SOUL BLAZER
QUINTET E L'OSSESSIONE DI RICOSTRUIRE IL MONDO
Di aziende e team che negli anni ‘90 si sono cimentati con la creazione di giochi di ruolo per Super Nintendo ne esistono tantissimi. Era la grande epoca d’oro del genere, un periodo storico in cui sembrava esserci spazio per tutti che ha visto nascere decine di capolavori celebrati ancora oggi come punti fermi della storia del medium. Non c’è da stupirsi: l’aumento di memoria delle cartucce del Super Nintendo permetteva agli sviluppatori di raccontare storie sempre più articolate senza doverle relegare per forza nei manuali dei giochi come succedeva in passato. Questo rese gli RPG la prima vera forma di kolossal videoludico per console casalinghe; una vera e propria fabbrica di storie da recapitare nelle case della gente che stava scoprendo le vere potenzialità narrative di un medium ancora giovanissimo com’era il videogioco in quel periodo storico.
L’anno è il 1992. Hironobu Sakaguchi è al suo quinto Final Fantasy, Yuji Horii ha inanellato altrettanti Dragon Quest, Nintendo ha già strabiliato il mondo con The Legend of Zelda: A Link to the Past e Atlus ha gettato le basi per il sottogenere dei monster collector con i Digital Devil Story e Shin Megami Tensei. Tra i team che si lasciano ammaliare dal richiamo di questa incredibile corsa all’oro ruolistico, però, ce n’è uno che viene spesso dimenticato nonostante abbia dato un’interpretazione tutta sua del genere nel corso della sua breve carriera.
Si tratta di Quintet, azienda fondata nel 1989 da Tomoyoshi Miyazaki e Masaya Hashimoto, che altri non sono se non i creatori della fortunatissima saga di Ys quando lavoravano entrambi per Nihon Falcom. Ys è uno dei videogiochi più importanti per quanto riguarda lo sviluppo degli Action-RPG, ma l'esigenza di avere il pieno controllo creativo sulle proprie opere porta Miyazaki e Hashimoto a rischiare tutto e ripartire da zero.
Le cose vanno bene, e al lancio di Super Nintendo pubblicano Actraiser che mette subito in mostra la forza e l’unicità delle idee del team (oltre ad una colonna sonora memorabile firmata da Yuzo Koshiro, che in carriera sembra non aver mai sbagliato nulla). Il 1992 è l’anno della possibile consacrazione, e Quintet pone le basi per una delle trilogie più ingiustamente sottovalutate della storia dei JRPG. Il 1992 è l’anno di Soul Blazer.
Questa è Criptidi, l’antro di Final Round dedicato a tutti quei videogiochi oscuri e ingiustamente dimenticati che meritano una seconda opportunità
In superficie Soul Blazer è un Action RPG come ne esistono tanti: tra Zelda, Secret of Mana e lo stesso Ys, di nomi illustri che hanno plasmato il genere ne esistono a bizzeffe. Perché, quindi, parlare di Soul Blazer? Perché Soul Blazer ha un approccio memorabile che è stato in tutto e per tutto il vero marchio di fabbrica dei videogiochi a marchio Quintet degli anni ‘90 ed è unico nel suo genere.
Tomoyoshi Miyazaki, infatti, è ossessionato dall’idea di ricostruire il mondo per salvarlo dal declino.
Molti RPG raccontano storie di stoici eroi solitari che si caricano sulle spalle il destino del mondo, altri parlano di giovani che resistono alle incursioni del male nel proprio reame o di principi che si mettono in viaggio per salvare delle principesse in pericolo. Parlano di resistenza attiva e di speranza, di una lotta volta a scongiurare il trionfo dell’oscurità, e spesso lo fanno calandosi nei panni di persone ordinarie che il destino ha eletto a propri campioni. Soul Blazer no. Soul Blazer mette il giocatore nei panni di un messaggero angelico alle dirette dipendenze di Dio, inviato sulla terra per scongiurare la fine del mondo. Anziché concentrarsi sul tentativo di sventare un piano diabolico di dominio del mondo, infatti, Quintet racconta un mondo che è già stato sconfitto e assoggettato dalle forze del male. Quando si prende il controllo del protagonista ci si scontra immediatamente con un mondo completamente vuoto e privo di forme di vita, imprigionate da Deathtoll (una versione digitale del diavolo cristiano) grazie alla corruzione di Re Magridd.
Soul Blazer mette in mostra da subito le sue differenze dagli altri Action RPG., e lo fa rifiutando la classica formula dell’eroe che si mette in marcia per sconfiggere il male imboccando il primo sentiero che gli si para di fronte. Dopo aver dato un nome al proprio avatar, infatti, ci si ritrova in una grande distesa erbosa completamente vuota: è possibile perdere parecchio tempo esplorandone l’ampiezza senza mai incontrare anima viva, almeno fino a che non si trova l’ingresso ad un tortuoso sistema di tunnel e caverne sotterranee che pullulano di mostri. Nei dungeon è infatti possibile mettere in pratica il rudimentale sistema di combattimento di Soul Blazer, falciando tutto ciò che si incontra sul proprio cammino senza paura alcuna. Dopo aver passato a fil di spada i primi servitori di Deathtoll, però, succede qualcosa: una delle strane piattaforme da cui sembrano venire generati i mostri che infestano le caverne smette di vomitare la prole del male contro il protagonista e cambia colore.
È quando si interagisce con essa che succede la magia.
Distruggere le “tane” dei mostri permette di liberare gli abitanti del pianeta, permettendogli di tornare alle loro vite. Non si tratta solo di liberarli però, perché dopo aver distrutto una tana l’anima imprigionata al suo interno si materializza istantaneamente nel posto in cui viveva prima di venire assoggettata, facendo così comparire anche la sua vecchia abitazione nel mondo di gioco. Se si decide di tornare in superficie si può ammirare la prateria ripopolarsi lentamente, ed è possibile interagire con i suoi abitanti. Una soddisfazione istantanea, perfetta per spingere il giocatore a proseguire nella sua avventura per conto dell’altissimo, ma il punto è un altro. Il colpo di genio di Tomoyoshi Miyazaki, infatti, fu proprio quello di rendere “sopra” e “sotto” perfettamente intrecciati tra loro. Per poter avanzare nella propria campagna contro Deathtoll, o anche solo per aprirsi la strada, è necessario prendersi cura delle richieste degli umani, ma per poterlo fare bisogna continuare ad esplorare i dungeon e distruggere quante più tane possibili, in un ciclo continuo che lega ciò che succede sottoterra a ciò che succede in superficie, e viceversa.
Provo a fare un esempio pratico per chiarire al meglio la questione: ad un certo punto, nelle caverne sotterranee, ci si imbatte in un ascensore inutilizzabile. Per poterlo azionare e proseguire nell’esplorazione del dungeon, c’è bisogno di ricostruire il mulino direttamente collegato al suo meccanismo, ma per raggiungerlo è necessario liberare la guardia del ponte che permette di attraversare il fiume su cui “poggia” il mulino. Questo significa che dopo aver liberato la tana in cui è imprigionato il guardiano del mulino bisogna prima distruggere il nido in cui è prigioniera la guardia del ponte, tornare in superficie, attraversarlo e riattivare il marchingegno che collega il mulino all’ascensore sotterraneo, per poi rituffarsi nelle profondità della terra e proseguire nell’avventura. Soul Blazer separa così in modo netto le sue due anime – da una parte quella di dungeon crawler, dall’altra quella di quasi-citybuilder – ma fa in modo che queste continuino a parlarsi tra loro senza che una prevarichi l’altra.
In questo è un videogioco davvero speciale e unico.
In un’intervista di tanti anni fa, Miyazaki spiegò in maniera del tutto inaspettata la sua filosofia di sviluppo, chiarendo da dove deriva la sua visione così atipica degli Action-RPG:
“It might sound a little strange, but one of the things I drew inspiration from when making games was travel guides. Traveling and games are the same in that you set out somewhere with a purpose or goal. For instance, you journey to Nara to see the Great Buddha. But just going there and seeing the Buddha isn’t really what makes travel fun, is it? It's the unexpected things you find along the way that make it worthwhile. I think it's the same with games. Those special episodes that happen when you travel are published in people’s travel accounts. When I’m writing a scenario for a game I often use them.”
Se da un lato c'è il senso di grande gratificazione nel vedere il mondo ripopolarsi e le città rifiorire dopo essere state spazzate via, dall’altra emerge quello che è il tema portante di Soul Blazer: la lotta costante contro la solitudine.
Soul Blazer racconta dell’eterno ciclo di creazione e distruzione, di morte e rinascita, ma soprattutto dell’estrema importanza dei legami. Tutto, nell’opera di Quintet, parla di solitudine: le grandi distese di nulla ogni volta che si approccia una città da liberare, la stoica determinazione del protagonista che libera i dungeon dalla presenza dei mostri, certe tracce della colonna sonora e, soprattutto, le parole degli umani liberati dal giogo di Deathtoll che si ritrovano a fare i conti con la loro nuova vita dopo aver perso tutto e tutti. Noi interpretiamo dei semplici messaggeri al servizio di Dio, ma chi deve fare realmente i conti con le tragedie del mondo sono gli umani che abitano la Terra, costretti a fare i conti con le sofferenze delle loro vite. Non solo: il ciclo di creazione e distruzione è duplice, perché gli umani possono prosperare solo dopo la distruzione dei demoni, ma il concetto si applica in entrambe le direzioni. Questo, unito ai discorsi che il villain pronuncia alla fine del gioco, dipingono Deathtoll come un personaggio pieno di sfumature, animato da quella che per lui era una giustissima causa: interrompere il ciclo cancellando la sofferenza dal mondo.
Soul Blazer è un gioco imperfetto, scarno nelle sue meccaniche di combattimento e ovviamente figlio di un’epoca ormai superata, ma fa ancora impressione entrarci in contatto. Innanzitutto è curioso approcciarsi ad un videogioco capace di essere così giapponese per essendo così vistosamente ispirato ad un certo tipo di tradizione cristiana. Soprattutto, però, ad essere incredibilmente moderna è la sua natura ibrida, che gli permette di essere un videogioco tradizionale in tante delle sue meccaniche pur mantenendo un grado di unicità inscalfibile, per non parlare di quanto notevoli fossero i momenti in cui sfondava la quarta parete. È forse uno dei videogiochi più attempati che ho visto interagire direttamente con il giocatore: verso la fine c’è un momento francamente incredibile, in cui uno dei personaggi principali guarda in camera e chiede al protagonista se è umano; lo fa riferendosi al giocatore, non a caso aggiunge di avere la sensazione di essere osservata da lontano. Quasi come se fosse cosciente di essere relegata a una dimensione bidimensionale separata dalla realtà solo da uno schermo.
Soul Blazer non è stato il primo videogioco di Quintet ad interessarsi alla ricostruzione del mondo, né tantomeno a flirtare con l’immaginario cristiano. Quello fu Actraiser, un’altra gemma firmata da Miyazaki incastonata nella libreria di Super Nintendo che merita anch’essa di essere riscoperta e preservata (stando però alla larga dal terribile remake di qualche anno fa). Non fu nemmeno l’ultimo, dato che inaugurò una trilogia tematica completata da Illusion of Gaia e dal meraviglioso Terranigma.
Soul Blazer però merita attenzione proprio perché fu il videogioco che scolpì nella pietra le idee e le ambizioni di un’azienda preziosa quanto sfortunata come Quintet, che dopo all’alba del nuovo millennio si inabissò fino a scomparire per sempre dai radar del videogioco. Ciò che resta è la voglia di raccontare storie di speranza, fratellanza e redenzione, figlie di una visione del game design e della narrativa uniche nel loro genere che hanno ricevuto molto meno credito di quanto avrebbero meritato.
Pubblicato il: 04/07/2024
Il tuo supporto serve per fare in modo che il sito resti senza pubblicità e garantisca un compenso etico ai collaboratori
FinalRound.it © 2022
RoundTwo S.r.l. Partita Iva: 03905980128