Harold Halibut: un decennio abbondante per costruire un gioco di successo

La lavorazione di Harold Halibut ha avuto inizio nel 2012, quando Ole Tillmann e Onat Hekimoglu si sono messi in testa creare un’avventura punta e clicca realizzata in stop motion e ambientata in un mondo subacqueo. E alla Game Developers Conference 2025, i due sono saliti sul palco per raccontare quel viaggio fantastico. All’epoca, nel 2012, Onat aveva appena portato a termine i suoi studi di cinema e aveva proposto a due suoi amici, Fabian e Daniel, di sviluppare un videogioco. Ole ancora non faceva parte del team, si sarebbe unito due mesi dopo, e la scelta di puntare alla stop motion fu in parte dettata dall’amore per quel genere di cinema, in parte dalla consapevolezza di non essere in grado di creare grafica 3D. Insomma, mettersi lì a costruire cose a mano sembrava la cosa più semplice e sensata da fare, per quanto folle possa sembrare a chi non ha dimestichezza con quelle tecniche. 

Il lavoro ha avuto inizio nella maniera più rustica possibile, nella cucina di Onat, e il gruppo si è immediatamente reso conto che se da un lato erano molto bravi nel mettere assieme le ambientazioni, dall’altro non avevano la dimestichezza artistica necessaria per ideare e visualizzare i personaggi. Ed è lì che è entrato in in ballo Ole, concittadino dei tre, con cui Onat aveva fatto conoscenza tramite le rispettive sorelle. Siccome i primi tentativi di disegnare dei personaggi avevano prodotto risultati abominevoli, il trio decise di contattare Ole, che “Abbandonò il suo impiego in Disney per noi. O comunque ci piace raccontarla così.

Stiamo parlando di un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, in parte ancora studenti, che iniziarono a dedicarsi a questo progetto impiegando il proprio tempo libero. All’epoca, l’idea era ancora di creare Harold Halibut nella sua interezza utilizzando le tecniche tradizionali dell’animazione in stop motion, quindi con pupazzi dagli scheletri mobili, che avrebbero dovuto animare a mano davanti a un green screen, per poi eseguire eventuali ritocchi in postproduzione.

Ole utilizzò la sua tesi sul game design come pretesto per creare un primo prototipo del gioco e quella fu l’occasione per un primo momento di analisi e valutazione dei progressi. Il look generale da stop motion c’era, e al team piacevano l’atmosfera e i set fotografati, ma si resero conto che creare la grafica utilizzando la sovrapposizione dei vari livelli di fotografia uno sopra l’altro restituiva un effetto generale poco convincente. “I personaggi sembravano separati dai fondali statici, non c’era un vero senso di integrazione con gli ambienti.”

Arrivati a quel punto, tra l’altro, i limiti tecnici dell’approccio scelto dettavano anche il tipo di gioco che stavano creando: Harold Halibut si stava configurando come un’avventura punta e clicca molto classica, focalizzata sugli enigmi, con illuminazione statica, un uso della telecamera limitato e possibili movimenti dei personaggi ristretti dal numero ridotto di animazioni in stop motion che potevano effettivamente registrare. L’obiettivo, però, era di creare un gioco narrativo moderno, focalizzato su storia ed esplorazione: “L’intero progetto era nato perché volevamo raccontare una storia profonda e appassionante, e avevamo la sensazione che il gameplay classico basato sugli enigmi ne rallentasse troppo il ritmo”. Inoltre, volevano ottenere un feeling più cinematografico, con luci dinamiche, movimenti di telecamera e spostamenti liberi per i personaggi. Miravano insomma a ottenere “tutte le possibilità, i benefici e il feeling dei giochi 3D moderni ma conservando la fisicità artigianale dei nostri asset”.

Per questo cominciarono a sperimentare sulle tecniche possibili. Un grosso aiuto arrivò dalla decisione di smettere di essere un gruppo di freelancer e organizzarsi fondando una vera e propria azienda, cosa che permise loro di richiedere e ottenere un finanziamento dal governo tedesco e iniziare a dedicarsi al progetto a tempo pieno. Un primo tentativo di cambiare approccio riguardo all’aspetto visivo li vide provare a proiettare i fondali fotografati su delle ricostruzioni in 3D di quegli stessi ambienti. Ma sebbene i risultati fossero promettenti, c’erano ancora troppi limiti, a cominciare dall’impossibilità di avere un’illuminazione dinamica. Ed è a quel punto che deciseo di provare con il 3D scanning. Bisogna però tenere conto che stiamo parlando del 2013, quando le risorse sul tema, soprattutto riguardo all’utilizzo nei videogiochi, erano molto più scarse rispetto a oggi. Visti però i primi risultati promettenti, il team decise di proseguire su quella strada.

La procedura stabilita a quel punto fu quella che lo studio avrebbe poi conservato per l’intera lavorazione. Si partiva dall’utilizzo della fotogrammetria, scattando quindi centinaia di foto al modello, cercando di illuminarlo nella maniera più piatta possibile, nell’ottica di creare poi l’illuminazione nel motore di gioco. Dando il materiale ottenuto in pasto al software RealityCapture si otteneva un modello 3D molto rozzo, che andava poi ripulito manualmente, applicando le texture in alta risoluzione ricavate dal modello fisico e sistemando tutti i dettagli. In questa fase del processo, tra l’altro, un grosso aiuto arrivò dal poter utilizzare della tecnologia per le scansioni creata da degli amici ricercatori all’università di Colonia.

Una volta completata questa fase, il team aveva a disposizione dei modelli 3D abbastanza tradizionali, che ovviamente andavano animati nel motore. Dato l’obiettivo di ottenere un risultato dalla forte impronta cinematografica, si mossero nella direzione del motion capture, ispirandosi a giochi come The Last of Us e God of War. Certo, per uno studio così piccolo, non era semplice seguire la strada di produzioni con set sofisticatissimi, mossi da oltre dieci persone fra attori e tecnici che gestiscono dozzine di telecamere da centinaia o migliaia di dollari, per dare poi il materiale in pasto a decine di animatori. Ecco, lo studio di Harold Halibut mirava a ottenere risultati simili usando da uno a tre animatori, con due persone sul set e circa il triplo delle cutscene totali. “Com’è possibile? Beh, non è possibile. Ma ci siamo inventati un sacco di trucchi per farlo sembrare possibile.” 

In sostanza, usavano un solo attore, che poi era Ole con addosso il vestito ricoperto di sensori, e un tecnico che si occupava della parte tecnica. Quando dovevano girare una scena con più personaggi, la giravano più volte, con Ole che interpretava mano a mano i vari ruoli e usando treppiedi e altro come “segnaposto” per gli altri personaggi. Inoltre, registrarono tutti i dialoghi in anticipo, un po’ come si fa nel cinema d’animazione, in modo da avere tutti i riferimenti necessari sul piano del tempismo, e avevano una “stanza” virtuale modellata sul salotto di Ole, una sorta di mini studio improvvisato per il motion capture che avevano riprodotto in MotionBuilder per avere un setup agile e sempre pronto.

Ma poi bisognava ripulire le animazioni! Di questo si occupò una piccola squadra da uno a tre animatori, lavorando appunto in MotionBuilder. Ma per semplificare il loro lavoro era necessario pianificare bene tutto in anticipo e adottare regole ferree. Per esempio, ogni scena veniva girata solo una volta, decidendo poi immediatamente se fosse soddisfacente o andasse rifatta. Questo riduceva significativamente i tempi della postproduzione, perché non bisognava fare scelte o unire riprese diverse in montaggio. Inoltre, si lavorava molto sul prioritizzare ciò che era davvero necessario mostrare a schermo, per esempio evitando situazioni in cui i personaggi si passano oggetti di mano, tipicamente molto complesse da animare. E poi è stato importante anche scegliere di adottare uno stile estetico bizzarro e surreale, nel contesto del quale risultavano normali, per esempio, posizioni delle mani che in una grafica fotorealistica avrebbero stonato. 

Insomma, la chiave del successo nella lavorazione di Harold Halibut è stata un mix di stile ed efficienza, di pianificazione accurata e natura interdisciplinare del team, ma anche della capacità di prendere decisioni concrete sul piano visivo, senza sentirsi in obbligo di inseguire a tutti i costi l’aderenza all’estetica della stop motion. 

Dopo aver messo in piedi tutto questo, nel 2016 il team si sentiva di aver finalmente ottenuto una base concreta con cui poter mostrare il gioco e pubblicarono quindi un primo trailer, che riscosse grande successo e attirò molte attenzioni. Il problema è che nel frattempo erano finiti i soldi, sia quelli del finanziamento governativo, sia l’investimento personale dei membri del team e delle loro famiglie. Per questo motivo, e anche per non rischiare di fare scelte affrettate nel cercare un publisher, decisero di lanciare una campagna di raccolta fondi su Kickstarter. L’obiettivo era di 150.000 euro e la data d’uscita del gioco pianificata era nel 2018. Col senno di poi, Ole si dice contento che la campagna non sia andata a buon fine, perché dover spiegare costantemente i rinvii ai finanziatori sarebbe stato complesso. Ma Kickstarter fu comunque utile per far parlare del gioco, tant’è che spinse una decina di publisher a contattare lo studio. Nel 2018, venne firmato un contratto e la lavorazione andò avanti forte del nuovo supporto ma anche all’insegna di una nuova efficienza. A quel punto, lo studio aveva messo in piedi un processo lavorativo e costruito 11 personaggi, 8 dei quali erano già stati infilati nel gioco. Appena due anni dopo, avevano completato la produzione degli asset, con oltre 40 personaggi, 80 ambientazioni e un migliaio di asset individuali. Inoltre erano state scritte 90.000 e registrate parole di dialoghi: il gioco era pronto all’80%. 

 “Cosa poteva andare storto?”

Beh, due cose: il rapporto con il publisher si interruppe, per ragioni che non è possibile approfondire, e un mese dopo esplose il COVID. La situazione era complessa, non c’erano i soldi per pagare gli stipendi e la produzione era completamente ferma. Lo studio decise allora di mettersi al lavoro su un uovo trailer, nella speranza di riaccendere l’attenzione sul gioco che nel corso del tempo era senza dubbio sfumata. E fu un vero e proprio momento di rinascita dalle ceneri. Il trailer riscosse un successo enorme e attirò nuovi publisher, ma soprattutto generò occasioni inedite, come la partecipazione di Harold Halibut al Tribeca Festival e al Future Game Show, da cui nacque una partnership con Sony e Microsoft, che permise allo studio di focalizzarsi solo ed esclusivamente sullo sviluppo, fino al completamento dei lavori e all’uscita del gioco il 16 aprile 2024.

E insomma, col senno di poi, per quali motivi la lavorazione di Harold Halibut è andata così per le lunghe? Tutti danno per scontato che sia per la creazione dei modelli fisici usati per la grafica, ma in realtà, nonostante sicuramente le dimensioni e la qualità del gioco abbiano avuto un peso, “il nostro processo di creazione non è davvero più lento rispetto a quello che serve per ottenere quello stesso livello qualitativo con metodi convenzionali”. No, i problemi sono stati altri. Innanzitutto l’inesperienza di uno studio alle prime armi che si è lanciato in un progetto molto ambizioso. E poi l’instabilità economica dettata dal ritrovarsi per lunghi periodi senza finanziamenti. “Se affrontassimo oggi lo stesso progetto, con lo stesso team, impiegheremo probabilmente cinque anni, anche meno con un team lievemente più grosso.” E in questo senso, alla fine, la differenza per raggiungere il traguardo l’ha fatta l’entrata dei soldi arrivati dall’accordo per il Game Pass con Microsoft, che ha permesso loro di arrivare in fondo senza dover accettare ingerenze o costrizioni da parte di publisher. E per fortuna, poi, il gioco è andato molto bene. 

“Abbiamo iniziato,” ha concluso il duo, “come gente dall’esperienza limitata, alle prese con un’idea strana. Se ce l’abbiamo fatta è perché non abbiamo avuto paura di creare il nostro processo lavorativo e superare i confini dello sviluppo di videogiochi tradizionale. Per questo vi incoraggiamo ad andare al di là delle convenzioni, a non esitare nel creare i vostri metodi, a non aver paura di fare le cose in maniera diversa, perché è lì che succedono cose speciali.”

Pubblicato il: 15/05/2025

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