FRONT MISSION

Una storia di robottoni, anti-militarismo
e del dramma di essere arrivati contemporaneamente troppo presto e troppo tardi.

Il Giappone è l’unico paese al mondo ad aver subito un bombardamento nucleare. Due, a dirla tutta. Questo ha ovviamente avuto delle ripercussioni incalcolabili sulla società giapponese, sulla sua cultura e sul rapporto con la vita stessa degli abitanti dell’arcipelago. Già, perché guardando le macerie della devastazione atomica di Hiroshima e Nagasaki, il popolo giapponese realizzò di far parte di una specie che era stata in grado di teorizzare, produrre e utilizzare un’arma tanto potente da essere in grado di estinguere la vita stessa.
Ciò che ho sempre trovato estremamente affascinante di questa situazione è come il disastro umano causato dalla detonazione di Fat Man e Little Boy abbia successivamente ispirato una risposta culturale e sociale molto potente da parte del popolo, che ancora devastato dall’immagine dei funghi atomici che oscuravano il cielo sopra la sua testa ha tentato in tutti i modi di affrontare quel passato per superare il trauma. Godzilla, dopotutto, non è altro che l’incarnazione del terrore che la popolazione giapponese provava per la bomba atomica, e lo stesso vale per tantissima fantascienza, che negli anni del secondo dopoguerra si concentrò sulla rielaborazione di quel trauma in maniera creativa.

È per questo che, nel 1956, dagli inchiostri e dai retini di Mitsuteru Yokoyama nacque Tetsujin 28-go, il primo super robot della storia, antenato dei vari Manzinger, Goldrake e Jeeg e progenitore del genere mecha. I cosiddetti robottoni diventano un fenomeno culturale gigantesco, al punto da diventare un vero e proprio simbolo del Giappone nel mondo. I super robot diventano un’icona della cultura otaku, e per vent’anni dominano sia il panorama del manga sia quello dell’animazione televisiva. Il paradigma cambia alla fine degli anni ‘70 per mano di quella che oggi viene definita la generazione del dopobomba: ai super robot, caratterizzati dalle loro origini spesso aliene o sovrannaturali e dal loro ruolo di difensori del bene, si contrappongono i real robot, una nuova declinazione dei mecha che li vede ridotti al ruolo di “semplici” armi in dotazione agli umani.

Gli apripista furono Yoshiyuki Tomino e lo Studio Sunrise, che nel 1979 pubblicarono Mobile Suit Gundam, una serie epocale che spostò il focus della narrazione dai robot alle questioni legate alle vite degli umani che li pilotavano. È impossibile quantificare l’importanza di una serie come Mobile Suit Gundam, ma ciò che conta è che ispirò un nuovo modo di concepire i robot, diventando il punto di riferimento per tutto il genere.

Tetsujin 28-go, antenato dei Super Robot, e Mobile Suit Gundam, padre dei Real Robot, a confronto

Il mondo dei videogiochi, in particolare di quelli giapponesi, ha flirtato a lungo con i mecha, sin dai tempi in cui bastava spiattellarne uno in copertina per convincere il pubblico a comprare un nuovo shoot ‘em up. Prima ancora del successo globale di Xenoblade Chronicles, dell’autorialità di Zone of the Enders e della meraviglia di Xenogears, però, è esistito un franchise che fece sua la lezione dei real robots di Gundam, del suo modo di raccontare la guerra e l’umanità di chi stava ai controlli dei mech. Parlo ovviamente di Front Mission, serie sviluppata da G-Craft per conto di Squaresoft il cui primo capitolo venne pubblicato nel 1995. 

Front Mission - La prima volta per tanti

La gestazione di Front Mission fu tutt’altro che semplice. Stando ad un'intervista rilasciata da Toshiro Tsuchida, scrittore e produttore del primo capitolo (oltre che padre putativo dell’intero franchise), Squaresoft era riluttante all’idea di finanziare il progetto. I motivi principali erano sostanzialmente due: da un lato Front Mission sarebbe stato il primissimo videogioco targato Squaresoft ad essere sviluppato da un team esterno, dall’altro l’azienda si era apertamente schierata contro l’idea di investire su un videogioco di fantascienza incentrato su dei robot. Non solo: l’esplosione della bolla economica giapponese del 1991 aveva cambiato drasticamente anche l’approccio delle software house allo sviluppo, tanto che Tsuchida racconta di come gli venne più volte detto che Square non si sarebbe più potuta permettere che lo sviluppo si basasse solamente sulla sola creatività degli autori, ma che dovesse obbligatoriamente tener conto dei trend del mercato.

Front Mission voleva essere uno dei tanti eredi spirituali di Gundam, forse il primo in ambito videoludico, ma questo fu per G-Craft uno dei suoi problemi principali. Il motivo è semplice: negli anni ‘90 non era entrata in crisi solo l’economia nipponica, ma era venuto meno anche l’interesse del pubblico per l’intero genere mecha, che sembrava aver esaurito la spinta che lo aveva portato a dominare l’intrattenimento dagli anni ‘50 in poi.
Una volta convinta Squaresoft ad investire sul progetto, Tsuchida si ritrovò a collaborare con dei colleghi a dir poco illustri: Lo sviluppo venne supervisionato da Hironobu Sakaguchi, creatore di Final Fantasy, mentre Shinji Hashimoto, storico producer di Squaresoft prima e Square Enix poi, ha ricoperto il ruolo di advisor e produttore esecutivo.

"'Sorry, no robots'. I kept being told that. It was right after the bubble had broken, so everything was kind of slumped and frozen."

Toshiro Tsuchida (shmuplations.com)

Quando Front Mission sbarca su Super Nintendo la copertina del gioco mette in bella mostra un artwork disegnato da Yoshitaka Amano, chiamato per la prima volta all’art direction e al character design di un videogioco di fantascienza dura e pura. 
Front Mission è la prima volta di molti. Lo è per G-Craft che è chiamata a soddisfare un’ambizione mai tanto grande e lo è per Yoshitaka Amano e Hironobu Sakaguchi che abbandonano per un breve periodo i setting medieval fantasy che ne hanno segnato la carriera.

Per Squaresoft lo è due volte, visto che Front Mission è il primo tentativo dell’azienda di creare un TRPG nell’accezione moderna del genere e, contemporaneamente, il frutto di un’inedita collaborazione dell’azienda con un team esterno per lo sviluppo di un videogioco. Il risultato è un videogioco rivoluzionario, che dimostra di aver capito a fondo la lezione di Tomino e di Gundam e che si concentra non tanto sui robot quanto più sull’impatto che il loro utilizzo ha nei confronti degli esseri umani, militari o civili che siano. Non è un caso che la cover del gioco non ritragga in alcun modo i robottoni ma due esseri umani, né che la tagline del gioco reciti “How does a man survive on the battlefield that Huffman had become?”.
Forse non è un caso nemmeno che in pochi (pochissimi) conoscano Front Mission, che è indiscutibilmente una delle IP più sfortunate e bistrattate dalla storia. Forse non lo è perché Front Mission venne pubblicato per uno strano scherzo del destino proprio nel 1995, a metà della decade che aveva visto il genere perdere inevitabilmente la sua forza e la sua influenza, in contemporanea con la pubblicazione dell’ultimo grandissimo successo della cultura mecha: Neon Genesis Evangelion. L’opera di Hideaki Anno cambiò per sempre la cultura pop e otaku, ma fu anche la tomba di un genere che da lì in poi ebbe sempre meno da dire (non me ne vogliano i fan di Gurren Lagann, Darling in the Franxx e affini). 

Toshiro Tsuchida e Shinji Hashimoto in un’immagine promozionale di Front Mission

Front Mission é uno di quei videogiochi nati troppo presto per avere successo, dotato di una maturità per certi versi spaventosa nella scelta dei temi da affrontare nonostante sia meccanicamente molto semplice rispetto a tanti suoi congeneri come Final Fantasy Tactics, Tactics Ogre o Fire Emblem. Si combatte a turni e in griglia, e lo si fa comandando armate di Wanzer (letteralmente dei carri armati bipedi pilotati da soldati addestrati) in lunghe battaglie campali che intervallano le fasi narrative, vero fulcro delll’opera. Sì, perché al di là dell’iconicità dei Wanzer e del suo gameplay semplice ma efficace, Front Mission è il figlio illegittimo dei moti pacifisti nati a seguito della guerra in Vietnam e dell’ossessione per la tecnologia e la guerra dell’intrattenimento giapponese dei ‘90. È un’opera che mette in scena la guerra per sottolinearne i mali peggiori, che rimette al centro del quadro gli uomini e che racconta i suoi mech come una perversione tecnologica paragonabile alla bomba atomica. Il suo intento è quello di ricordare a tutti che ad essere pericolosa non è mai l’arma in sé e per sé; ad essere pericolosi sono i pensieri e gli ideali di chi tiene il dito sul grilletto. È ancora imperfetto, ma ciò che conta è che funziona.

Gun Hazard - il capolavoro nascosto di Nobuo Uematsu

Nel primo capitolo è già perfettamente percepibile tutto ciò che avrebbe successivamente definito la serie. Dentro Front Mission ci sono superstati in eterno conflitto tra loro, revanchismo, cospirazioni e intrighi tecno-politici utili a fomentare la guerra e a permettere a certe figure di “fare carriera” e assicurarsi posizioni di potere. Il tutto inquadrato da una prospettiva globale, sì, ma focalizzata sulle gesta di semplici esseri umani incastrati in qualcosa che non riescono e non possono comprendere nella sua interezza. Tutto questo è solo l’inizio. Il successo, seppur non travolgente, del primo capitolo portò Squaresoft ad investire più fondi nel progetto di G-Craft. Nel 1996 viene pubblicato Front Mission: Gun Hazard, spin-off della serie sviluppato da Omiya Soft che si allontana dal concept originale per creare uno strano e non perfettamente riuscito action-rpg a scorrimento orizzontale. Anche in questo caso la lista dei credits nasconde i nomi di alcuni tra i creativi più rispettati e influenti della storia del medium: la copertina è ancora una volta opera di Yoshitaka Amano, mentre la colonna sonora è firmata da Nobuo Uematsu e Yasunori Mitsuda, che tornarono a collaborare dopo Chrono Trigger in quella che è forse una delle composizioni criminalmente più sottovalutate ed ignorate di sempre. nonché uno dei punti più alti mai toccati da Uematsu in carriera (ascoltare Nature o Message of Genoce per credere). Gun Hazard è diverso nell’impostazione, ma mantiene vivissimo l’interesse sia nei confronti della narrazione impostata dal primo capitolo sia dell’approccio unico nel suo genere alla geopolitica del suo mondo.

"My entire image for Gun Hazard can be summed up in one word: steel.
I insisted on using metallic tones in the songs, and giving them a mechanical feeling"

Nobuo Uematsu (shmuplations.com)

Front Mission e Front Mission Alternative - L'avvento della terza dimensione

Dopo due capitoli era chiaro a tutti che per poter sbloccare definitivamente il proprio potenziale Front Mission aveva bisogno di una cosa ben precisa: la terza dimensione. Super Nintendo non aveva le qualità tecniche per poter supportare appieno l’evoluzione della serie. Squaresoft decise quindi di acquisire G-Craft, che cambiò nome in Square’s Development Division 6, e nel 1997 pubblicò ben due capitoli su PlayStation. Front Mission 2 e Front Mission Alternative vennero sviluppati in parallelo; il primo era il primo vero sequel di Front Mission, mentre il secondo era uno spin-off ambientato prima degli eventi dnarrati nel primo capitolo. Front Mission 2 espandeva enormemente sia le meccaniche che i temi del primo capitolo. La scrittura di Tsuchida tocca questioni delicatissime che vanno dalla lotta per l’indipendenza allo sfruttamento messo in atto dagli imperi colonialisti, passando per il dramma umano legato alla decolonizzazione dei paesi del terzo mondo. La scelta di ambientarlo in Bangladesh, in questo senso, fu una dichiarazione d’intenti non da poco, perché Tsuchida ha sempre voluto che la serie potesse permettersi di sfruttare la sua finzione tecno-futuristica per commentare il mondo reale a lui contemporaneo.

Front Mission Alternative, pur essendo uno spin-off (questa volta uno strategico in tempo reale) sviluppato da un team differente con l’obiettivo di bilanciare la spesa sostenuta da Square per lo sviluppo di Front Mission 2, mantiene la stessa impostazione tematica. Alternative è infatti ambientato nell’Africa precedente agli avvenimenti di Front Mission, e racconta delle guerre civili che ne hanno distrutto l’integrità politica e sociale fino alla nascita della grande confederazione del continente. Un titolo minore, molto meno centrato nelle intenzioni e chiaramente “vittima” del suo budget ristrettissimo, che però rappresentava un’aggiunta sicuramente non sgradita all’offerta del franchise.

Non esistono dati di vendita ufficiali di Alternative, ma è abbastanza lecito pensare siano state irrisorie rispetto ai capitoli per Super Nintendo e, soprattutto, a Front Mission 2.Front Mission 2 fu un enorme passo avanti per la serie. La resa a schermo della nuova veste tridimensionale era sicuramente più in linea coi tempi e la scrittura venne migliorata drasticamente e approfondita, probabilmente grazie alla rinnovata fiducia di Squaresoft nei confronti di Tsuchida e del suo team che permise loro una libertà creativa maggiore. Non era, però, esente da difetti: nello specifico, Front Mission 2 soffrì molto dei lunghi tempi di caricamento delle scene di combattimento, che andavano ad annacquare le già lunghe battaglie del gioco rendendo particolarmente frustranti le sconfitte. Per molti la trama di Front Mission 2 è la migliore di tutto il franchise, ma la sua resa tecnica non lo aiutò a farsi strada nel cuore del pubblico, che si stava abituando a JRPG decisamente più rifiniti. Nel 1997, dopotutto, vennero pubblicati Tactics Ogre, Wild Arms e Final Fantasy VII, quindi la concorrenza era piuttosto agguerrita e farsi spazio non era un compito semplice.

Front Mission 3 - L'apertura all'occidente

Sin dalla nascita della serie, Front Mission ha sempre avuto un grandissimo problema. Tsuchida e il suo team, infatti, volevano raccontare il mondo che li circondava, i suoi conflitti e gli aspetti più gravi del colonialismo e dello sfruttamento del sud del mondo da parte delle superpotenze, ma Front Mission ha parlato per molti anni solamente al pubblico giapponese. Squaresoft non credeva così tanto nel progetto di G-Craft da mettere a bilancio le spese di traduzione, adattamento e pubblicazione per i mercati esteri. Era un controsenso, anche perché la serie ha sempre rifiutato l’approccio nippocentrico di tante produzioni giapponesi per avere un orizzonte tematico e narrativo il più ampio possibile. Erano, dopotutto, gli anni della grande globalizzazione, eppure i videogiochi che se ne occupavano seriamente erano pochissimi. Per uno strano scherzo del destino era proprio la serie che più di tutte se ne interessava a vedersi negata la possibilità di godere dei vantaggi comunicativi della stessa. Front Mission 3 cambiò finalmente direzione, e fu il primo capitolo della saga a venire pubblicato anche in occidente. È una coinvicenda, ma proprio Front Mission 3 fu il primo capitolo della serie ad ammorbidire la sua scrittura introducendo al suo interno degli aspetti più in linea con la tradizione dei manga shonen rispetto al passato.

Ad America ed Europa venne quindi concesso quasi ironicamente il privilegio di entrare in contatto con la serie solo nel momento in cui la stessa è diventata, per certi versi, più giapponese di prima. Front Mission 3 ebbe riscontri estremamente positivi sia dalla critica che dal - purtroppo - poco pubblico con cui entrò in contatto (parliamo di un titolo che vendette solamente 300.000 copie in un periodo storico in cui Final Fantasy VIII, di copie, ne piazzò più di cinque milioni) nonostante fosse il terzo capitolo di una serie già molto espansa. Venne rinnovato nell’estetica, nella tecnica (i caricamenti si accorciarono drasticamente) e nella struttura, che adesso offriva non una ma ben tre storyline principali da seguire. I piloti diventano parte integrante delle battaglie: possono essere feriti, possono essere espulsi dai loro wanzer e possono muoversi a piedi sul campo di battaglia per provare a sabotare o sequestrare i mech nemici. Cambia la gestione della crescita dei personaggi, vengono approfonditi certi aspetti della personalizzazione dei wanzer e viene mantenuto il sistema di valutazione del combattimento già visto in Front Mission Alternative. La vera meraviglia di Front Mission 3, però, sta nella sua cura per i dettagli. Al suo interno, infatti, venne inserito un finto browser internet che permetteva l’accesso ad un numero impressionante di siti e forum interamente navigabili. Un’operazione di world building spaventosa per portata, completezza e complessità, ancora oggi mai replicata allo stesso modo da un altro videogioco e che meriterebbe un approfondimento dedicato tutto per sé. Il mondo di Front Mission 3 è vivo e, soprattutto, è reale, proprio perché nacque quasi come diretta conseguenza dell’interesse quasi morboso del mondo nei confronti di internet che ha caratterizzato gli anni ‘90.

Front Mission 4 e Front Mission 5 - L'inizio della fine

Il nuovo millennio portò con sé un gran numero di cambiamenti radicali per Front Mission. Innanzitutto Squaresoft cessa di esistere nel 2003 e si fonde ad Enix per dare vita a Square Enix, intraprendendo un nuovo corso dalla gestione esplicitamente più corporativa rispetto al passato. La gestione delle IP, specialmente quelle più piccole, viene quindi affrontata in maniera estremamente differente: iniziò un’epoca di remake e di outsourcing spesso dissennato che costò la vita a numerosi franchise. Front Mission, che non poteva contare sul supporto del pubblico oceanico di altre serie in mano a Square Enix, fu uno di quelli che pagò le peggiori conseguenze. L’avvento di PlayStation 2 segnò la flessione qualitativa nella serie con Front Mission 4, che pagò il fatto di essere stato sviluppato in contemporanea con il remake del primo capitolo per PlayStation (pubblicato ormai fuori tempo massimo) e con la lavorazione di Front Mission Online, che altro non era che uno shooter multiplayer per PS2 dedicato esclusivamente al mercato giapponese. Lo sviluppo di Front Mission 4 fu estremamente frettoloso, come dimostra la pochissima cura riservata alla sua pianificazione. Intendiamoci, non è un brutto videogioco, ma è estremamente difficile non notare il gap che lo separa dai capitoli precedenti.

Front Mission 4 è il seguito diretto del primo capitolo pubblicato su Super Nintendo, ma vide la luce in un periodo storico estremamente difficile per il genere. I JRPG non erano ancora entrati in recessione ma si stavano preparando ad un letargo lungo quasi una generazione, e post-Evangelion i mecha persero definitivamente appeal agli occhi del pubblico, ora interessato a storie e tematiche differenti. È un peccato, perché nonostante tutto Front Mission 4 ha mantenuto viva la missione della serie di voler offrire uno sguardo attento alla geopolitica a lui contemporanea. La realizzazione non fu brillante, ma Tsuchida si riconfermò abilissimo nel prevedere gli scenari di guerra futuri a cui il mondo sarebbe andato incontro, come dimostra il fatto che Front Mission 4 ha anticipato di quindici anni i disordini in Venezuela che portarono il paese sull’orlo della guerra civile nel 2019.

Front Mission 5, invece, è ancora oggi una delle più grandi occasioni sprecate da Square Enix nella sua storia. Tecnicamente parlando è ancora oggi uno dei capitoli più riusciti della serie (è stato sviluppato utilizzando una versione rifinita e potenziata dell’engine di Final Fantasy X, dopotutto), ma la decisione di non pubblicarlo al di fuori del Giappone ne ha minato gravemente la diffusione e l’influenza. È un videogioco strano, che mette in campo un gameplay decisamente solido ma che narrativamente si pone come una sorta di meta-commento su tutta la serie. Il punto di vista adottato è quello di un orfano di guerra che è stato spettatore degli avvenimenti principali raccontati nei capitoli precedenti e che è successivamente diventato il comandante di un’unità di mecha d’élite. Una carezza ai fan, a cui venne permesso di rivivere, seppur da un’inquadratura differente, tutta la timeline della serie, quasi come per celebrare assieme a loro dieci anni di storia passati assieme. Front Mission 5, però, cadde nel vuoto. La colpa è da imputare in gran parte alla strategia di distribuzione di Square Enix che, non fidandosi della pessima ricezione del quarto capitolo (dovuta anch’essa alla pessima gestione del progetto da parte dell’azienda) ha trasformato quello che poteva essere un ottimo capitolo in un videogioco ancora più di nicchia di quanto non lo fosse già di per sé.

Front Mission Evolved e Left Alive - Gli anni bui

Dopo due spin-off per telefoni cellulari pubblicati solamente in Giappone, Square Enix decise di rimettere mano al franchise per tentare di svecchiare la serie e di inserirla anche nell’ecosistema della settima generazione di console. Front Mission Evolved vide la luce nel 2010, in un contesto culturale e industriale estremamente cambiato rispetto a quindici anni prima. La settima generazione fu la kryptonite dei JRPG, che per rimanere rilevanti all’interno del mercato si trovarono a fare i conti con la disaffezione di pubblico e aziende per i videogiochi a turni. Erano, dopotutto, gli anni dei videogiochi che facevano il verso al cinema e che grazie alla potenza delle nuove console potevano permettersi di tentare una svolta action in tempo reale che falciò più franchise di quelli che ne uscirono vittoriosi. I robottoni, allo stesso modo, si erano inabissati definitivamente diventando reliquie del passato in un contesto storico ormai troppo lontano cronologicamente dagli avvenimenti che ne hanno propiziato la nascita. Sì, Gurren Lagann e il progetto Rebuild of Evangelion avevano riscosso un buon successo, ma delle macchine realistiche e iper tecnologiche che avevano costellato i palinsesti di televisioni e cinema per decenni non c’era più neanche l’ombra. Inutile girarci attorno: Front Mission Evolved fu un disastro. Si tratta, in assoluto, del punto più basso toccato dalla saga. Evolved è uno shooter action che rifiuta categoricamente ogni aspetto del gameplay tattico dei suoi predecessori in virtù di una svolta più immediata e semplice capace di avvicinare il nuovo pubblico abituato ad esperienze simili. Il risultato è un prodotto blando e senza alcun tipo di guizzo creativo la cui anima venne sacrificata sull’altare del mercato, e fu il mercato stesso a distruggere ogni possibilità di rinascita per la serie, ormai abbandonata a sé stessa.

"In the end, Front Mission Evolved feels like more of a lateral step.
As a mech shooter, it’s functional, but unremarkable.
As a part of the greater Front Mission canon, though, it may as well not exist."

Josh Tolentino (Destructoid)

Nel 2019, però, successe qualcosa di completamente inaspettato. Square Enix fece un secondo tentativo a nove anni di distanza da Front Mission Evolved e pubblicò, quasi dal nulla, un nuovo progetto intitolato Left Alive. Un’operazione dissennata, portata a termine a seguito di una campagna di comunicazione praticamente inesistente (almeno in occidente), che presentò al pubblico un videogioco sconosciuto ai più e orfano del nome della serie di cui faceva parte. Molti di quelli che se ne interessarono lo fecero per la copertina disegnata da Yoji Shinkawa (storico e iconico illustratore di Metal Gear Solid), ma esiste ancora oggi una gran fetta di quel microscopico pubblico che ci ha messo le mani che non sa di aver giocato un Front Mission.

Left Alive è un pessimo videogioco con delle grandi idee, martoriato da una mole di problemi tecnici disastrosi e da un felling generale vecchio di almeno dieci anni. L’ennesimo dei peccati capitali di Square Enix. Il fatto è che Left Alive del potenziale ce l’aveva. È un videogioco che meccanicamente fa acqua da tutte le parti ma che al suo interno nasconde dei minuscoli guizzi di grande intelligenza e che, soprattutto, è andato a recuperare la filosofia della serie madre. Left Alive parla di guerra e lo fa inquadrandola dal punto di vista dei civili, lasciando da parte l’eroismo dei soldati per far emergere il dramma umano del conflitto. È, peraltro, un videogioco estremamente attuale dato che è ambientato in Ucraina in un scenario geopolitico che riflette apertamente sull’annessione della Crimea da parte della Russia e di tutti i conflitti nati dalle proteste dell’Euromaidan del biennio 2013/2014. Nonostante Tsuchida e il team di G-Craft non facciano più parte del progetto da almeno un decennio, la loro impronta è rimasta percepibile anche all’interno dei capitoli peggiori. Questo non basta a salvarlo, ma va detto che esiste una piccola frangia di appassionati che lo ha elevato nel tempo a titolo di culto proprio a causa delle sue poche ma validissime intuizioni.

Una questione di contesto

Se guardato oggi, Front Mission non può non sembrare una delle più grandi occasioni sprecate di tutta la storia del medium. Il successo di Metal Gear Solid è la dimostrazione che certe tematiche e soprattutto certi approcci alle stesse possono incontrare il gradimento del grande pubblico, ma nonostante questo Front Mission non è mai stato realmente in grado di capitalizzare sulla stratificazione del suo universo narrativo. Front Mission poteva e doveva essere il Mobile Suit Gundam dei videogiochi, la serie che più di tutte (assieme forse ad Armored Core) aveva il potenziale di riprendere le idee di Yoshiyuki Tomino per espanderle e adattarle ad uno scenario differente. A mancare fu l’interesse del pubblico, perché Front Mission nacque in un periodo in cui quella visione della guerra suonava già vecchia, almeno a livello superficiale.

I mecha, tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio, erano visti come reliquie del passato sia in patria che all’estero; i real robots avevano esaurito tutto ciò che avevano da dire e sono passati dall’essere un monito sulla corsa agli armamenti all’essere delle semplici mascotte d’intrattenimento. La sfortuna di Tsuchida fu quella di arrivare contemporaneamente troppo presto e troppo tardi per lasciare un segno tangibile sulla cultura: Front Mission, purtroppo, non poté realmente dialogare con le opere che lo ispirarono né poté partecipare alla riscoperta dei classici degli anni ‘80 e ‘90 iniziata dopo il 2010. Di colpe, in questo senso, Square Enix ne ha eccome, ma la pubblicazione del remake del primo capitolo distribuito per la prima volta in tutto il mondo potrebbe essere un passo per rimediare alla gestione scellerata dell’IP operata da Front Mission 4 in poi.

Toshiro Tsuchida si è allontanato da Front Mission da tanti anni, eppure rimettere mano alla serie oggi dimostra quanto in realtà ci avesse visto lungo. I Front Mission saranno invecchiati in maniera evidente in quanto videogiochi, ma il loro commento alla realtà geopolitica del mondo moderno ha retto perfettamente al passare del tempo. Nessuno sa quali siano i piani futuri di Square Enix, che per il momento ha annunciato ufficialmente i remake dei primi due capitoli e ha promesso che lo stesso trattamento verrà riservato in futuro anche a Front Mission 3, ma la saga meriterebbe una rivalutazione che la porti ad esprimere finalmente tutto il suo potenziale senza limiti di sorta. Prima di diventare “solo” dei modellini da costruire e piazzare sulle proprie mensole i mecha erano un avvertimento per tutti, uno spiraglio sul mondo del futuro aperto dalla generazione del dopobomba che voleva mettere in guardia tutti quanti sui rischi della corsa agli armamenti. Oggi più che mai quegli insegnamenti meriterebbero di essere ascoltati realmente.

Pubblicato il: 18/01/2023

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12 commenti

Sono "storicamente" più legato alle produzioni artistiche e ludiche occidentali. Verso fine liceo, grazie a Neon Genesis Evangelion e altri anime di fantascienza, ho iniziato a recuperare opere giapponesi.
Con i videogiochi il "recupero serio" è a …Altro...
Sono "storicamente" più legato alle produzioni artistiche e ludiche occidentali. Verso fine liceo, grazie a Neon Genesis Evangelion e altri anime di fantascienza, ho iniziato a recuperare opere giapponesi.
Con i videogiochi il "recupero serio" è avvenuto ben più tardi (e al momento sono ancora nelle fase iniziali).

Nonostante la mia passione per un certo tipo di fantascienza meno avventuroso e più "duro e cervellotico" e il mio avere Mobile Suite Gundam (la serie originale) fra i miei anime preferiti non conoscevo (o forse non avevo registrato) questi giochi.

Volendoli recuperare chiedo: il recente remake per Nintendo Switch del primo è valido e può sostituire l'originale offrendo un'esperienza generalmente migliore o non avendo la console giusta faccio prima a provare a recuperare la versione per Nintendo DS? Tendenzialmente se di un titolo esiste una riedizione moderna gioco quella ma dipende. In questo caso poi dovrei farmi prestare la console da un amico. Di mio non ho problemi a giocare titoli vecchi, ad esempio negli ultimi anni ho recuperato giochi come Metal Gear e Diablo apprezzandoli molto, per non parlare di titoli ancora più vetusti giocati in passato (System Shock è uno dei miei preferiti in assoluto ma ho portato a termine con piacere anche titoli come i primi Ultima e altri CRPG degli albori).

Ottimo articolo. Bellissimo sito. Sto trovando questo spazio dell'internet italiano davvero speciale e spero perduri. Questo è il mio primo commento ma ho già letto diversi altri articoli in precedenza.

Un altro fantastico articolo su questo sito! Dove eravate nascosti? Cmq ho aggiunto front mission alla wishlist switch

Articolo molto interessante

Articolone,complimenti.
Quasi quasi provo il remake per switch, ogni tanto ricarico la versione SNES nel cabinato...

Grazie a questa monografia (scritta benissimo btw) ho scoperto una saga a me sconosciuta fino a ora. Sono rimasto decisamente attratto dall'artwork del primo capitolo su Snes, quasi quasi recupero l'edizione fisica anche solo per esso.

Sarebbe bello stamparli questi articoli, ma la stampante sballa tutto 😪😪

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