UN ALTRO ARTICOLO SULL'E3

La storia della prima edizione della fiera di Los Angeles, perché è esistita, a cosa è servita e i panini della sala stampa

Non fosse andato avanti per venticinque edizioni senza alcuna interruzione, si sarebbe potuto definire l’Electronic Entertainment Expo come la Woodstock dei videogiochi: un evento che nella sua unicità rappresentò un’epoca e un cambio generazionale. Invece la regolarità gli ha conferito un carattere differente, ma capace di esercitare un fascino simile (sul giusto pubblico). Mettere sullo stesso piano Woodstock e l’E3 (E al cubo) può sembrare azzardato, dopotutto i quattro giorni di musica all’apice della Summer of Love servirono a cementare l’immagine del movimento per i diritti civili e sociali su cui si scontravano due generazioni negli anni Sessanta del ventesimo secolo, mentre a Los Angeles andò semplicemente in onda una fiera dedicata al commercio tra i protagonisti e i comprimari di una parte del settore dell’intrattenimento. Questo, almeno, succedeva sulla carta. Poi, però, l’E3 (come venne infine conosciuto negli anni) divenne anche qualcosa di più

Del Convention Center della metropoli californiana ricordo pure i bagni lungo i corridoi del primo piano della West Hall. Le onnipresenti lingue di moquette verde acqua conducevano dalla sempre più desolata sala ristoro per la stampa, all’ingresso del gigantesco padiglione. Dall’area per gli accrediti, frequentatissima perché ospitava anche i tavoloni su cui spiaggiarsi per scrivere con il proprio portatile, alle meeting room. Dall’ingresso laterale consigliato per tagliare un po’ di coda e che dà su un anonimo vialone, ai bagni. Appunto. La storia dell’E3 nasce anche dai bagni, o per meglio dire dalla loro assenza.

Disse Tom Kalinske che non se ne poteva più della condizione umiliante a cui il settore dei videogiochi era obbligato durante il Consumer Electronics Show invernale di Las Vegas. “Dovevi oltrepassare l’area dedicata al porno, per arrivare a quella dei videogiochi. Un anno pioveva e l’acqua si è infiltrata fino a finire sui Genesis. Mi sono girato verso gli altri del mio team e gli ho detto ‘basta così, qui non ci rimettiamo più piede’”. Tom Kalinske è stato il CEO di Sega of America, nel periodo in cui Sega con il Genesis (il nome con cui era conosciuta negli Stati Uniti la console a 16 bit Mega Drive) sembrò sull’orlo di conquistare il mondo. E che, comunque, fece vedere i sorci verdi alla Nintendo del NES e del Super NES. 

Il Consumer Electronics Show (CES) prevedeva due appuntamenti annuali, quello invernale a Las Vegas e quello estivo a Chicago. Per lungo tempo sono stati gli appuntamenti principali del mercato USA in cui si incontravano i protagonisti del settore dei videogiochi e anche la stampa. Oggi è rimasto solo l’appuntamento a Las Vegas e i videogiochi hanno smesso da molto tempo di prendervi parte, se non in maniera assolutamente marginale. Perché l’intero settore dei videogiochi è fuggito dal CES, a un certo punto. L’area in cui venivano allestiti gli stand di Sega, Nintendo, Atari e tutti gli altri, a Vegas, era in un parcheggio, sotto a delle tende. “Mettevano dei bagni chimici e un piccolo stand in cui poter prendere due snack. E dicevano tutti la stessa cosa: ‘che merda, sembra di stare in Afghanistan'”, spiega Patrick Ferrell a Polygon, in una ricca intervista che delinea le premesse che portarono alla nascita dell’E3 nel 1995.

Patrick Ferrell è stato il fondatore di International Data Group, tra le altre cose editore del mensile Game Pro negli USA, e responsabile della creazione di una fiera dedicata unicamente ai videogiochi. Ci sono spiegazioni più complicate di un po’ d’acqua su qualche console e la ridotta eleganza dei bagni chimici, tra cui spicca la formazione dell’IDSA nel 1994. In risposta alla crescente preoccupazione per i contenuti considerati violenti o diseducativi nei videogiochi, rappresentati principalmente da Mortal Kombat e Night Trap (1992), il settore decise di dotarsi di un’associazione che ne sapesse rappresentare i diritti e le istanze: l’Interactive Digital Software Association (IDSA). 

Fu l’IDSA a elaborare un sistema di catalogazione dei videogiochi che riflettesse i loro contenuti, prima che il governo degli Stati Uniti potesse metterci il naso e imporre la sua volontà.

Fatta l’associazione, c’era da trovare intanto come sostenerla economicamente e poi rimaneva qualche sassolino da togliersi dalle scarpe. Bastò l’idea di creare un appuntamento annuale solo per i videogiochi, l’E3, a soddisfare entrambe le esigenze.

L’organizzazione era dell’IDG di Ferrell, che però tirò in mezzo direttamente i giganti che si erano riuniti dietro la sigla dell’IDSA, lasciando una (piccola ma non trascurabile) parte degli introiti direttamente all’associazione. Ferrell spiegò che in questo modo si era assicurato il supporto dei grandi e medi attori del mercato alla propria fiera, il che avrebbe scoraggiato iniziative concorrenti. Dopotutto anche l’E3, prima di poter brindare al successo della sua edizione di debutto tenutasi nel maggio del 1995, dovette scansare gli attacchi proprio del CES.

L’organizzazione del CES non aveva nessuna intenzione di mollare la presa sui videogiochi e rilanciò proponendo un’edizione estiva da dedicare in via esclusiva alle novità del settore, sempre da tenersi a Chicago. Non funzionò: Sega rispettò la minaccia del suo CEO e la nuova arrivata Sony fece la stessa scelta, così come decine di altri marchi (in primis Electronic Arts). Nintendo si schierò dalla parte del CES, così come l’allora ancora marginale Microsoft, almeno fino a quando l’evento di Chicago non venne annullato perché evidentemente sconfitto dall’assenza di due pesi massimi su tre, oltre a frotte di altri possibili partecipanti che puntarono con convinzione su Los Angeles. Racconta ancora Ferrell che, quando Nintendo si ritrovò obbligata a partecipare all’E3, chiese uno spazio preminente nella South Hall, il padiglione nuovo di zecca. Ma nella South Hall tutto lo spazio espositivo era già stato prenotato da chi era salito sul carro fin dall’inizio e si dovette accontentare della vecchia West Hall. Ferrell cercò di rendere la cosa meno umiliante allestendo il centro per gli accrediti proprio nella West Hall, obbligando i partecipanti a passare dalle parti di Nintendo. Dal 1995 all’ultima edizione, nel 2019, Nintendo è sempre rimasta fedele alla West Hall, che intanto era stata rimessa in ordine e ammodernata.

la "vecchia" West Hall dove venne relegata Nintendo

e la più recente South Hall presidiata da SEGA e Sony

Quella prima volta del 1995, per l’E3, fu una prima volta da sogno. Circa 40.000 persone affollarono il Convention Center di Los Angeles. La città venne scelta non solo per il clima accogliente, ma anche perché offriva collegamenti aerei diretti dal Giappone, rendendo la traversata assai più comoda per le alte sfere di una parte allora predominante del settore. Dentro ci finirono tutti e in quelle che poi divennero le tradizionali conferenze stampe pre-show, Sega e Sony scrissero subito capitoli epocali dell’intera storia dei videogiochi. La prima con l’annuncio della disponibilità a sorpresa del Saturn, la seconda con il momento mic-drop del prezzo della sua console di debutto, la PlayStation: 299 dollari, two ninety-nine (come disse Steve Race, responsabile del lancio della console negli USA), cento verdoni in meno della concorrenza. 

Tra i padiglioni, e alle feste dopo l’orario di chiusura della fiera, si videro Michael Jackson e Steven Spielberg, Seal e Prince. Si capì immediatamente che è cambiato qualcosa. Gli inviati delle redazioni delle riviste specializzate di tutto il mondo tornarono a casa e scrissero editoriali come quello di Max Reynaud, che partecipò per The Games Machine e Console Mania (Xenia Edizioni): “[L’Electronic Entertainment Expo è la] fiera tenutasi a Los Angeles in sostituzione dell’abituale CES estivo, e in assoluto una delle più impressionanti alla quale abbia mai avuto la fortuna di partecipare” (The Games Machine #76, giugno 1995). Segue una decina di paragrafi in cui Reynaud cerca di trasmettere la grandiosità dell’evento al suo pubblico, entrando nel dettaglio delle sue giornate, della metratura dei padiglioni, della caratura dei personaggi incontrati. Riccardo Albini, a Los Angeles per i mensili Zeta e Game Power (Editore Studio Vit), sceglie toni più sobri, ma altrettanti significativi: “In questi tempi di convergenze tra Hollywood e Silicon Valley non si poteva scegliere, probabilmente, città migliore di Los Angeles per tenere l’Electronic Entertainment Expo (E3), la nuova fiera esclusivamente dedicata a videogiochi e divertimento interattivo che ha sostituito il Consumer Electronics Show estivo che si teneva tradizionalmente a Chicago” (Game Power #40, giugno 1995).

Siamo sopravvissuti all’E3 losangelino… Gee, vi assicuro che non è stato facile. Per tre giorni la megalopoli californiana è diventata la capitale mondiale dei videogiochi: il numero di novità presentate è stato semplicemente sensazionale”, spiegò Matteo Bittanti ai lettori di Super Console (Futura Edizioni, #16, giugno 1995). Sulle pagine della storica pubblicazione inglese Computer & Video Games si definì l’E3 “un successo grandioso” (#164, luglio 1995) e si alimentò la voce secondo cui si stesse pensando a un’edizione da tenersi a Londra. EDGE, l’unica tra le riviste di settore ancora esistente tra quelle citate, aprì la sezione delle novità del numero di agosto 1995 così: “E3: il Saturn a sorpresa, i 32 bit dominano – L’evento più atteso dell’industria dei videogiochi parte con il botto”. EDGE fu anche uno dei pochi mensili di settore a riferirsi all’Electronic Entertainment Expo nei mesi precedenti a maggio, annunciandolo in un trafiletto a febbraio e poi con un riferimento diretto nell’editoriale del numero di marzo, di ritorno da un CES invernale tutt’altro che esaltante: “L’E3 è l’evento a cui tutti guardano, lì verranno svelati il Saturn, la Sony PlayStation e l’Ultra 64” (quest’ultimo, invece, fu l’assente più ingombrante di quella prima edizione dei videogiochi sulla Figueroa Street).

Credo che l’E3 abbia anche rappresentato qualcosa di diverso per i giornalisti, di sicuro per quelli come me che venivano dalla provincia della provincia dell’impero, dove sostanzialmente non succedeva nulla e si viveva (e si continua largamente a sopravvivere) della risacca di qualcosa che è successo altrove. Essere lì dove invece le cose stavano accadendo nello stesso momento, per tutti, era inebriante. O almeno lo è stato per me, dalla prima (2001) all’ultima (2019) edizione a cui ho preso parte. Nel 2013 ci sono andato assieme al gruppo di IGN Italia e in una delle prime giornate una parte di noi è stata ospitata dalla cosiddetta “war room” della redazione americana di IGN. A poche centinaia di metri dall’ingresso della fiera erano stati affittati due piani di un edificio da utilizzare come base per la produzione di articoli, contenuti video e dirette: centinaia e centinaia di metri quadri di gente che correva, batteva sul computer, si preparava davanti alle telecamere. Ecco, noi non abbiamo mai fatto quello stesso mestiere e posso dire senza alcun timore di essere smentito che nessuno in Italia lo ha mai fatto. Nessuno si è mai avvicinato alla complessità e ricchezza produttiva del giornalismo di settore americano, nello specifico di quello dei primi della classe (parlo solo di numeri). Andare all’E3 (come intanto aveva preso a chiamarlo la gente, senza la pretesa della E al cubo) voleva anche dire essere in mezzo a tutti questi altri modi di fare quello che amavi fare.

A un certo punto l’E3 costava troppo e aveva esaurito la sua funzione. Electronic Arts nel 2016 disse che avrebbe cercato altre soluzioni fuori dal Convention Center e lanciò EA Play, aprendolo al pubblico pagante (strada che l’ESA, associazione che successe all’IDSA, avrebbe percorso solo più tardi). Nel 2019 fu Sony ad abbandonare, di nuovo tirando in ballo il pubblico (“Per noi i fan di PlayStation sono tutto e cerchiamo sempre nuovi modi di innovare, proporre qualcosa di diverso e sperimentare per sorprendere i giocatori”): era evidente che la natura per soli addetti ai lavori che aveva caratterizzato la fiera, ormai andava strettissima a molti. Fu il ritorno dello spettro degli E3 passati, quelli delle annate 2007 e 2008 in cui la formula cambiò, riducendo gli spazi, abbassando il volume, spostandosi a Santa Monica… e scontentando una larga parte dei convenuti. Il 2019 fu anche l’ultima volta che le porte dei due padiglioni si aprirono alla massa di operatori del settore, dei media e del pubblico, prima che la pandemia globale del Covid-19 piantasse il tradizionale ultimo chiodo sulla bara del sogno che fu di Ferrell, dell’IDSA e, per venticinque anni, dei videogiocatori più appassionati.

Io mi porto dietro la voce di un tizio che, appoggiato a uno dei tanti totem dello stand di Nintendo spiega che “nessun dettaglio è troppo piccolo per la memoria e la risoluzione del GameCube, ma anche l’avviso lanciato dal sistema di amplificazione del Nokia Theatre: “se i posti a sedere sono finiti, trovate posto per terra davanti al palco o i vigili del fuoco faranno sgombrare la sala”, un’ora prima che Miyamoto bucasse un muro di fumo artificiale brandendo una spada e infilzando i cuori cotti a puntino di chi aveva appena assistito al primo trailer di The Legend of Zelda: Twilight Princess. Poi le nottate alla fotocopisteria/internet point Kinko’s a scrivere e a caricare gli articoli su Nextgame.it, le navette che mi portavano da una conferenza all’altra, in cui chiacchieravo con i colleghi di Shenmue III e The Last Guardian. La coda lunga centinaia di metri fuori da uno degli show di Bethesda, che si arrampicava fin dietro il giardino di un tizio in una zona residenziale non meglio identificata (da me). I quaranta dollari per due hamburger da Devolver Digital e USA Today che mi spoilera il Nintendo DS mentre mi bevo un caffè gigante e attendo che il resto della truppa esca dal briefing di PlayStation. Le corse verso il Marriott Hotel per una presentazione in una bella stanzetta in cui l’aria condizionata non tiene conto di nemmeno una delle esigenze del pianeta e la conferma che per l’ennesima volta i panini in sala stampa sono finiti (negli ultimi anni avevo imparato a portarmene qualcuno da casa o a fissare un appuntamento verso le 13:00 dove sapevo che avrebbero offerto cibarie). Le due volte che ho perso una macchina fotografica digitale in taxi, per due anni di fila e in entrambi i casi non era mia. Quella in cui ho bucato un appuntamento per andarmene in spiaggia. Credo fosse Dragon Age: Origins – non è stato carino, me ne rendo conto, ma le condizioni lavorative erano complesse e il venticello perfetto.

Consapevole che da anni fosse venuto il momento per me di fare qualcosa di diverso, rispetto a lavorare nelle redazioni di riviste di videogiochi, per tutte le ultime edizioni mi sono ripetuto: “goditela, potrebbe essere l’ultima volta”. Non mi è mai pesato infilarmi nelle lunghissime giornate di lavoro di quei giorni di fine primavera o inizio estate, che cominciavano verso le sei e finivano attorno alle due. Anche quando tra qualche collega iniziava a rimbalzare la litania un po’ snob del “che due palle, sempre qua a fare le stesse cose”. 

L’E3 è stato un punto di incontro per chi vive di videogiochi, in tanti modi differenti. Se ne può fare a meno e ne faremo a meno, come di tante altre cose che rendono la vita più emozionante, ma è proprio un peccato.

Pubblicato il: 06/06/2024

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5 commenti

Mentre leggevo questo articolo sono stato sommerso dai ricordi, prima delle lunghe attese del uscita delle riviste, tutte quelle possibili, poi delle conferenze in diretta ad orari assurdi. Mamma mia, e3 ci mancherai per sempre

L'ultima frase riassume proprio la mia vita, quella di tutti i giorni.

Io c'ero

Era il periodo che aspettavo parecchio!!!!! Novita Trailer pian pian si e disgregato e poi il Covid gli ha piantato i chiodi sulla bara definitivamente! E sempre un peccato!!!

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