dei precursori dell’attenzione allo screen time. Avevo il permesso di completare un’area di un gioco per volta e basta.” Boutin, però, era ossessionato dai videogiochi, comprava tutte le riviste, leggeva, fantasticava, e forse quello è stato l’inizio della sua carriera da game designer: “Per esempio, quando giocavo a Half-Life, prendevo carta e penna e passavo ore a disegnare livelli del gioco. Quindi, insomma, sono sempre stato interessato alla cosa in maniera spontanea e avevo una passione per il disegno e la tecnologia.” Spinto da questi interessi, Boutin aveva deciso di studiare architettura e ingegneria civile, ma questo gli ha fatto incontrare un insegnante appassionato di programmazione e scoprire di amare anche lui quell’ambito. “E ho subito iniziato a sviluppare piccoli giochi, se non sbaglio la mia prima creazione fu un piccolo gioco testuale. Quindi ho studiato programmazione, ma senza realmente mai pensare che sarei stato in grado di programmare videogiochi ad alto livello.”
Durante uno stage in un piccolo studio britannico, Boutin si è reso definitivamente conto di non essere troppo interessato al lato più tecnico dello sviluppo, all’ottimizzazione, alla programmazione, e che quel che desiderava davvero era fare il game designer. E qui entra in gioco l’essere nato nel posto giusto: “In Francia siamo molto fortunati da questo punto di vista, abbiamo una scuola pubblica chiamata Enjmin che è un istituto nazionale focalizzato sui media. Ma anche frequentandola, non ero certo che sarei stato un game designer di qualità, quindi decisi di partecipare a una competizione per programmatori e designer.” Accettato in entrambi i concorsi, venne spinto dal direttore a seguire la direzione da designer, “Ed è stato bellissimo, abbiamo fatto un sacco di progetti studenteschi, alcuni hanno vinto dei premi che ci hanno dato occasione di viaggiare e farci conoscere in varie aziende e alla fine sono stato preso per uno stage in Ubisoft.”
A proposito di fortuna, come dire, territoriale: i francesi hanno in casa un’azienda colossale e internazionale come Ubisoft, uno dei pochi nomi storici europei ancora in attività. “Senza dubbio,” mi ha detto Boutin, “e senza contare che quando Ubisoft ha sede in una città, spesso ne nascono studi più piccoli fondati da gente che va e viene. Per esempio a Montpellier è pieno di studi indipendenti fondati da veterani di Ubisoft e lo stesso a Bordeaux.”
Entrato in Ubisoft, Boutin ebbe l’occasione di farsi le ossa su tanti progetti piccoli che erano in lavorazione e pian piano si costruì una carriera, tra l’altro lavorando fin dall’inizio con alcune delle persone con cui oggi ha creato il nuovo Prince of Persia. E fra gli sviluppatori con cui ha lavorato c’è proprio Jordan Mechner, il creatore del Prince of Persia originale: “Conosco Jordan perché abbiamo lavorato assieme su altro e del resto lui ha lavorato per Ubisoft Montpellier e vive a Montpellier… Tra l’altro parla benissimo francese.” Mechner, però, che circa un decennio fa aveva provato a sviluppare un nuovo Prince of Persia proprio con Ubisoft Montpellier senza che il progetto andasse in porto, non ha lavorato su The Lost Crown, si è limitato a visitare lo studio e osservare con gioia e orgoglio quel che i ragazzi stavano creando. Più in generale, mi ha confessato, Boutin, non è mai stata presa in considerazione la possibilità di collegare direttamente The Lost Crown agli episodi del passato, al di là delle piccole citazioni che sono in effetti presenti: “Abbiamo sempre voluto fare un reboot. La serie di Prince of Persia ha sempre avuto una prospettiva orientalista, e noi abbiamo cercato di scavare un po’ di più a livello di ricerca storica, ambientandolo prima del regno arabo, usando un approccio più moderno.”
Pur essendo un reboot in tutto e per tutto, però, The Lost Crown riesce a conservare tutti gli elementi fondamentali di Prince of Persia, il combattimento tattico, l’esplorazione, il platforming, le trappole, ma applicandoli in maniera radicalmente diversa. “Sì,” mi ha detto Boutin, “sono tutti elementi che ci sono sempre stati, nel Prince of Persia per Apple II e anche nei vari giochi pubblicati da Ubisoft, però forse in passato erano poco… integrati fra di loro. Noi abbiamo cercato di collegare maggiormente le varie componenti per creare qualcosa di organico.” Nel progetto iniziale, tra l’altro, il gioco non era stato concepito come metroidvania, quello è un aspetto che è nato in seguito, ma fin da subito hanno “speso settimane a fare in modo che il personaggio si controllasse alla perfezione. Era un prototipo fatto di cubi e rettangoli, ma c’era già tutta la sostanza del gioco, c’erano i poteri, il teletrasporto, le sciarpe, il sacram…”
La chiave di tutto il progetto, però, è l’organicità con cui i vari elementi si integrano fra di loro, contrariamente a quanto spesso accade in un genere in cui i giochi tendono ad essere molto forti o sul combattimento, o sull’esplorazione. The Lost Crown fa bene entrambe le cose e soprattutto le fa parlare fra di loro. E non è un caso: “Ci siamo impegnati molto nel level design e nel game design per fare in modo che ogni movimento, ogni azione, ogni aspetto del personaggio funzionasse nei diversi ambiti. Per esempio, lo scatto serve per il platforming ma funziona anche come schivata. E abbiamo ragionato molto su come spingere il giocatore a sfruttare le abilità in questo modo, per fare in modo che tutto fosse della stessa qualità, evitando di creare troppe situazioni che richiedessero di fare una cosa specifica senza diversi approcci possibili. L’abbiamo fatto solo nei punti in cui volevamo sparare davvero la difficoltà al massimo.”
La natura limitata di molti metroidvania è un po’ un mio pallino ed è anche per questo che ho amato molto The Lost Crown: quando ti rendi conto che quell’abilità apparentemente dedicata al combattimento è ottima anche per saltare in giro, e viceversa, è veramente una bella sensazione. In questo senso, Boutin e il team hanno apprezzato molto la creatività dei giocatori, che usano magari il teletrasporto, teoricamente pensato per l’esplorazione, in modi molto particolari nelle fasi di combattimento. “Nelle speedrun,” mi ha detto, “si vedono cose allucinanti, abbiamo organizzato un evento dedicato e c’era gente che completava il gioco in un’ora, usando i poteri per fare delle cose pazzesche.”
Nel chiacchierare di accessibilità dal palco della conferenza, il primo aspetto di cui Boutin ha parlato è uno fra quelli più chiacchierati del gioco, ovvero le opzioni disponibili nell’utilizzo della mappa. Una caratteristica dei metroidvania, ovviamente, è quella di essere ambientati in ampi mondi dalle sezioni interconnesse, in cui alcuni percorsi sono bloccati e bisogna trovare poteri o strumenti per aprirsi la via, cosa che spesso rende l’esplorazione complessa e il backtracking tedioso. Ma l’obiettivo del team, ha spiegato Boutin dal palco, era “creare un Prince of Persia moderno, e quindi anche un metroidvania moderno, che aprisse il genere a più giocatori.” Per questo hanno ragionato sull’accessibilità fin dalle fasi di concezione, pur sapendo che, per un team piccolo come il loro, sarebbe stata una sfida. Ovviamente non avevano un reparto dedicato a questo aspetto, con programmatori o designer dell’interfaccia il cui unico compito fosse di occuparsi dell’accessibilità, e un po’ tutto il team era inesperto su questi temi. Ma il bello, ha spiegato Boutin, è stato rendersi mano a mano conto che “l’accessibilità avrebbe potenziato l’essenza del gioco, invece di snaturarla.”
Tutto il lavoro sulla mappa è stato svolto cercando di lasciare al giocatore la capacità di esprimersi e trovare il suo approccio, conservando nel contempo quel senso di smarrimento che non può non far parte di un’esperienza molto focalizzata sull’esplorazione. D’altro canto, volevano aiutare i giocatori che si sentivano persi, e quindi hanno inserito una modalità guidata, ma evitando di usare una funzione di GPS, “che tra l’altro sarebbe stata molto complessa tecnicamente e in termini di design a causa della struttura aperta dei metroidvania”. Per questo hanno scelto di indicare sulla mappa gli obiettivi a lungo termine, dando quindi una direzione di massima ma lasciando al giocatore il compito di capire come arrivarci. Come ulteriore aiuto, hanno usato un’icona che indicasse un passaggio come bloccato ma che si trasformava nell’icona di inesplorato nel momento in cui il giocatore ottiene il potere o l’oggetto necessario per sbloccare quel passaggio. E in tutto questo, hanno deciso di lasciare questi aiuti attivi come impostazione di base, per fare in modo che tutti potessero provarli, ma indicare chiaramente come disattivarli, per lasciare quella libertà. Ma c’era un altro problema da risolvere.
Nei metroidvania, tipicamente, devi ricordarti dove si trova un oggetto da recuperare, che oggetto è, quale potere richiede per essere raggiunto e chissà quante altre informazioni. Per alcune persone, la mole di cose da ricordarsi può essere davvero troppo, soprattutto quando la mappa inizia ad aprirsi per davvero. La soluzione old school è di prendere appunti, magari disegnarsi una mappa, “come facevamo negli anni Novanta. Ma è un lavoro!” E quindi il team ha deciso di inserire la possibilità di scattare foto e fissarle in giro per la mappa. L’idea è nata dal desiderio del game director, Munir Adi, di spingere i giocatori a concentrarsi più sul mondo di gioco che sulla mappa, ma è stata ispirata anche dai photo mode di altri giochi e dal fatto che “francamente è una cosa che comunque in molti facciamo quando giochiamo ai metroidvania: scattiamo foto allo schermo col telefono per ricordarci le cose”. Dopodiché, a rendere questa funzionalità più interessante in termini di design, come spesso accade, ci hanno pensato i limiti tecnici: “A causa delle dimensioni dei file e del supporto ai salvataggi sincronizzati nel cloud, dovevamo limitare il numero di foto. E questo ha generato due effetti collaterali.” Da un lato, i giocatori erano costretti ad eliminare alcune foto per poterne piazzare altre, finendo così per mantenere in ordine la mappa. Dall’altro, i level designer hanno potuto utilizzare l’aumento di foto scattabili come potenziamento da trovare nei vari bauli, posizionandolo per esempio prima di zone che contengono molti percorsi, per ricordare ai giocatori l’esistenza della funzionalità.
Questa opzione è stata subito accolta a braccia aperte dai giocatori, che tra l’altro non l’hanno inquadrata come elemento di accessibilità, ma come caratteristica fondante dell’esplorazione nel gioco e come un qualcosa che avrebbe fatto bene a qualsiasi altro metroidvania. “Questo ha dimostrato che l’accessibilità costituisce un’opportunità creativa da cui possono nascere elementi cardine di un gioco. Non snatura l’espressione del designer, la potenzia.”
Sul fronte del combattimento, il team si è ispirato molto ai picchiaduro a incontri, cercando di integrarne le animazioni spettacolari e il senso di impatto e fisicità, schivando però la complessità estrema di certi sistemi di controllo. Anche in questo caso, il lavoro sull’accessibilità è stato legato a doppio filo a quello di design: “Puntavamo alla semplicità che puoi trovare in giochi come Smash Bros., dove un attacco equivale a una funzione, e infatti abbiamo un solo tasto di attacco che si lega agli input direzionali, cosa che permette di creare profondità mantenendo accessibilità.” Chiaramente questo non impedisce la presenza di barriere legate alla mobilità o ai riflessi per alcuni giocatori, e quindi si è iniziato a ragionare sulla difficoltà.
Certo, ascoltando queste parole e osservando la vastità di opzioni offerte dal gioco, viene da pensare che il team ha fatto un lavoro enorme per inserire un sacco di roba che molta gente non userà, o di cui magari utilizzerà solo una o due cose. Ho interrogato Boutin al riguardo e mi ha spiegato che “Innanzitutto, abbiamo cercato di fare in modo che un giocatore potesse andare dritto al gioco senza neanche guardare le opzioni e senza toccarle mai.” E questo vale anche in termini di tutorial, che spiega davvero una manciata di cose, selezionate con cura per far capire che esiste una serie di possibilità, “ma lasciamo poi la cosa nelle mani dei giocatori. Sapiamo che chi ne ha bisogno andrà a cercarsi le opzioni e le troverà.” Ma il vero colpo di genio è la decisione di mettere ogni opzione in due contesti diversi: “Le trovi nella sezione dell’accessibilità, ma siccome molti giocatori purtroppo pensano che quella sezione non faccia per loro, le trovi tutte anche in un’altra schermata delle opzioni.”
E infatti, per fare qualche esempio, “l’opzione per il contrasto alto è anche nella schermata della grafica, quella per i sottotitoli sta nella sezione audio, quella per il patterning sta nell’area della difficoltà. In questo modo, tutti possono trovare quello che cercano in maniera naturale, nel momento in cui ne hanno bisogno. Se invece non ti serve niente, sei a posto così.” Ma non è stato comunque semplice decidere quali e quante cose inserire, dove posizionarle, come strutturarle, ragionando anche nel mediare fra le abitudini dei giocatori console e quelle di chi è abituato ai menu infiniti del PC gaming. “Ma l’idea rimane sempre quella: se qualcuno ha bisogno di qualche opzione, la cercherà e la troverà; chi vuole solo avviare il gioco, premere A tre volte e iniziare a giocare, può farlo.”
È un sistema molto intelligente. Io, per esempio, non vado spontaneamente a rovistare nelle opzioni di accessibilità perché ho la fortuna di non averne bisogno, ma ormai ho una certa età, i riflessi non sono magari quelli di una volta e a un certo punto mi sono reso conto che facevo fatica a eseguire parate e contrattacchi col tempismo giusto. Allora ho spostato solo lievemente l’indicatore relativo ed è andato tutto a posto: il gioco non è diventato troppo facile, costituiva ancora una sfida, ma potevo affrontarla in maniera più divertente e appagante. Boutin mi ha confortato dicendomi che “diverse persone nel team di sviluppo hanno fatto la stessa cosa”, ma nel suo talk ha voluto puntualizzare che ci possono essere molti motivi diversi per cui un giocatore può avere bisogno di un’opzione del genere, che possono andare da difficoltà motorie a semplice stanchezza.
“Abbiamo deciso di fidarci dei giocatori.” Hanno creato un gioco impegnativo e poi hanno fornito tutte le opzioni possibili per adattarlo alle proprie esigenze. “Per altri giocatori, magari, ridurre un po’ il danno degli NPC permette loro di comprendere meglio i pattern dei nemici e, magari, giocare alla difficoltà più alta. Senza quell’opzione, sarebbero rimasti tagliati fuori.” Ma è stato molto importante ragionare su come presentare le cose ai giocatori e sul concetto stesso di difficoltà. Nel creare i preset di difficoltà, hanno utilizzato proprio le opzioni che sono disponibili a tutti e si sono premurati di indicare chiaramente cosa cambiasse e come, sostanzialmente mutuando un tipo di gestione che è radicato ormai da molti anni nei videogiochi sportivi. E avere questo genere di “particellarità” delle opzioni ha finito per far sentire il team più libero nel creare un videogioco impegnativo, che avesse una difficoltà di base abbastanza alta, che altrimenti avrebbero dovuto moderare maggiormente. “Ed è stato un successo, perché all’uscita il gioco è stato considerato piuttosto impegnativo, seppur accessibile. Metà dei giocatori ha usato la difficoltà di base, uno su cinque ha alzato a hard, uno su cinque ha abbassato a easy e uno su cinque ha agito in maniera capillare sulle opzioni per ottimizzare il senso di sfida.” L’accessibilità non ha snaturato la difficoltà, le intenzioni dei designer o il sistema di combattimento, ha solo permesso a più gente di giocare e di giocare in una maniera che generasse una sfida impegnativa su misura.
Questo lavoro sulla percezione delle opzioni è poi particolarmente importante in un momento in cui è molto vivo il dibattito sull’equilibrio fra il senso di sfida, l’accessibilità, le esigenze e i desideri dei giocatori tanto quanto dei game designer. Interrogato al riguardo, Boutin si dichiara grande appassionato dei giochi di FromSoftware ed è consapevole del fatto che molti ritengono che aggiungervi opzioni del genere snaturerebbe l’esperienza. “Ma in realtà,” mi ha detto, “in Dark Souls c’è il lavoro sull’accessibilità: è il multiplayer. Il gioco all’inizio è difficilissimo perché Miyazaki voleva spingere i giocatori a fare le evocazioni e ad aiutarsi a vicenda. È semplicemente un modo diverso di gestire l’accessibilità, fare in modo che le persone ti aiutino mostrandoti cosa devi fare. È una soluzione molto intelligente!”
E, ha aggiunto, “in Sekiro, se hai problemi ad eseguire un parry a causa della stanchezza, o magari per problemi di stabilità motoria, e usi un’opzione per cambiarne il ritmo, non cambi radicalmente la difficoltà. I nemici rimangono molto difficili da sconfiggere perché hanno i loro pattern e devi stabilire delle strategie. Quindi penso che sia un dibattito scorretto, perché se a te piace avere quel tipo di sfida, se sei un giocatore hardcore, continuerai a giocare in quel modo. Ma se ti piace Dark Souls ma il gioco non ti lascia il tempo di comprendere il pattern, sei già morto. Avere quel tipo di opzioni ti aiuterebbe.”
E non solo: “C’è la chiacchiera online e c’è la realtà. E la realtà è che su PC un sacco di gente usa i mod per fare cose che non sono previste dal gioco e dai suoi designer. Ho un amico che ha giocato ad Elden Ring in cooperativa, grazie a un mod, perché da solo era troppo difficile. Penso che sia una cosa naturale e non mi sorprenderei di vedere più opzioni nei prossimi giochi di FromSoftware… Io penso che loro vogliano darti un’esperienza di grande difficoltà, e farti provare la soddisfazione che ne trai quando riesci a superare la sfida. E non penso che più opzioni eliminerebbero questa cosa.”
Chiaramente, come detto, integrare questo tipo di opzioni e funzionalità richiede un grosso lavoro, ma soprattutto richiede pianificazione. È importante decidere in partenza di lavorare sull’accessibilità, fin dalla fase di concettualizzazione del gioco. Questo perché, ha spiegato Boutin dal palco, aggiustare l’accessibilità in corsa è impossibile: “Non c’è il tempo di iterare, di fare playtesting. Ci si sono presentati tantissimi problemi che non avevamo previsto. E bisogna essere onesti: al termine della produzione, tutti sono indaffaratissimi e l’accessibilità non è una priorità”. Ma grazie al lavoro svolto fin dall’inizio, l’accessibilità di The Lost Crown era tutta già pianificata più di quattro anni fa, cosa che ha permesso loro di spezzettare ogni funzione in micro-task affidati ai vari membri dello studio, dato che non avevano un team dedicato a questo aspetto. Questo ha permesso anche di distribuire i compiti in maniera specializzata, affidando per esempio le opzioni legate al combattimento a chi si occupava di quello, che quindi conosceva in maniera approfondita le problematiche possibili e ci teneva a fare un buon lavoro perché si trattava del suo ambito. Molto bello l’esempio del programmatore Vincent Lassé, che si è reso conto che la modalità ad alto contrasto generava degli spoiler narrativi, perché il sistema che evidenzia personaggi buoni e cattivi in colore diverso cambiava lo status del personaggio fin dall’inizio della cutscene in cui cambiava fazione. E quindi ha sviluppato uno switch dinamico che il designer delle cutscene poteva utilizzare per cambiare status al personaggio nel momento giusto e non rovinare il colpo di scena ai giocatori che usano la modalità ad alto contrasto.
Ma integrare questo tipo di lavoro dall’inizio dello sviluppo semplifica le cose anche in altri modi. Per esempio, avendo queste funzioni inserite nelle build del gioco fin da subito, potevano metterle alla prova nei playtest, facendo magari partecipare persone daltoniche o con disabilità. E in generale, ovviamente, fare questo tipo di sforzo di pari passo con lo sviluppo non ti costringe ad aggiungere lavoro in un momento successivo per inserire opzioni che non erano state previste. “Ha anche aiutato avere Switch come piattaforma principale, perché ragionando sull’utilizzo in modalità portatile abbiamo dovuto inserire testi e icone grandi come impostazione di base.”
Ma per fare tutto questo, ha aggiunto Boutin, serve qualcuno nel team che spinga in questa direzione e serve il supporto di produttori e director, perché è inevitabile che ci sarà resistenza, ci saranno conflitti. I classici “Pensiamo a fare un bel gioco prima che a fare un gioco accessibile”. E ci saranno imprevisti, aggiunte non pianificate. Per esempio, ha raccontato Boutin, verso la fine della produzione, hanno aggiunto al gioco una situazione in cui il personaggio può finire congelato e, per liberarsi, serve un po’ di button mashing. Che però, per alcuni giocatori con difficoltà motorie, può essere un problema. E quindi hanno dovuto inserire un’opzione per uscire dal ghiaccio in maniera diversa. Perché una cosa del genere possa avvenire, serve il supporto da parte di chi prende le decisioni. Nel caso specifico, il fatto che Boutin fosse la persona che spingeva per l’accessibilità ha probabilmente semplificato le cose, perché lui si occupava principalmente di combattimento e sistemi, era comunque una persona di cui il resto del team si fidava. Se il suo unico compito fosse stato occuparsi di accessibilità, o se fosse stato addirittura un consulente esterno, forse avrebbe incontrato più resistenza.
Ma una fra le cose più interessanti spiegate da Boutin nel suo intervento alla GDC è l’idea che gli sviluppatori lavorino sull’accessibilità senza nemmeno rendersene conto: “In ogni gioco abbiamo quelle che chiamiamo mani invisibili. Per esempio, in un FPS, se il giocatore spara due pixel a destra del bersaglio, lo aiutiamo. Regoliamo le dimensioni dell’hitbox, potenziamo la mira assistita... questi accorgimenti costituiscono, di fatto, lavoro sull’accessibilità.” Oppure, mi viene in mente il fatto che nei giochi di piattaforme c’è spesso un ampio margine di tolleranza sul tempismo, con il personaggio che esegue il salto anche se il giocatore ha premuto il tasto qualche frazione di secondo dopo aver superato il bordo della piattaforma. E in The Lost Crown, ha spiegato Boutin, ci sono tanti piccoli aiuti di questo tipo, per esempio in come funziona l’uso del teletrasporto legato alla ripetizione delle azioni. Rendersi conto di questa cosa aiuta ad avere l’approccio giusto, perché caratterizza il lavoro sull’accessibilità come qualcosa che fa già parte dei normali processi di sviluppo. “A volte,” mi ha detto Boutin quando l’ho interrogato proprio su questo aspetto, “facciamo cose che il giocatore neanche nota e finisce per pensare che il gioco sia troppo facile. La difficoltà sta nel calibrare bene le cose, come sempre. Noi siamo soddisfattissimi della risposta dei giocatori. È stato bello vedere molta gente che non aveva mai provato un metroidvania e si godeva il gioco, ma è stato fantastico anche vedere giocatori super hardcore che si divertivano con la modalità Immortal. E abbiamo visto gente delle comunità più rilassate in assoluto, giocatori appassionati di Stardew Valley, appassionarsi a The Lost Crown grazie alle varie opzioni di accessibilità e completarlo.
È stato bellissimo."
Pubblicato il: 27/05/2025
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