LA CRITICA VIDEOLUDICA

o

l'ombelico di Adamo

«La questione cruciale, se Adamo abbia avuto o no l’ombelico, ha davvero turbato per molti secoli le coscienze monoteistiche, e le cristiane in particolare. Da una parte si schierarono gli “Ombelicilli” – come chiamo i sostenitori di un Adamo dotato di ombelico –; agli antipodi, a guardarli in cagnesco, i fautori del contrario, ossia gli “Unombelicilli"»

- Franco Porcarelli, Fantaenciclopedia

Immagino che, per alcune persone che si professano interessate a voler “solo giocare ai videogiochi”, un dibattito sulla critica videoludica possa essere accolto più o meno come se si parlasse dell’ombelico di Adamo: qualcosa di bizzarro, che magari suscita curiosità, ma che viene anche percepito come una sostanziale perdita di tempo. C’è tuttavia anche un numero crescente di persone, non solo tra gli addetti ai lavori, che ritengono invece di grande importanza e attualità il dibattito sulla critica videoludica, visto come qualcosa che le riguarda in prima persona. Il problema, in questo caso, diventa però un altro, ed è la generale confusione che ruota attorno all’argomento, spesso affrontato in maniera saltuaria, episodica, sbocconcellata, ricollegandosi volta per volta al caso del momento. Per tutte le persone interessate al dibattito, pertanto, ho voluto scrivere il seguente articolo, per tracciare alcune linee nel modo più chiaro possibile. Non è un punto di arrivo. Si tratta di un punto di partenza per la costruzione dei discorsi futuri, di fondamenta salde a sufficienza per potervi edificare sopra i successivi palazzi discorsivi.

Piccola nota tecnica: gli anni dei diversi libri citati indicano l’edizione italiana consultata, non l’anno originario di pubblicazione.

LA CRITICA NELL'ERA DELLE INDUSTRIE CREATIVE

«Se la teoria come mescolanza di marxismo e formalismo era già passata di moda nel 1980, che cosa dire oggi? Abbiamo raggiunto un livello d’ignoranza e di noia sufficiente per desiderare di nuovo un po’ di teoria?» (p. 8)

Sono le parole che Antoine Compagnon utilizza nella sua introduzione a Il demone della teoria (pubblicato in Francia nel 1998 e nel 2000 in Italia), un testo fondamentale per chiunque voglia ragionare sulla critica. È possibile affiancare loro le parole di un’altra introduzione – o meglio, di una Presentazione – tratta stavolta dall’antologia di testi sulla critica letteraria (Metodi e protagonisti della critica letteraria, 2010) di Gino Tellini: «Preme sempre impellente, irresistibile, assillante il pungolo a sventolare bandiere nuove […] con annunci di crisi e di decessi, di risorgimenti e di ritorni (neostoricismo e altri “nei”). E ogni bandiera è sventolata con la pretesa di ripartire daccapo e di rifondare il mondo, come se il mondo rinascesse ogni mattina, come se essere aggiornati significasse rinverginarsi a ogni primavera. Va da sé che al meccanismo delle mode è inerente il fenomeno della obsolescenza precoce» (p. X).

Sarebbero sufficienti questi due rapidi passaggi per tratteggiare non solo l’universo della critica, ma più in generale l’intero panorama delle industrie creative. Un panorama mosso, da un lato, dall’idea che tutto sia passato di moda, sia superato e – pertanto – sia ignorabile o spernacchiabile. Soprattutto se si rientra nei ranghi dei Giovani Disillusi dall’Arido Cuore Postmoderno di cui parla Diego Cajelli, il cui rapporto con le narrazioni (e con la teoria, nel nostro caso) è «di costante presa per il culo, di perenne superiorità tamarra». Il massimo orizzonte di godimento, in questo caso, è dire che tutto quanto è «una cagata» poiché già visto, vecchio.

Paradossalmente, o forse no, questo fenomeno si unisce al suo perfetto completamento: l’esaltazione incontrollata e bambocciona per qualsiasi cosa che possa sembrare nuova. È importante sottolineare il termine “sembrare”, in questo caso. Le industrie creative, non è una novità, hanno sempre più un bisogno spasmodico di generare prodotti, discorsività e valore. Arrivando a non riuscire minimamente a stare dietro a tutto ciò, in termini creativi. È anche questa una delle ragioni dietro alla moltiplicazione incontrollata di remake, reboot, prequel, sequel, ecc. Si va a estrarre valore da qualsiasi cosa del passato abbia ancora un almeno minimo potenziale di riattivazione. Con esiti talvolta felici e talvolta atroci, ma non è questo il punto. Il punto è che, sull’onda di un gioioso consumismo da salotto buono, ogni novità viene salutata come l’innovazione rivoluzionaria. Deve essere salutata come tale, anzi. Deve apparire come un punto di rottura fondamentale, o un ripensamento radicale, della tradizione vecchia&rosicona da cui tutti – per quanto detto poco fa – sentono la necessità di discostarsi. Anche quando – e succede spessissimo – in realtà non c’è assolutamente nulla di nuovo, se si scava sotto la superficie e si va a vedere la struttura sottostante. Ma sarebbe come dire che il re è nudo, per cui meglio godersi l’orgiastica novità proposta in quel momento dal consumismo galoppante, sentendo autoassolta la propria coscienza perché si è al passo coi tempi.

Anche la critica rischia tantissimo, su questo versante, ed è in particolare su questo punto che torneremo più volte nel presente contributo. Assetata dal bisogno di novità che già sottolineava Tellini – pur parlando di un ambito ristretto ed “elevato” come la critica letteraria, immaginate quella “pop” – la critica ha sempre il costante rischio di vivere con queste duplici catene: costretta da un lato a dimenticarsi costantemente del suo passato e dall’altro a salutare con radiosa gioia il sole dell’avvenire, la novità del momento, sia in termini di prodotti sia in termini di strumenti e metodologie.

Uno dei maggiori problemi, per riprendere nuovamente le parole di Gino Tellini, è che non si riesce mai a trovare il tempo necessario per riflettere, mettere a sistema e ragionare. La discorsività riguardante i vari prodotti mediali procede con una velocità incontrollata e, dopo poche settimane se non giorni, le riflessioni sono percepite come già vecchie e stantie. Con tempistiche un po’ più distese, ma non troppo, anche i nuovi approcci alla critica vengono ben presto sorpassati e riposti in mansarda. Le novità del presente sono i dinosauri del domani, o del dopodomani al più tardi. Per quanto possa essere ovvio, è utile precisare che non è nemmeno funzionale arroccarsi a tutti i costi sul passato, senza considerare minimamente la contemporaneità e le nuove tendenze. Sarebbe tuttavia perlomeno utile conoscerlo, quel passato, con la sua tradizione, così da non prendere come un rivoluzionario uovo di Colombo qualsiasi nuova proposta che in realtà affonda le sue radici in una tradizione ben estesa.

UNA VASTITÀ DIFFICILE DA PADRONEGGIARE

«Tutti i saggi [presenti in questo libro] trattano di critica, ma con il termine critica intendo l’insieme del lavoro svolto sul piano dell’indagine filologica o del gusto intorno alla letteratura, e che è parte di ciò che viene variamente chiamato educazione liberale, cultura, o studi umanistici. Parto dal principio che la critica non è soltanto una parte di questa attività più vasta, ma ne è una parte essenziale»

- Northrop Frye, Anatomia della critica, 1969, p. 9.

Questo è (quasi) l’inizio del famosissimo e largamente citato testo di Frye sulla critica letteraria, uno dei testi che stanno alla base di numerose posizioni critiche contemporanee. Il suo e moltissimi altri testi hanno provato, in vario modo, a mettere ordine e stabilire un punto fermo all’interno del panorama della critica letteraria, storicamente vastissimo – possiamo risalire tranquillamente almeno ad Aristotele, cronologicamente – e assai differenziato internamente. Ivor Armstrong Richards iniziava il suo Fondamenti della critica letteraria proprio parlando del «caos delle teorie critiche», un vastissimo guazzabuglio composto da «alcune congetture, una quantità di ammonimenti, molte acute osservazioni isolate, qualche brillante intuizione, molta oratoria e poesia applicata, un’inesauribile confusione, un’adeguata provvista di dogmi, un non esiguo corredo di pregiudizi» (1961, p. 4).E, se guardiamo al già citato manuale di Gino Tellini, esso riporta un abbondante numero di correnti della critica letteraria: decostruzionismo, critica psicanalitica, semiologia e semiotica, critica femminista e postcoloniale, neostoricismo, ecc.

Ciascuno di questi è un mondo, che spesso si è posto in rotta di collisione con gli altri, per affermare la propria specificità e la propria capacità di poter dare un senso e fare ordine all’interno del panorama letterario. Una lotta senza quartiere di tutti-contro-tutti, dove al contempo questi “tutti” in guerra tra di loro si trovano ad affrontare un ben più temibile avversario, che riguarda tutti loro: il senso comuneL’obiettivo della teoria è, in effetti, la disfatta del senso comune: lo contesta, lo critica, lo denuncia come costituito da una serie di illusioni […] da cui le sembra indispensabile prima di tutto liberarsi per poter parlare di letteratura. Ma la resistenza del senso comune alla teoria è incredibile» (Antoine Compagnon, Il demone della teoria, 2000, p. 279).

La critica videoludica, almeno per il momento, ha meno preoccupazioni in termini di “caos”, semplicemente perché c’è poco, almeno in ambito divulgativo, e quel poco è abbastanza standardizzato. Avremo modo di percorrere le varie posizioni presenti, comunque. Si trova però, a sua volta, a dover fare i conti con il senso comune, che ancor più sfugge alle maglie della critica, la ignora e qualche volta la spernacchia.

ANGELI STERMINATORI E DINTORNI

«Mi riterrei soddisfatto se questo libro potesse contribuire anche in minima parte a due obiettivi che ritengo fondamentali: invogliare a leggere i classici di ogni letteratura […]; insegnare a distinguere tra un buon testo e un testo-spazzatura (ce ne sono tanti in circolazione e anche in cima alle classifiche)»

- Gino Tellini, Metodi e protagonisti della critica letteraria, 2010, P.XII

«Tutto ciò che è fatto in vista del solo piacere, secondo Platone, è solo un giocattolo, progettato per il diletto di quella parte di noi che passivamente soggiace alle tempeste emotive» (Ananda Coomaraswamy, Come interpretare un’opera d’arte, 1977, p. 32).

«Il pubblico si aspetta dagli esperti di letteratura che gli dicano quali libri sono belli e quali brutti» (Antoine Compagnon, Il demone della teoria, 2000, p. 244).

Questo è un passaggio delicato e complesso. La critica serve a distinguere “buoni” e “cattivi”? Belli e brutti? Ha la funzione di separare il grano dal loglio? Oppure questa è solo la richiesta del popolo, che chiede alla critica qualcosa che non le compete?Achille Bonito Oliva, noto critico d’arte, ama definirsi – proprio in quanto critico – un “angelo sterminatore”. In una simile visione, la critica non dovrebbe solo esaltare le opere meritevoli, ma abbattere quelle indegne, come l’angelo della morte che gira casa per casa a mietere vittime.Non è nemmeno necessaria la stroncatura, in casi del genere. C’è un breve ma significativo video, in cui chiedono a Vittorio Sgarbi un commento su Osvaldo Paniccia, il pittore che divenne noto grazie a (e che contribuì a rendere noto) Andrea Diprè. Il commento di Sgarbi è che «la critica è questa: si può parlare solo di ciò che esiste». Riferendosi più a Diprè che a Paniccia, quindi più al promotore – diciamo così – che all’artista. Ma la sua posizione è assolutamente valida anche estendendola.

Ignorando o stroncando, a seconda dei casi, un critico seleziona, screma.Ma a questo punto – potrebbe essere una possibile obiezione – cosa distingue il critico da un qualsiasi articolo/recensione di consigli per gli acquisti? È un fattore qualitativo? La recensione agisce in modo meccanico e il critico in modo personale? Avevo già affrontato la questione in passato, in un articolo sul giornalismo videoludico. Riassumo quanto detto nel punto legato alle recensioni che avevo espresso in quell’occasione. Il lavoro del recensore può essere espresso in maniera più nobilitante (come selezione dei prodotti meritevoli) o più gretta (come consiglio per gli acquisti), ma in entrambi i casi mantiene la stessa funzione ideale: aumentare le copie vendute. Cosa che non riesce molto bene alla critica contemporanea, per inciso. Non direttamente, perlomeno. Ma rimando sempre al sopra citato articolo, per un approfondimento in merito, e anche più avanti in questo contributo avremo modo di tornare sulla questione.Si tenga a mente questo discorso, comunque, nel proseguimento della lettura, tutte le volte in cui si parlerà di recensioni, di consigli per gli acquisti ecc.

MA QUINDI CHE COS'È LA CRITICA VIDEOLUDICA?

«La cosa più importante in un videogame non è allora capire ‘what happens’, quello che succede, bensì individuare i sistemi di valorizzazione del mondo simulato»

- Matteo Bittanti, 1/3 Per una critica dei videogiochi, «Videogiochi. Il futuro del divertimento», n. 7, 2004, p. 18

Premettendo che gli approcci possibili sono diversi – e andremo a vederli a breve – si sente in effetti il bisogno di identificare un perimetro minimo intorno a ciò che può o potrebbe definirsi “critica videoludica”. La migliore formulazione che ho trovato, nel corso degli anni, rimane quella di Ian Bogost, un accademico che ha avuto numerose intuizioni davvero felici, a proposito dei videogiochi. Se avete sentito parlare di Unit Operations o di fun’ (con l’apostrofo) sono concetti proposti da lui. Se avete sentito dire che gamification is bullshit… è una posizione espressa da lui. Se vi siete interessati a quell’esperimento metaludico che risponde al nome di Cow Clicker… avete capito, anch’esso è suo.

Bogost ha pubblicato, tra le altre cose, un libro intitolato How to Talk About Videogames. Da un testo del genere ci si potrebbe aspettare una sorta di manuale su come, appunto, parlare correttamente di videogiochi, ma così non è. Il libro è invece una raccolta di alcuni suoi contributi apparsi su differenti siti e testate. Dei contributi ottimi, per inciso, come esempi per capire come parlare di videogiochi in modo originale – affrontando punti di vista spesso assolutamente inediti – senza scadere nel personalismo zuccheroso di qualche racconto meramente intimistico. All’inizio del libro, però, c’è un’interessante introduzione, di cui vale la pena riportare almeno un estratto: «The critic answers questions, starting with the most fundamental question: what is this thing? Why does it exist? And then the critic answers questions that offer relief: What do I do with it? What am I not seeing that I don’t know I’m missing? What will cure the sickness that I don’t even know I have?» (Ian Bogost, How to Talk About Videogames, p. X).

Ritengo che il “sugo” della questione, per dirla in termini manzoniani, sia proprio questo: un contributo fa critica quando risponde a delle domande significative su un videogioco. Domande che magari non ci si era neppure posti, prima della lettura di quel contributo, ma capaci di accrescere la propria conoscenza e aprire ulteriori spiragli di riflessione. Ed è buona critica se tutto ciò avviene attraverso strumenti precisi, rodati e ben padroneggiati.Come ottenere simili strumenti? La frequentazione videoludica costante è condizione necessaria ma non sufficiente: avere giocato a tanti videogiochi (o videogiocare da tanto tempo) aiuta a farsi una visione completa del medium, ma non sviluppa necessariamente il senso critico. È infatti possibile procedere tranquillamente in un’ottica di accumulo meccanico: accumulo di esperienze videoludiche, per certo gradevoli e significative, ma intorno alle quali non ci si pone nessun interrogativo fondamentale.

C’è anche, per certi aspetti, un problema di linguaggio. In termini ampi chiunque esprima un giudizio (su un quadro, un film, ecc.) sta facendo critica. In questo senso ampio del termine, il famosissimo e liberatorio commento di Fantozzi su La corazzata Potëmkinuna cagata pazzesca») è un giudizio critico. Ma da una simile posizione non se ne esce più: se tutti sono critici, non può esistere un “critico” in senso specifico, per cui non ci sarebbe alcuna differenza. Ora, se è vero che ognuno è chiamato al giudizio e alla critica, bisogna pur cercare di fare un distinguo. Può essere fatto in almeno due modi.Il primo è quello espresso qui sopra, riprendendo la posizione di Ian Bogost: la critica si muove ponendosi delle domande significative. E la buona critica lo fa ricorrendo agli strumenti appropriati.

Per il secondo – e ci avviciniamo al discorso su quali siano questi strumenti – recupero l’inizio di un testo di Guido Ballo, Occhio critico 1. Il nuovo sistema per vedere l’arte (1973). Ballo esordisce parlando di due persone differenti, che ha realmente incontrato. La prima è un signore totalmente perso, rapito, estasiato da un quadro esposto in una vetrina. Un quadro che, come ha modo di osservare, era solo «una delle tante, banali croste: rappresentava un paesaggio di lago, coi riflessi nelle acque e una casa; ma i toni, la luce, i segni, tutto era falso, di una descrizione esteriore» (p. 9). Eppure per quel signore era il quadro più bello del mondo. La seconda persona è un giovane artista, estasiato «davanti alle Fanciulle arcaiche del Museo dell’Acropoli di Atene, o alle metope e triglifi del sesto secolo avanti Cristo» (p. 9), ma totalmente indifferente nel guardare l’Hermes di Prassitele, da molti ritenuto meraviglioso nel corso dei secoli. Quel giovane artista «partiva da un altro angolo visuale, che gli faceva sentire i primitivi, le strutture arcaiche, la forza dei simboli più chiusi: ma che non gli avrebbe fatto capire la forma che si apre atmosfericamente in rapporto a un individualismo più inquieto. Il suo era un occhio che potremmo chiamare “assolutista”: perché ammette un solo angolo visuale per tutte le epoche e per tutte le civiltà» (p. 15).

E allora occorre identificare quale sia il piano su cui si colloca «l’occhio veramente critico» (p. 15), che è differente sia dall’occhio comune sia dall’occhio assolutista.Già questo è un aiuto preziosissimo, perché fa capire cosa non sia la critica. Non è la sede per ripercorrere tutte le caratteristiche specifiche presentate da Guido Ballo (per esempio il fatto che l’occhio comune si accontenta della verosimiglianza prospettica, e che tende a disprezzare le immagini non immediatamente leggibili), ma quanto detto è sufficiente per comprendere quale sia la direzione, soprattutto se si unisce il tutto a quanto richiamato in precedenza con Ian Bogost.

L’occhio comune è quello della persona che apprezza, magari con genuina sincerità, il videogioco mainstream del momento, quello che appare forse trito e banale a giocatori più navigati. È uno sguardo per certi versi ingenuo ma anche innocente, su cui però è difficile edificare un sistema di domande e risposte significative.D’altra parte c’è chi ha un occhio assolutista: valuta tutti i videogiochi allo stesso modo. Ha conoscenza, e anche passione, per una certa impostazione videoludica, che gli permette di cogliere uno specifico punto di vista sul medium, trovandosi però in difficoltà negli altri casi. Appena sposta lo sguardo non riconosce i sistemi e i valori a cui il suo occhio è abituato, per cui li disconosce. È una tentazione molto contemporanea. Uscendo dall’ambito videoludico, il mondo è pieno di persone totalmente incapaci di leggere o accettare i testi del passato, appena quelli si discostano un pochino dal loro sistema valoriale e dai loro bias, perché adottano una griglia estremamente rigida e marmorizzata: o è come dico io, oppure non ha senso, mi è indifferente o lo trovo persino odioso.Detto ciò, proveremo di seguito a inventariare alcune specifiche forme di critica videoludica, ragionando sui loro pregi e sui loro difetti, sui loro limiti e sulle loro potenzialità.

CASSETTE DEGLI ATTREZZI: NARRATOLOGIA, GAME DESIGN, ECC.

È raro, almeno in ambito divulgativo, trovare delle analisi “pure” di un videogioco legate alla narratologia, al game design, al linguaggio audiovisivo o altro. Sono, semmai, inserti in discorsi più ampi – recensioni comprese – dove però spesso sembrano mancare delle reali e profonde basi sulla materia.Si legge spesso che il personaggio X “funziona/non funziona” o che le sue scelte “sono/non sono coerenti”, ma è raro che tutto ciò venga davvero spiegato in un’ottica narratologica.

Sembra esserci un’idea più o meno vaga di fondo su cosa siano le strutture narrative, ma o si ha una sola idea della “storia che funziona” e si legge tutto con quella lente (l’occhio assolutista) o semplicemente si va molto a sentimento e sensazione (l’occhio comune).Discorso identico con il game design: spessissimo citato sempre in termini vaghi, ma raramente sviscerato per ciò che è davvero. E si potrebbe andare avanti.

La croce e delizia di coloro che vogliono dedicarsi alla critica videoludica è proprio questa: la possibilità di attingere a numerose “cassette degli attrezzi, con molti più strumenti di quelli impiegati da un critico letterario o cinematografico. L’ideale “critico videoludico perfetto” dovrebbe essere un esperto di narratologia, di estetica, di musicologia, di game design, di level design e molto altro. A meno che non ci sia qualche Pico De Paperis in circolazione, è poco probabile poter contare su simili tuttologi. Sarebbe tuttavia utile avere almeno la padronanza delle basi di quante più “cassette degli attrezzi” possibili, sia che si voglia rimanere “generalisti”, sia che ci si vada poi a specializzare molto verticalmente su determinate forme di analisi videoludica.

Ogni sapere esterno, inoltre, è potenzialmente utile a illuminare certi aspetti di determinati videogiochi e fornire nuove letture. Ci sono per esempio analisi semiotiche di Shenmue e libri sull’interpretazione teologica di The Legend of Zelda. Leggere analisi specialistiche è molto più utile di quanto potrebbe sembrare, perché anche quando non comprese fino in fondo nei dettagli di quella materia, esse aprono inedite prospettive nella mente di chi legge. Questa era una posizione espressa con convinzione dallo scrittore Giuseppe Pontiggia: «Io imparo enormemente dagli specialisti, dagli interstizi e dagli spazi, pur esigui, che aprono all’intelligenza contemporanea» (Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, 2006, p. 10).

Al di fuori di determinati ambiti accademici – dove si rischia, a volte, di iperspecializzarsi sempre di più, al punto da sapere “tutto” su qualcosa talmente ristretto da esser “nulla” – sembrerebbe esserci poca specializzazione nella critica più divulgativa. C’è ovviamente chi conosce molto bene determinati generi videoludici, ma gli approcci sono tendenzialmente standardizzati, pur con le ovvie eccezioni. Al più c’è chi professa un particolare interesse per determinate questioni (per esempio tematiche di genere o politiche), ma anche in quel caso sono spesso sguardi di superficie, epidermici, che sorvolano a volo d’uccello il medium sottolineando semplicemente alcuni aspetti più di altri, con pochi o nulli legami con la materia di riferimento (come la mancanza di solidi legami coi gender studies, per restare su uno degli esempi fatti).

Naturalmente la verticalizzazione ha anche il suo rischio, che è in molti casi quello dell’esoterismo settario. Soprattutto alcune discipline e approcci che hanno visto un’evoluzione basata su astrattezze nominative sempre più ingarbugliate possono avere questo problema: non è affatto semplice riuscire a rimasticarle in forma utile e comprensibile per un non addetto ai lavori. E ci si trova allora o a ipersemplificare (e allora si perde quell’utilità specialistica di cui parlava anche Pontiggia) o a perdersi in un’infinità di distinguo e di elucubrazioni sul nulla. Molti dibattiti su certi generi videoludici, peraltro, vivono proprio un analogo problema: si tenta di tassonomizzare concetti d’uso pratico come se dovessero essere degli assoluti, finendo per naufragare in un mare di distinguo.

LA RECENSIONE MI STA STRETTA

Il 12 ottobre 2021, Mikhail Klimentov ha pubblicato un articolo significativamente intitolato The video game review process is broken. It’s bad for readers, writers and games. Il contributo mette in risalto una situazione piuttosto chiara: le tempistiche riguardanti le recensioni costituiscono un problema, perché manca il tempo necessario per fare critica.Se notate, sembrerebbe che stiamo facendo un passo indietro. Non parliamo più di “cosa” sia la critica, ma del contesto – quello della recensione – che per alcuni rimane idealmente uno spazio privilegiato per fare critica. O almeno così sarebbe se i tempi fossero un po’ più distesi e liberi da certe logiche del settore. La recensione classica, estremamente standardizzata, finisce per diventare un obbligo a cui diviene difficile sottrarsi, a meno di non voler sacrificare tempo e salute con maratone di gaming “matte e disperatissime”.

Riporto un passaggio di un articolo di Mario Petillo, che commenta quello di Klimentov: «Qual è il risultato di questa pratica? Che le recensioni vengono scritte in fretta, alla fine di una maratona o spesso confezionate in corso d’opera, con paragrafi che poi vengono aggiornati, che vengono rattoppati ogni volta che appare una feature diversa. Tutti schiavi di un embargo e, ovviamente, delle logiche editoriali. Se arrivi dopo sei condannato a una posizione più bassa su Google, se non pubblichi immediatamente dovrai giustificarti».Certo, non tutti i videogiochi richiedono decine e decine di ore per essere completati, e non sempre i giorni affidati ai recensori sono così pochi. Forse, però, il problema di fondo è un altro.Siamo sicuri che la recensione sia davvero un buono spazio per sviluppare un discorso critico?

Sempre partendo dall’articolo di Klimentov, Valentino Cinefra ha scritto questo in un contributo: «Le recensioni non sono critica, sono un giudizio. La critica si fa con gli approfondimenti, con i post mortem, con le analisi su un tema specifico. Si può fare paradossalmente più critica di una recensione con una news, se viene battuta con delle considerazioni dell’autore, dentro». Le recensioni, dice Cinefra, sono poco lette. Quando sono lette ciò avviene solo nei primi giorni di uscita di un videogioco, si butta un rapido sguardo al voto e questo rapido sguardo ha solo due funzioni: rafforzare la propria volontà di acquisto e/o polemizzare con la redazione (su quest’ultimo punto rimando anche a un articolo di Francesco Fossetti).

Per cui, conclude sempre Cinefra: «Si fa critica con le opinioni, gli approfondimenti, le analisi o le dirette Twitch curate con una certa attenzione. Le recensioni vanno bene così, perché non devono fare critica e soprattutto parlano ad un pubblico che dei sofismi, dei riferimenti letterari, di vedere tirato in ballo ogni volta Italo Calvino, non gliene frega nulla».Si starebbe insomma cercando di spremere succo d’arancia da una mela quando si ha a due passi un intero aranceto. La recensione è un servizio pratico, forse fatto più a Google e ai PR che ai lettori, ma comunque un servizio pratico. La critica però ha tantissimi altri spazi per esprimersi. Spazi che a volte attirano numeri interessanti. È quanto avviene con certi canali Twitch e YouTube, dove talvolta si trovano analisi incredibilmente dettagliate, verticali e piene di senso critico, con un gran numero di visualizzazioni.E spazi che altre volte sono molto meno battuti, forse anche perché ignorati. Ma, del resto, anche le recensioni non generano tutto quel traffico che si potrebbe pensare.

Cinefra cita per esempio i post mortem, e su questo voglio raccontare un piccolo aneddoto, utile anche per spezzare un momento il discorso e riprendere fiato.Ho un sito personale, che utilizzo anche per pubblicare contenuti che reputo interessanti o utili senza pensare troppo alla SEO o ai click. Tra le altre cose ho pubblicato una bibliografia completa dei saggi in italiano sui videogiochi e un elenco completo di post mortem. Il secondo è molto meno cercato e cliccato del primo. Oltre a essere meno cliccato del mio Appunti di dusiologia videoludica, dedicato alle diavolette nei videogiochi. Cosa che forse non stupisce nessuno.È vero, va detto, che i post mortem sono una forma particolare di critica, perché sono un’autoanalisi prodotta in seguito all’uscita di un videogioco. È pertanto comprensibile che non siano di interesse – in ottica di scrittura – per chi non produce videogiochi, ma dovrebbero essere una lettura fondamentale per coloro che parlano di videogiochi. A prescindere dal mio sito, però, li vedo molto poco citati e impiegati come materiale, a dispetto della loro grande utilità.

Tornando alle recensioni, il vecchio paradigma non piace, questo è chiaro. C’è chi propone, come detto, di riconoscerne la natura di consigli per gli acquisti, lasciandole come sono per guardare altrove e prendersi altri spazi dove poter più agevolmente fare critica. E c’è chi ne propone un ripensamento, come fa per esempio Marco Accordi Rickards nel suo Manuale di critica videoludica (2018), con la proposta di una «Nuova Critica Videoludica» che vada a trasformare la vecchia recensione (da lui definita «modello classico») in un’analisi più strutturata ed estesa.Personalmente, se vedo ancora nel futuro del giornalismo la recensione (ne avevo parlato anche in questo contributo), non vedo necessariamente la recensione nel futuro della critica.

Ovviamente tutto ciò è riferito a ciò che si intende oggi con “recensione”, in ambito videoludico. Se domani il contesto cambiasse radicalmente, ecco che potrebbe diventare un effettivo e valido spazio per il discorso critico.Secondo alcuni, però, questo cambiamento è già in corso. Il professor José P. Zagal ne ha parlato nel suo intervento a You Played That? Game Studies Meets Game Criticism. Come sottolinea, non tutte le recensioni videoludiche sono scritte nello stesso modo, e si evolvono progressivamente, anche se forse è difficile rendersene conto, quando ci si trova immersi nel fenomeno. O, forse, c’è anche chi ama volutamente sottolineare questa mancanza di evoluzione, per portare avanti un attacco più o meno diretto a questa forma espressiva, per svariate ragioni (come quella di voler portare avanti una specifica visione di come debba essere fatta la recensione ideale).

Chiaramente le posizioni di persone differenti, su questo argomento, sono diverse tra loro. Se si legge il contributo Critical Literacy: Game Criticism for Game Developers di Yotam Haimberg, si trova chiaramente scritto che «To be clear and avoid confusion, criticism is distinct from review. Game review focuses on commerce-driven evaluation and often provides an overview of the game experience with advice to potential customers. Game criticism is a mixture of thoughtful and shrewd examination to unpack a game’s aesthetics, the desired emotional response, within the largest context of the medium» (p. 22). Recensione e critica sono separate, qui: la prima è il “consiglio per gli acquisti” rivolto ai potenziali acquirenti, la seconda una serie di riflessioni ragionate sul videogioco.

LA CRITICA "FILOLOGICA" VIDEOLUDICA

In letteratura si è visto, nel corso del ‘900, lo sviluppo – tra le molte correnti critiche – di un tentativo di coniugare gli strumenti e il rigore della filologia con uno studio storico-critico sull’autore, il suo contesto sociale di provenienza, ecc.È raro trovare qualcosa di analogo, nel medium videoludico. C’è, ogni tanto, il richiamo a considerare il contesto produttivo, ma ci si trova su un versante sociologico. Si potrebbe anche dire che certe dettagliate analisi di game o level design sono un possibile corrispettivo del formalismo, ma anche in questo caso manca un tassello del discorso.Eppure ci sarebbero grandi margini di manovra e sviluppo, soprattutto in relazione alla genesi e alla variantistica dei testi videoludici.

Essi, infatti, presentano non solo una genesi spesso almeno parzialmente ricostruibile (tramite artbook, interviste, ecc.) ma anche una forte variabilità interna, sia tra la versione vanilla e le sue successive evoluzioni, sia in rapporto alle varie versioni alpha, beta, ecc.Settori poco esplorati, perlomeno in ottica critica. Al più si fa riferimento a queste evoluzioni per news e articoli di curiosità (il classico “non immaginerete mai come sarebbe dovuto essere il personaggio X”).Ma qualcosa c’è, e vale la pena indicarne pertanto alcuni esempi, nella speranza che simili ricerche possano ulteriormente prendere piede, in quanto di grande utilità per accrescere la conoscenza su certi videogiochi e leggerli tramite punti di vista differenti, basandosi il più possibile sull’evoluzione di quei prodotti e mettendo da parte personalismi soggettivi (per quanto possibile).

Prendo come esempio Dark Souls e dintorni. Ci sono alcuni articoli di Ario Barzan (come questo) che rileggono l’environmental design del gioco alla luce dei suoi artwork e viceversa. Il canale YouTube Omega Fantasy contiene diversi video (come questo) in cui riporta alla luce e mostra diversi contenuti tagliati. Un altro canale, Illusory Wall, compie delle operazioni analoghe, mostrando per esempio cosa si vede in Dark Souls II uscendo dall’area esplorabile. In alcuni di questi casi ci si ferma alla raccolta di informazioni, allo scavo, al data mining, ma capita anche di trovare, già in questi contenuti, un impiego attivo e critico di simili contenuti per generare senso intorno al videogioco.

Mi permetto di citare anche un mio contributo accademico come ulteriore esempio del discorso.Un potenziale limite di questo approccio riguarda la dimensione ristretta della sua applicabilità: nel caso di certi videogiochi è possibile reperire sufficiente materiale – e materiale significativo – per portare avanti dei ragionamenti di questo genere. In altri casi il rischio sarebbe quello di produrre, al più, una sorta di “storia delle patch” o di “storia delle idee scartate”, senza potervi aggiungere molto altro.

IL NEW GAME JOURNALISM

Si inizia a parlare di New Game Journalism nel 2004, con l’articolo-manifesto di Kieron Gillen (consultabile tramite Wayback Machine). Nato sul modello del New Journalism degli anni ’60-‘70, che spingeva verso la soggettività e un linguaggio marcatamente letterario, l’ideale di Gillen è quello di vedere analisi videoludiche che escano dai perimetri del “consiglio per gli acquisti”, con la loro canonizzata distinzione per punti riguardante la grafica, il gameplay, ecc.

Così come il New Journalism per diversi commentatori smette di essere giornalismo e diventa un’altra cosa, lo stesso può dirsi del New Game Journalism: è un modo di fare critica, o perlomeno di avvicinarsi a essa. Questo fa tuttavia emergere anche alcune delle incomprensioni e potenziali problematiche che possono emergere: un contributo molto personale su un videogioco etichettato come – per esempio – “approfondimento” può essere più o meno criticato, ma quando è una “recensione” a basarsi sull’esperienza soggettiva e su considerazioni che appaiono marginali, nell’economia complessiva del gioco, la polemica cresce. E non necessariamente a torto. Se è vero che c’è chi auspica un differente futuro anche per le recensioni, come abbiamo detto prima, queste mantengono comunque – allo stato attuale – l’impostazione del “consiglio per gli acquisti” strutturato secondo una pretesa di oggettività. Magari in futuro le cose cambieranno, ma ora come ora ci sono comunque numerosi altri modi per esprimere posizioni più intimistiche, al di fuori delle recensioni.

Prescindendo da questioni di etichette e di collocazioni, il New Game Journalism ha forse proprio il suo maggior pregio nel discostarsi dalle logiche del giornalismo, a dispetto del suo nome. Per citare un concreto progetto italiano, la rivista «LUDENZ», nella cui presentazione è esplicitamente richiamato il New Game Journalism, dell’impostazione “giornalistica” resta alla fine poco, mentre si tenta un approccio critico guidato da una forte volontà personale: «Eliminando il ciclo di reveal, anteprima e recensione, vale a dire la meccanicità strutturale che infesta l’analisi dei videogiochi, l’obiettivo principale di LUDENZ non è scientifico, mirato a piazzare il videogioco sotto una lente per capire le regole e le dinamiche strutturali che attribuiscono un valore ad una esperienza videoludica - la stessa che attraverso la sensibilità, il talento e l’arte degli sviluppatori si fa poi esperienza umana del giocatore». Sembra, insomma, proprio una cosa diversa.

L’approccio del New Game Journalism è visto da molti come liberatorio, come la possibilità di respirare una boccata d’aria “soggettiva” mettendo la testa fuori dalla cappa degli schematismi imposti. Il che in alcuni casi funziona molto bene e produce riflessioni inaspettate e letture inedite di certe esperienze videoludiche.Non è tuttavia la panacea contro ogni male: la soggettività è una tentazione pericolosa, in ambito critico, perché può facilmente degenerare in pigrizia e personalismo. L’esperienza particolare di un singolo individuo è interessante nella misura in cui ha un legame con l’universale, in ottica critica. Non deve necessariamente essere l’esperienza di tutti, ma deve presentarsi come un’esperienza che possa dire qualcosa a tutti. Se ciò non avviene, il risultato finale rischia di essere indistinguibile da qualunque post sui social con le “impressioni a caldo” legate al prodotto del momento.

In ogni caso, il new game journalism è uscito da molti dibattiti, sebbene venga ancora evocato in varie occasioni. Non tanto per volerlo seguire pedissequamente ma, come mi sembra più probabile, per dare un’idea di ciò che si vorrebbe fare come critica.

CRITICA MILITANTE, MARXISMO VIDEOLUDICO E DINTORNI

«Se vogliamo che i nuovi problemi che oggi emergono vengano risolti in modo giusto e profondo, le idee di Marx ed Engels dovranno di nuovo servire da bussola nel campo della teoria»

- György Lukáks, Il marxismo e la critica letteraria, 1964, p. 147

La critica militante opera (dichiarandolo o meno) decidendo di militare a sostegno di una determinata idea o punto di vista sul mondo. Ha pertanto spesso un forte connotato politico. Riunisco qui per semplicità un po’ di posizioni differenti, visto che in ambito videoludico non c’è, almeno per ora, in ambito divulgativo, la stessa varietà riscontrabile altrove.Bisogna soprattutto distinguere quello che è un approccio basato sul metodo da quello che è un approccio basato sulla militanza.

La critica marxista, in particolare, nasce dal riconoscimento delle forze in campo, in merito al rapporto struttura-sovrastruttura, per come viene a emergere nelle opere (videoludiche, in questo caso). Una critica che vada a osservare in che modo le diverse opere rispecchiano o si discostano dal processo storico-sociale da cui derivano. È pertanto una critica generalmente più vicina al campo della sociologia rispetto ad altre.Di solito è molto più facile trovare figure di critici che si muovono da posizioni vicine al marxismo, senza però avere lo stesso approccio metodologico, o seguendolo in modo molto più saltuario ed episodico. Sembrerebbe esserci molto da dire, del resto, soprattutto se si volesse sposare la tesi di Matteo Bittanti, secondo cui il medium videoludico è dominato da «criptofascismo e neoliberismo» (più ampiamente discusso nel libro Game Over. Critica della ragione videoludica, da lui curato).

Una critica militante risulterebbe allora anche una critica resistente, che – secondo questo approccio – mette in luce le dinamiche videoludiche più problematiche, per poter additare quali sono i mali latenti dell’industria.Il rischio, principalmente, è quello di lasciarsi accendere da facili entusiasmi “incendiari”, scagliandosi contro questa o quella pratica senza avere in realtà nulla da dire di criticamente rilevante. Una versione in articolo del post polemico sui social, scritto di getto e di pancia.O, alla meglio, fare qualche analisi superficiale che coinvolge uno specifico oggetto, ma non va a coglierne le implicazioni profonde, né sa legarsi a quanto già è stato detto (spesso meglio) in testi più organici e strutturati. Di articoli sui personaggi femminili dei videogiochi, per esempio, ce ne sono tantissimi, alcuni anche molto buoni, ma la “critica femminista” propriamente detta è rara in quest’ambito, almeno per ora.

LA STORIA VIDEOLUDICA NON È NECESSARIAMENTE LA CRITICA VIDEOLUDICA

«Nel nostro studio particolare, le distinzioni tra teoria letteraria, critica letteraria e storia letteraria sono evidentemente le più importanti»

- René Wellek e Austin Warren, Teoria della letteratura, 1969, p. 45

L’approccio alla storia videoludica non va necessariamente a sviluppare un discorso critico, anche se deve fare i conti – o dovrà farlo a breve – con una questione rilevante per la critica: il canone. Al momento il problema è stato in larga parte ignorato, limitandosi a segnalare videogiochi che per qualche ragione sono stati o tutt’ora sono rilevanti.Immaginate, però, un futuro in cui i videogiochi vengono studiati a scuola. Come sarà strutturata la manualistica di riferimento? Come sarà condotto il processo di selezione di quei prodotti che vanno a formare il canone?

Forse ci si ritroverà davanti a qualcosa che somiglia all’ingessata impostazione delle storie letterarie: «quando poi, a scuola, studiamo istituzionalmente la letteratura essa ci viene imposta e assegnata come un lungo compito di storia sui generis, in cui Dante sta per forza prima di Petrarca, e le serie Foscolo Leopardi e Manzoni, Carducci Pascoli e D’Annunzio si susseguono sempre nella stessa formazione» (A. Gnisci, Letteratura comparata, 2002, p. XII).Voglio anche dire, per dovere di cronaca, che nel manuale che studiai al liceo c’era prima Manzoni e poi Leopardi, ma direi che l’eccezione conferma la regola.Compagnon utilizzava il termine “storia”, nel suo Il demone della teoria, per definire «i rapporti dei testi tra di loro nel tempo» (p. 213).Oggi la critica videoludica è in grado di fare altrettanto in modo funzionale? A volte sì, ed è un buon orizzonte da esplorare, con ancora moltissime terre vergini.

Richiede però una robusta conoscenza della storia videoludica. Una conoscenza che vada oltre quell’abbozzo di canone attualmente presente, che sappia gettare lo sguardo tra tutti i “cloni” dei videogiochi di maggior successo, che abbia memoria dei binari morti nell’evoluzionismo videoludico.E che sappia anche, a dispetto del termine che ho appena impiegato, evitare il ricorso a prospettive di evoluzionismo teleologico, in cui c’è un grande disegno finalistico e ordinato, in cui si tratteggia una storia di progresso lineare che va da Spacewar! a Death Stranding, da Mrs Pac-Man ad Aloy, dai cabinati agli NFT.Le storie videoludiche sono storie di piattaforme, di mercati, di console war e di personaggi più o meno particolari che hanno – è il caso di dirlo – “fatto la storia”. Ed è giustissimo che tutto ciò ci sia. Ma un approccio critico alla storia videoludica deve anche e soprattutto tener conto di quei rapporti che i testi sviluppano tra di loro nel tempo. Rapporti che spesso sono molto meno lineari di quanto sembrerebbe a un primo sguardo.

NON SI PUÒ SEPARARE L'OPERA DALL'AUTORE.
OPPURE SÌ?

Quando, negli anni Trenta, si impose il new criticism in ambito anglofono, esso intendeva portare avanti una netta distinzione, all’interno del panorama critico. Niente più amatori, giornalisti e critici occasionali, il “vero critico” avrebbe seguito dei parametri rigorosi, scientifici, capaci di rendere la sua attività un equivalente delle hard sciences nel mondo delle humanities. L’università, ovviamente, sarebbe stata il luogo privilegiato per la genesi di questa figura e per la sua pratica. La proposta nasceva soprattutto da figure come René Wellek e Austin Warren (citati nel paragrafo precedente).

Da allora sono numerosi gli approcci che seguono, in vario modo, questa impostazione. Così come sono altrettanti quelli che se ne discostano, in quella che è un forse eterno scontro tra “impegno” e “disimpegno”, tra “testo” e “contesto”.A un primo sguardo, verrebbe da dire che la maggior parte della critica videoludica (almeno nelle sue forme divulgative) segue un approccio vicino al new criticism, considerando che in molti casi non c’è un particolare interesse verso l’autore, il contesto di produzione ecc. Ciò significherebbe, però, riconoscere una voluta scelta di campo che invece è in molti casi assente. Si ignorano, del resto, anche gli impianti critico-procedurali del new criticism e delle correnti analoghe. Ciò che allora sembra emergere, in molti casi, è semplicemente una panoramica di superficie, che non va in profondità su nessuno degli aspetti potenzialmente sviscerabili. Tutto ciò, del resto, si trova anche in molti casi sul versante di chi sposa la tesi dell’indissolubile legame autore-opera.

La famosa recensione di «Wired», in cui Hogwarts Legacy ha preso 1/10 (qui la versione italiana) ha fatto molto parlare. C’è chi ha detto che è un contributo “sbagliato” per varie ragioni e chi, per altrettante varie ragioni, lo ha difeso. Il punto di fondo, però, è che si tratta di un contributo superficiale, che aggiunge veramente poco o nulla al dibattito. Non solo al dibattito su Hogwarts Legacy e sulle posizioni di J.K. Rowling, ma anche sui rapporti autore-opera. Se il livello di analisi messa in campo è questa, la differenza con le recensioni “tecniche” è solo sul focus, ma non sulla profondità e qualità della critica. Anche in Italia si sono visti esempi decisamente migliori, nella ricostruzione di scenario sull’autrice, sul contesto ecc.

Si può fare un discorso molto simile con Atomic Heart, altro videogioco che è emerso al centro di polemiche analoghe (seppur meno vigorose). Mettere un paio di link su ciò che gli sviluppatori hanno detto (o meglio, su ciò che non hanno detto e che forse non potevano dire) non è un lavoro di critica.Qui occorre allora ricordare una grande distinzione di fondo, che sembra essere stata dimenticata in un grandissimo numero di dibattiti in merito. La distinzione tra posizione personale e attività critica. E, leggendo questa frase, c’è forse chi partirà a testa bassa pensando che io stia parlando dell’oggettività della critica. Ma non è così.

Nel suo agire personale, legato in questo caso alla scelta o meno di acquistare un prodotto, una persona ha tutto il diritto di comprare o non comprare qualcosa per una qualsiasi ragione. Se una persona sposa la causa LGBTQI+ non giocherà ad Hogwarts Legacy, se ritiene sbagliato contribuire anche solo in modo indiretto al successo di J.K. Rowling. O magari piraterà il gioco, perché vuole scindere il mondo di Harry Potter dalla sua creatrice. O magari farà un’altra cosa ancora, sono solo degli esempi. E, in fondo, non ha neanche bisogno di dover approfondire le sue scelte, se non lo ritiene necessario.Ma se una voce critica, chiamata a fare critica, si limitasse a dire “non comprate Hogwarts Legacy perché J.K. Rowling è transfobica” (o “non comprate Atomic Heart perché ci sono di mezzo soldi russi”), probabilmente non sta facendo buona critica.

Sta proponendo una versione differente, altrettanto superficiale, dei “consigli per gli acquisti” dove c’è scritto che il gameplay è variegato e stimolante e il gioco è stabile a 60FPS. Proprio quello, cioè, che molte persone di questa scuola combattono come approccio. Si va semplicemente a spostare il focus, senza però dire comunque nulla di approfondito.Tornando allora alla questione dell’oggettività: un critico può anche muovere dall’idea che Hogwarts Legacy (o Atomic Heart, o qualsiasi altro esempio) sia problematico per una ragione qualunque, ma se è un critico ha il dovere di approfondire il più possibile quella posizione, di consegnare tutti gli strumenti di analisi di scenario, di contesto, socioculturale e individuale su chi e cosa sta dietro a quel prodotto.Similmente, chi vuole lasciare in secondo piano autore, contesto produttivo e dintorni non dovrebbe limitarsi a sensazioni di pancia. Dovrebbe studiare, darsi un metodo, cercare di mettersi il più possibile in dialogo con quel testo videoludico, in una sfida ermeneutica che possa dire qualcosa di nuovo, di interessante e di significativo.

QUANDO GLI AUTORI FANNO CRITICA

La storia della letteratura è piena di autori che fanno critica a proposito di altri autori. E, quando lo fanno, è sempre illuminante sulla loro poetica o sulla loro personalità. Nel bene e nel male. Al fianco di elogi, riletture e prospettive inedite (Pirandello che sottolinea l’importanza del don Abbondio umoristico nei Promessi sposi, Calvino che legge invece l’opera di Manzoni come il romanzo dei rapporti di forza, ecc.) si sono anche susseguite numerose stroncature.

E spesso «questi vilipendi endogamici, interni alla corporazione, rivelano un’origine meno nobile: un narcisismo esasperato, una gelosa pretesa di essere l’unico dio creatore da adorare, e una penosa insicurezza, che avverte ogni omaggio reso a un altro come un furto e un attentato alla propria necessità di essere amato e accettato». Così scriveva Claudio Magris sul «Corriere della Sera» nel 2006 (l’articolo è stato poi raccolto in Alfabeti. Saggi di letteratura, 2010, pp. 463-467).In ambito videoludico, la critica degli autori è un fenomeno attualmente presente, ma che rimane spesso nel sottobosco, fatica a raggiungere un ampio pubblico. Quando avviene, è perché sono coinvolti dei nomi di spicco. Se Hideo Kojima cita brevemente Another World la notizia rimbalza su tutti i portali di informazione. Se Adrian Chmielarz, uno dei creatori di The Vanishing of Ethan Carter, scrive un articolo in cui parla dell’importanza dei Tale of Tales e delle ragioni dietro al fallimento del loro Sunset, la cosa è molto meno nota, nonostante sia un pregevole contributo.

A volte la critica è diluita nei ricordi personali, come quando Derek Yu parla del suo rapporto con The Legend of Zelda (nel suo libro su Spelunky, pubblicato da Boss Fight Books nel 2016), ma non per questo ha meno interesse potenziale: è un discorso che forse non aggiunge tantissimo alla comprensione della saga di Zelda, ma ha molto da dire sulla visione creativa di Yu.Sarebbe utile, in ogni caso, non affidare le proprie critiche – specialmente quando negative – a un semplice tweet. Quando tre sviluppatori hanno criticato su Twitter l’appena uscito Elden Ring la loro posizione è stata accolta da moltissimi utenti come la classica lamentela della volpe che, non arrivando all’uva, dice che è acerba. A prescindere dalla ragione e dal torto, argomentare la propria presa di posizione in più di 280 caratteri avrebbe aiutato. Anche perché difficilmente un tweet può definirsi “critica”, quest’ultima ha bisogno di distensione e di spazio sufficiente per una analisi.Anche i videogiochi stessi, inoltre, possono in certi casi essere una forma di critica dall’interno del medium stesso. Segnalo, come esempio, il caso di The Beginner’s Guide, preso come studio di caso in questa prospettiva da Riccardo Fassone, in un suo articolo accademico. Aggiungo che il sopra citato discorso sui post mortem sarebbe a sua volta recuperabile qui, come esercizio di autocritica.

Ps: ho volutamente ignorato, in questo punto, l’ampissimo discorso sull’autorialità all’interno del medium videoludico, che avrebbe richiesto un intero contributo a parte.

ALCUNE PROPOSTE SPECIFICHE

Nel perimetro degli studi sul medium sono emerse, in più occasioni, proposte definitorie sulla critica videoludica, nel suo significato e/o nelle sue funzioni. Vale allora la pena segnalarne almeno alcune, a integrazione del discorso fatto fin qui.

Tra le proposte più pratiche si può ricordare quella di Lars Konzack, esposta in un contributo intitolato Computer Game Criticism: A Method for Computer Game Analysis. Konzack propone una modalità ragionata per descrivere un prodotto videoludico, procedendo attraverso differenti livelli. Si parte dall’hardware e dal program code, passando per le functionalities (riprendendo quanto esposto da Espen Aarseth in Cybertext: Perspectives on Ergodic Literature, nel 1997), il gameplay, il significato semantico del videogioco, la sua refentiality e, infine, la componente socioculturale in cui il prodotto va a inserirsi. Nel suo contributo utilizza come esempio Soul Calibur. Il suo modo di procedere ha degli elementi interessanti e, come sottolinea il testo stesso, in alcuni livelli si prescinde anche dalla natura stessa di videogioco (si potrebbe benissimo parlare di un ipertesto o qualcosa del genere e dire le stesse cose). Potrebbe, potenzialmente, essere un modello per delle recensioni similari all’attuale impostazione predominante (quelle più “tecniche”, con grafica, sonoro, gameplay, ecc.) ma con una struttura più articolata.

Un’altra proposta di potenziale interesse si legge nel già citato contributo Critical Literacy: Game Criticism for Game Developers, quando si parla di una sorta di versione videoludica del “club del libro”. Dei momenti di ritrovo, non necessariamente fisici, in cui ci si incontra per discutere insieme sull’esperienza condivisa con un determinato videogioco. Può esserci una persona che assume il ruolo di curatore e moderatore del progetto, proponendo temi e rilanciando la conversazione. Se ci si pensa, è quanto già avviene in molti spazi virtuali, tra cui diversi canali Twitch, gruppi Telegram, ecc. La sfida consiste nel trovare un giusto equilibrio in termini di persone coinvolte. Una chat con centinaia di partecipanti in contemporanea renderà molto difficile poter avere un’effettiva esperienza di scambio da book club: sarà più che altro una proposta one to many in cui uno streamer (per stare sull’esempio di Twitch) racconta la sua visione di un determinato videogioco.

Tra i testi fondamentali da leggere, ma che difficilmente potrebbero dare un impatto diffuso nella critica divulgativa, c’è il libro Unit Operations. An Approach to Videogame Criticism di Ian Bogost.In termini più generali, infine, consiglio la lettura del sopra citato You Played That? Game Studies Meets Game Criticism. La presenza, al suo interno, di posizioni che provengono sia dal mondo accademico (tra cui quella di Ian Bogost, citato più sopra) sia da quello della critica videoludica lo rende un contributo degno di interesse.

GIUNTI (QUASI) ALLA FINE, NON ABBIAMO PARLATO DI UNA COSA

«La maggior parte degli argomenti sono effettivamente complessi e non ammettono troppe semplificazioni. Ma non è complicando i periodi che si risponde a queste preoccupazioni»

- Marco Santambrogio, manuale di scrittura (non creativa), 2008, p. 247

«De Sanctis diceva, e diceva bene, che è legittimo arrovellarsi sulla pagina d’un grande artista, ma non sulla pagina d’un critico, che avrebbe il dovere di farci vedere più chiaro e di agevolarci la comprensione di un fenomeno artistico, non di confonderci le idee»

- Gino Tellini, Metodi e protagonisti della critica letteraria, 2010, p. XI

Uno dei rischi che si annida nella critica, videoludica e non solo, è proprio questo. O forse, più e prima che di rischio, si potrebbe parlare di tentazione. La tentazione all’esoterismo, all’essere inutilmente aulici e ricercati, per radunare intorno a sé i pochi adepti che capiscono (o credono di capire) quanto espresso.Immaginate di leggere un commento su, non so, The Legend of Zelda: Beath of the Wild in cui c’è scritto che «il massimo ludibrio per il gameur trova una precipua fattualizzazione in quel fiat interagente su cui si fonda il patto ludointerattivo con la componente perform-attiva di quell’Eden adamitico che è la terra di Hyrule».Casomai qualcuno se lo stesse chiedendo: è un esempio appositamente inventato per questa occasione e ha anche un suo senso, non sono parole buttate del tutto a caso; sono però appositamente scelte per rendere il tutto esoterico e inutilmente contorto.

È buona critica? Probabilmente no. Il gusto per la ricercatezza può essere un tratto distintivo, se accompagnato dallo scioglimento e dalla spiegazione dei passaggi potenzialmente ostici. Altrimenti è solo elitismo e/o una deliberata scelta di non farsi capire, come quando don Abbondio usa il latinorum con Renzo Tramaglino, nei Promessi sposi.Va anche detto che, in molti contesti divulgativi, è forse ben più facile imbattersi nel pericolo opposto: quello di non dire nulla di significativo (cosa che è possibile anche mascherando quel vuoto pneumatico con tanti paroloni) e al tempo stesso banalizzare il tutto, semplificare sempre e comunque.

Entrano in gioco la SEO, le tempistiche ristrette, magari anche la pigrizia del momento, ed ecco sopravanzare l’ipersemplificazione e la sciatteria. Se il garbuglio sintattico-morfologico insegue il mito dell’elitismo, dei pochi “illuminati” che possono cogliere il messaggio, qui si insegue il mito del “per tutti”, con una distorsione di fondo. La critica dovrebbe essere idealmente alla portata di chiunque, dovrebbe aiutare le persone a essere illuminate su passaggi oscuri, significati reconditi e altro di un testo, ma se tutto ciò si riduce a una pappetta informe, ecco che il suo ruolo viene meno.

Quando ogni nuovo videogioco è un “gioiellino”, ogni articolo è un “pezzone” e ogni persona capace di pigiare i pulsanti della tastiera è una “penna”, c’è un problema di appiattimento (e talvolta anche di incensazione reciproca). Così come quando ogni prodotto giapponese viene “dal Sol levante”, ogni community è “tossica” e ogni controversia “problematica”. Le parole, come panni, tendono a consumarsi e sfilacciarsi man mano che vengono usate e abusate, fino a diventare stracci logori di cui non si capisce più la funzione originaria. Per cui si finisce per navigare nel mare dell’indistinto e dell’indifferenziato, in cui tutto è appiattito verso il basso e verso il routinario.

PER CONCLUDERE

Questa panoramica dovrebbe aver fatto emergere un dato: “fare critica” significa tante cose. Per cui diffidate, in linea di massima, di chi ne porta avanti una sola visione delegittimando tutte le altre. Ogni persona ha le sue predilezioni e può ritenere alcune scuole più utili e funzionali di altre, ma se vi dicono che – per esempio – la vera critica esiste solo quando tiene insieme autore e opera (o, al contrario, quando li scinde), probabilmente qualcosa non funziona.

Seguite, invece, chi invita al miglioramento, all’approfondimento e allo studio. Qualunque sia la scuola di pensiero che si vuole seguire, non può esserci buona critica se si rimane in un perenne bamboleggiamento fatto di sensazioni, letture di pancia e veloci ricognizioni. Può essere un’attività critica anche quella, lo si è detto sopra. I confini terminologici si possono ampliare tantissimo, fino alla “cagata pazzesca” di Fantozzi. Ma la critica dovrebbe puntare a dire, ogni volta che può, qualcosa di nuovo e/o di più approfondito su un argomento, così da contribuire all’ampliamento della conoscenza comune. È questo il valore della critica e il suo servizio alla collettività. Sta a ogni persona declinarlo a suo modo.

Pubblicato il: 21/03/2023

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10 commenti

Siete una boccata di ossigeno.

Articolo magistrale. Mi fa tornare con la mente ai tempi dell'università e agli articoli d'approfondimento di riviste come Cineforum e Duellanti. Complimenti.

Complimenti, articolo notevole e molto ben scritto; questo è il genere di letture che speravo di incontrare in FinalRound, e per questo sono felice di aver "tifato" per il progetto fin dalla presentazione!
Continuate così.

Segnalo che il video di Sgarbi su Osvaldo Paniccia non è più disponibile, ora continuo la lettura D:

Messo in evidenza da Andrea Sorichetti

Premetto che ho appena letto una pubblicazione notevole, Complimenti al curatore.
La critica odierna vive in uno stato d'ansia perenne.
I ritmi e le esigenze produttive non possono che soffocare l'analisi e la documentazione di un videogioco.
Un q …Altro...
Premetto che ho appena letto una pubblicazione notevole, Complimenti al curatore.
La critica odierna vive in uno stato d'ansia perenne.
I ritmi e le esigenze produttive non possono che soffocare l'analisi e la documentazione di un videogioco.
Un qualsiasi videogioco, indipendentemente dal budget, ha una struttura ludica/ narrativa che va approfondita, ma come se non vi è mai il tempo necessario per farlo?
Per analizzare una produzione bisognerebbe cercare le fonti di ispirazione, capire l'obiettivo a cui il team voleva ambire, separare e analizzare ogni componente ludica e strutturale per poi formularne una "recensione" o banalmente un resoconto.
Il tempo però non è mai a disposizione dei "critici" e quello che si ottiene non è altro che un elenco di ciò che è presente e ciò che al recensore sarebbe piaciuto trovare.
Questo elencare di funzioni, attività, modalità non è criticare un prodotto ma è una semplice lista di accessori, ottenibili pagando un Vg o un abbonamento.
Ci sono critici che passano mesi a studiare le influenze e la produzione di un quadro.
Ci sono critici che guardano per decine di volte un film prima di scriverne un'opinione.
E'un vero peccato che spesso questo approccio non vi sia nel mondo dei videogiochi.
Tutto è dettato dal mercato che pretende le release al dayone, la settimana successiva sei vecchio e non interessi più.

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