I grandi videogiochi di gennaio, che ve li ricordiate o meno. Perché la storia non va mai in vacanza e Ristar ne fa trenta.

Il percorso di Takara, fino a quel punto, era stato abbastanza lineare. Fondata a Tokyo nel 1955, alla fine degli anni ’70 dello scorso secolo inizia a occuparsi anche di videogiochi, lavorando quasi esclusivamente sulle conversioni di giochi altrui. Quando con il suo Neo Geo SNK prova l’esistenza di una dimensione parallela a quella in cui le uniche protagoniste sono le console a 16 bit di Sega e Nintendo, Takara diventa parte dell’equazione aprendo un portale verso quella dimensione. Sono sue le conversioni quasi-impossibili di un certo numero di successi del Neo Geo, dedicate al Super NES e al Mega Drive. È il marchio di Takara a comparire negli angoli delle illustrazioni di copertina delle trasposizioni di Fatal Fury e Fatal Fury 2, di King of the Monsters e Art of Fighting (tra gli altri).

Poi tutto cambia, ma solo per un istante. L’istante di Battle Arena Toshinden, pubblicato il 1° gennaio 1995, trent’anni fa. Battle Arena Toshinden, un picchiaduro 3D a incontri per la debuttante PlayStation, è il secondo pugno che colpisce il Saturn e lascia senza fiato Sega (il primo? Ridge Racer). Non è corretto dire che nessuno aveva visto arrivare Battle Arena Toshinden, perché nei mesi precedenti all’uscita, quando le immagini iniziano a diffondersi e soprattutto dopo che viene mostrata una versione preliminare agli incontri con la stampa, iniziano un po’ tutti a drizzare le antenne. Ma la portata del gioco di Takara va oltre ogni più rosea aspettativa. È un vero gioco di combattimento in 3D, come Virtua Fighter, con movimenti anche in profondità. A differenza del mangiamonete di Sega, però, qui ogni combattente ha in mano un’arma e sul corpo un lavoro di texture mapping che fa girare la testa. Lo stordimento per Battle Arena Toshinden passerà presto, dopo conversioni (di nuovo!) più o meno riuscite, anche per il Saturn, e una serie di seguiti frettolosi che certificano il primo capitolo come frutto di un fortunato allineamento degli astri.

Ne fanno 40 a gennaio

  • Commodore 128 (Commodore)

Di questi tempi, trent’anni fa

  • Battle Arena Toshinden (Takara) 
  • Ristar (Sega)

Non abbiamo altri trentenni da celebrare in questo appuntamento mensile, o almeno nessuno che possa avvicinarsi per importanza e fascino della sua parabola a Battle Arena Toshinden. Ce ne sarebbe uno e in effetti, costruito tutto questo contesto attorno, diventa più sensato citarlo: si chiama Ristar, è il protagonista di un videogioco di piattaforme dall’impostazione assolutamente tradizionale e viene pubblicato (da quella stessa Sega col fiato corto) sul Mega Drive alla metà di gennaio. Su PlayStation esce Battle Arena Toshinden e Sega completa i lavori su un discreto platform game che nel 1995 sembra già appartenere a un’epoca cristallizzata e consegnata agli archivi. Negli stessi mesi stava anche correndo ai ripari, rimettendo mano all’edizione per il Saturn di Virtua Fighter (diventerà Virtua Fighter Remix), ma non è una storia che riguarda gennaio.

Molto prima, il secondo giorno del 1988, iniziava una storia che invece sarebbe stato impossibile prevedere nelle sue ramificazioni. Electronic Arts pubblicò in quel giorno, il 2 gennaio, Wasteland. Era il nuovo gioco di ruolo di Interplay, una software house che si era già fatta apprezzare per la serie The Bard’s Tale. I tempi di sviluppo di Wasteland, che abbandonava il setting fantasy per sceglierne uno post-apocalittico, furono piuttosto lunghi. Sulla facciata interna della confezione di Wasteland l’assenza di Interplay veniva spiegata con queste parole:

Creduti morti fino a questa recente prova fotografica, questa banda sgangherata di ranger del deserto è stata vista abbandonare un’installazione di computer in fiamme. Secondo le fonti i due anni della sua assenza hanno avuto a che fare con lo sviluppo di un progetto per computer dal nome in codice “Wasteland”.

L’attenzione posta sul nucleo principale di Interplay, che intanto veniva ritratto con costumi a tema, ricordava più da vicino gli onori riservati a una band glam/heavy metal. È un trattamento che nei decenni successivi si sarebbe faticato a ritrovare, con l’allargamento dei team di sviluppo e la volontà degli editori di accentrare su di loro i riflettori. Il seguito spirituale di Wasteland prese il nome di Fallout, solo dieci anni dopo. E poi ci furono anche i seguiti veri e propri, ancora più avanti.

Appena prima di Wasteland? Nel gennaio del 1987 Taito unisce la passione per i pesci a quella smodatissima per la tecnologia, il primo mobile da sala dello sparatutto ittico Darius è un eccesso totale. Ha tre grandi monitor e un divanetto con un sistema audio ambizioso come nessun’altro.

Anche Golden Axe è della classe di gennaio ed è dello stesso anno di Strider. I due giochi si somigliano solo in questo, perché nel picchiaduro a scorrimento di Sega i movimenti e gli scontri sono volutamente pesanti e brutali. I protagonisti sentono il peso delle spade e delle asce, sia quando le alzano, sia quando le fanno calare mortalmente sui crani di legioni di bruti. A differenza di Wasteland, in Golden Axe si ha la chiara impressione di giocare dentro alla copertina di un disco di una qualsiasi band heavy metal del decennio che si stava chiudendo.

Il gennaio degli anni Novanta ha ancora in canna alcuni proiettili di buon calibro. Nel 1998 uno, anzi molti, di questi vengono esplosi verso gli zombi che finiscono per circondare Leon Kennedy e Claire Redfield, doppi protagonisti dell’epico Resident Evil 2. Il seguito del gioco horror del 1996 è stato atteso e discusso sulle riviste per un bel pezzo. I tempi oggi ci possono sembrare tutt’altro che dilatati e nemmeno due anni, per un secondo episodio di questa caratura, apparire addirittura miracolosi. Eppure tra il 1996 e il 1998 la squadra di Shinji Mikami e Hideki Kamiya fece in tempo a cambiare idee più volte. Intanto la stampa gli stava addosso e la crescita senza fine della popolarità della PlayStation, piattaforma a cui era destinato il gioco nella sua prima uscita, aumentava la pressione. Ne venne fuori un ricchissimo gioco su due dischi, quello con il claim “Can you survive the horror?” che formò il nome di un’intera categoria. A me piacque molto meno del primo Resident Evil, se vi interessa. E per amor di precisione: “Can you survive the horror?” comparve solo sul retro della confezione della versione per il Nintendo 64, tocca accettarlo.

Ed è invece inaccettabile che solo sette anni dividano quel secondo male residente da Resident Evil 4 (11 gennaio 2005). Il caso è di quelli da manuale, se si vuole dimostrare quanto sia elastica la materia di cui è fatto il tempo: la quarta uscita della famiglia RE è lontana ben più di una generazione tecnologica, rispetto al progenitore del 1996, e non è sostenibile che siano già venti le primavere che ci siamo messi di mezzo da quel fulminante debutto sul GameCube. Invece è tutto vero e potete coglierne la tragica portata solo se, poveri voi, avete già varcato il cancello degli -anta. 

Rimanendo sullo stesso tema: a gennaio non ci sono, purtroppo, esponenti di spicco per la nostra amata categoria “splendidi quarantenni”. Intendiamoci, volendo proprio andare a pescare nell’indifferenziato, qualcosa lo tiriamo fuori, ma perché allora non limitarsi a citare il Commodore 128, la cui distribuzione venne avviata proprio all’inizio del 1985? E allora ecco, abbiamo timbrato pure questa.

Gli ultimi giorni del mese sono quelli segnati dalla storia da una serie di altri giochi che un po’ di rumore lo hanno fatto. C’è stato Duke Nukem 3D nel 1996 (29 gennaio), che per pochi mesi sembrò aprire a un possibile confronto di lunga durata tra 3D Realms e id Software, amici nella vita e rivali sul lavoro. La trasposizione di una serie semi-sconosciuta al modello degli FPS ricordava, per metodo e risultato finale, proprio quanto fatto da id Software con Wolfenstein pochi anni prima, quando in effetti lavorò assieme ad Apogee, poi divenuta 3D Realms. Purtroppo la fiamma sul sigaro del Duca si spense velocemente e già in estate, quando Carmack e Romero tirarono fuori Quake, più che una guerra parve una tiratina di capelli da scuole elementari.

Il club dei 27

  • Robotron 64 (Midway) 
  • No One Can Stop Mr. Domino (Artdink) 
  • Panzer Dragon Saga (Sega)

Ci sarebbe poi il complicato caso di Tetris, che dalla Tetris Company viene datato 1984, riferendosi alla prima versione realizzata da Alexey Pajitnov, ma che gli studiosi di Day One preferirebbero posizionare al 29 gennaio del 1988, quando in occidente viene messa in commercio la versione per personal computer, la prima ampiamente diffusa e che anticipò il successo in sala e poi su NES e soprattutto Game Boy. Però va bene, non è una battaglia che vogliamo combattere.

Avere vent’anni

  • Resident Evil 4 (Capcom)

Chi aveva voglia di combattere, nonostante qualche tentennamento iniziale, era Cloud Strife. Ed era anche Squaresoft, salita sul carro della PlayStation per rimanerci a lungo. Il 31 dicembre 1997 fu il giorno di Final Fantasy VII. Sul momento non fu lampante il peso specifico del videogioco, che iniziò a farsi più chiaro nei mesi successivi. I racconti delle code in Giappone toccarono fino a un certo punto, ma chi iniziò a giocare quella versione importata e largamente incomprensibile, iniziò come minimo a farsi stordire dalla spettacolare realizzazione tecnica e dall’atmosfera. Le riviste continuarono a parlarne e le uscite in occidente, a partire dall’estate successiva, fecero tutto il resto.

Qui finirebbero i nomi già inclusi nei libri di storia del videogioco, ma davvero Oni merita di essere abbandonato al silenzio giudicante? Oni fu l’ultimo videogioco di Bungie prima di Microsoft e prima di Halo, un gioco d’azione in terza persona dalla matrice chiaramente giapponese (26 gennaio 2001, dopo tanto tribolare). E spazio anche a Tourist Trophy, la prima ultima volta di Polyphony Digital sulle due ruote, con l’intento dichiaratissimo di fare quello che aveva già fatto con Gran Turismo, ma con le moto. Venne pubblicato il 26 gennaio del 2006 e, da allora, Polyphony Digital non si è mai più fatta distrarre da qualcosa che non avesse quattro ruote e un volante.

Di Super Smash Bros. (21 gennaio 1999) si è, invece, continuato a parlare molto. Decisamente di più di quanto non si immaginò nei giorni e nei mesi successivi a quel debutto non proprio indimenticabile, in epoca Nintendo 64. Ora lo riconosciamo come il primo passo necessario, la pietra angolare su cui venne eretto il museo interattivo che è poi diventato a partire da Super Smash Bros. Melee un paio d’anni più tardi.

È tutto per gennaio! Saluto velocemente anche Rings of Power (Naughty Dog, 1992) e Onimusha Warlords (Capcom, 2001), ci si rilegge a febbraio!

DAY ONE, L'ALMANACCO ILLUSTRATO

Mettere assieme una “classe” di giochi che hanno debuttato nello stesso mese è comodo e pure informativo. Ma per chi ha un vuoto culturale da riempire (in modo discutibile), c’è Day One: l’almanacco illustrato dei videogiochi. Ogni giorno Day One raduna una selezione di videogiochi usciti proprio quel giorno, in trentacinque anni di storia (dal 1980 a quasi dieci anni fa, il 2015). 

Ogni gioco viene presentato anche attraverso documenti dell’epoca, brevi estratti dalle recensioni che provarono a determinarne il destino o ritagli di interviste e dichiarazioni dei loro autori. A condire il tutto ci sono centinaia di illustrazioni e immagini di gioco, ma anche trenta giornalisti ospiti che hanno offerto le loro penne e tastiere per raccontare i videogiochi a cui sono più affezionati. 

Attenzione! È attivo uno sconto sull’abbonamento di Day One del 30%! Clicca qui per raggiungere la pagina dell’offerta.

Pubblicato il: 08/01/2025

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