THE EDGE OF ALLEGORIA
GIORNI DI UN FUTURO PASSATO IN 8-BIT
Sull’orlo del discorso: titolo e tensione simbolica
Il videogioco The Edge of Allegoria evoca già da sé un’apertura doppia: edge, il margine, il confine; e, giustappunto, allegoria, il linguaggio che parla “d’altro”, lo sguardo che, osservando una cosa, si riferisce a un’altra.
Come diceva Foucault, “dare i nomi alle cose è, sempre, un atto di potere”, e ammetto che questo videogioco, proprio a partire dal titolo, mi ha subito intrigato. Già perché l’operazione è esplicitamente metanarrativa: il giocatore non entra solo in un mondo retrò, ma in un universo che è perfettamente conscio di essere retorico, simbolico, entro cui il gioco diventa strumento di riflessione sulla memoria, sull’identità e sul tempo.
La “soglia”, suggerita da edge, è anche quella tra il gameplay e il senso, tra l’esperienza e la lettura. Io sono convinto che un tipo come Bolaño avrebbe certamente apprezzato.
Il contesto ludico: omaggio, parodia e reinvenzione
A un livello puramente formale, The Edge of Allegoria è un classicissimo RPG a turni in 2D, con ambientazione fantasy di matrice caricaturale e grafica monocromatica (in stile Game Boy) che richiama fortemente i classici portatili degli anni ’90. Tuttavia, l’omaggio va oltre la superficie meramente estetica: il sistema di mastery degli equipaggiamenti è il cuore del design.
Ogni arma e armatura accumula “esperienza” con l’uso (o con il subire danni, nel caso dell’armatura). Al raggiungimento del 100% di mastery, l’arma rilascia permanentemente la sua abilità e l’armatura aggiunge bonus stabili alle statistiche. Se il vostro cuore sta volando ai giorni in cui grindavate duro sui Final Fantasy di fine anni Novanta, c’avete beccato.
Questo meccanismo obbliga il giocatore a spaziare, sperimentare, cambiare costantemente strategia: non puoi “mantenere la stessa arma potente” per tutte le ore di gioco, ma devi investire e adattarti. Il gioco, in tal senso, spinge la progressione simbolica: la crescita non è solo numerica, ma esperienziale. Ancora una volta, la dimensione metanarrativa tracima.Inoltre, non ci sono compagni, non ci sono creature da catturare: il giocatore è solo con il suo protagonista, affronta ogni battaglia in prima persona. Questo isolamento ludico accentua il tono esistenziale del racconto: il viaggio è interiore e personale. Non voglio ora citare l’abusato “viaggio dell’eroe”, ma ci siamo capiti, no?
Il gioco non è per nulla scarno per essere una produzione stra-indie: ha oltre 144 nemici unici, una buona gamma di equipaggiamenti e circa 80 abilità da apprendere. Viene presentato come un’esperienza ricca, che riempie il vuoto dell’estetica minimal con una certa profondità di sistema.
Sebbene il giocatore possa esplorare liberamente in alcune sezioni, il gioco mantiene comunque una struttura abbastanza lineare, con sentieri, i classici ostacoli da sbloccare (quali cespugli o rocce), zone accessibili solo dopo aver acquisito determinate abilità. Va detto che il level design, di per sé, non brilla e anzi pecca di una certa ciclicità e ripetitività che non fa danno al gioco in generale, ma che nel particolare un po’ fa soffrire.
Un fattore molto importante in The Edge of Allegoria è il tono smaccatamente adulto, spinto, talvolta volgare. Il linguaggio è irriverente, pieno di citazioni-meme, battute sopra le righe, satira dell’industria RPG. Inside jokes all’ennesima potenza: per essere sintetici, non è “umorismo per tutti”, ma probabilmente è umorismo per voi. La natura fortemente parodica e la rottura dei cliché (come, ad esempio, le battute meta sui “blocchi stradali” o le critiche ai modelli RPG) non sono semplici suppellettili, ma colonne portanti della struttura narrativa del mondo di Allegoria.
L’allegoria della memoria: politica del retro
Arriviamo all’elefante nella stanza. L’estetica 8-bit non è nostalgia passiva: è una forma potente di grammatica visiva in cui ogni singolo limite, ogni sprite minimalista, ogni contrasto cromatico diventa parte del messaggio stesso. Il passato visivo non è solo “ricordo”, ma materia da interrogare. Non semplice “sindrome dell’età d’oro”, ma seduta psicanalitica tra il proprio io adulto e il proprio bimbetto.
La resa grafica, fatta di riciclo di asset e layout ripetuti, può a volte risultare monotona, me ne rendo conto, ma è funzionale all’idea di “memoria fragile”. In un certo senso, ogni schermata è una “istantanea alterata”: il passato non è mai fedele a se stesso, è sempre filtrato dal proprio ricordo. Il giocatore percorre mappe che sembrano familiari ma sono mutate — mutate dal senso del gioco. Proprio come i nostri ricordi, imbellettati alla bisogna per fare bella figura o, magari, rimuovere quel trauma antico.
La nostalgia, dicevamo, da sola rischia di diventare rifugio, escapismo puro e semplice. The Edge of Allegoria trasforma ciò in una sorta di lente critica. Il videogioco non chiede al giocatore di “vivere il passato”, ma di mettere in tensione il passato con il presente. È un legame sonoro, non un semplice “filo rosso del destino”, ma una forma di rifrazione nel tempo che mette in collegamento l’infanzia con l’età adulta.
Attraverso la parodia delle meccaniche classiche, il titolo è come se dicesse: “ricordi questo?”, ma aggiunge “e adesso vediamo cosa vuol dire davvero”. La memoria ludica diviene strumento di lettura: ogni scelta (arma, abilità, momento narrativo) è un doppio gesto, atto di giocare e di interpretare. Ritorniamo al meta, ma ormai ci siamo capiti alla perfezione.
Interpretazioni simboliche e tema generazionale
Joe (nome “medio” per eccellenza) parte da un atto molto quotidiano: pesca in uno stagno che è ormai asciutto. Quel gesto è fallimentare e simbolico: cerca significato laddove il significato sembra svanito. Quando la vita reale lo respinge, si consegna all’avventura. In Allegoria, i nemici, gli ostacoli, i dungeon assumono significati interiori: timori, rimpianti, desideri non espressi, rimossi, ansie, desideri.
In questo viaggio, Joe non vuole salvare il mondo (non è un eroe epico), vuole ritrovare un senso alla propria vita. Siamo noi che, di tanto in tanto, ci svegliamo al mattino e ci chiediamo: “Ma davvero questa era la vita che sognavo da bambino?”. Questo ridisegna l’archetipo RPG: l’eroe è soprattutto se stesso, il suo passato, la sua memoria. L’eroe siamo noi.
Chi gioca The Edge of Allegoria oggi è probabilmente parte di una generazione cresciuta con handheld, cartucce e pixel. Il gioco parla direttamente a quella esperienza di vita, ma non come museo: chiama in causa il conflitto tra il progresso tecnologico e la perdita di semplicità, tra nostalgia del “prima” e necessità di adattamento nei confronti dell’“ora”.
L’“orlo” è il luogo temporale dove il passato non è mutismo e il futuro non è assenza: è un presente che si costruisce attraverso lo sguardo retrospettivo. Che giocone.
Limiti, contraddizioni, domande aperte
La luce di The Edge of Allegoria è squillante, ma è giusto segnalare anche le sue evidenti criticità. Numerose recensioni segnalano come l’adesione stretta a modelli d’ispirazione molto evidenti (Pokémon, JRPG classici) arrivi a stringere l’innovazione. A volte le meccaniche risultano “fin troppo classiche”.
Il sistema di mastery è sicuramente potente, ma non sempre trasparente: i valori “base” delle statistiche spesso rimangono invisibili al giocatore, e l’efficacia della mastery si nota maggiormente a livelli avanzati. E questo non è un qualcosa di voluto, ma un errore evidente di game design. Alcune abilità non mostrano i dettagli (come, ad esempio, il range, le probabilità o gli effetti passivi) durante i combattimenti, il che può ostacolare la pianificazione strategica.
L’irriverenza forte è una forza senza alcuna ombra di dubbio, ma anche un rischio. Quando l’umorismo oscilla tra il graffiante e il gratuito, la coerenza narrativa può un attimo vacillare, soprattutto se la si reitera nel tempo. Alcuni momenti sembrano cadere in battute che interrompono la tensione piuttosto che rafforzarla. Talvolta, l’intreccio “serio” (l’inserimento della mitologia, le divinità e addirittura i conflitti cosmici) convive con gag scurrili che sembrano estranee, generando disallineamenti tonali.
Per padroneggiare ai livelli alti è necessario molto grinding. Se da un lato il sistema di mastery rende utile il grind, dall’altro alcuni giocatori possono trovarlo faticoso. In questo caso, pur non volendolo far passare in sordina, credo che sia un qualcosa di voluto, proprio per omaggiare i JRPG del passato.
Conclusione: l’orlo come atto di gioco e memoria
Per concludere, The Edge of Allegoria non è semplicemente un gioco nostalgico: è un esperimento narrativo e ludico che chiede al giocatore di confrontarsi con la memoria, la forma del ricordo e il prezzo dell’identità. Sono giorni di un futuro passato in 8-bit. Il margine — edge — non è un limite da evitare, ma spazio di creazione, pura materia vivificante: il limite dell’estetica retrò, della meccanica tutto sommato semplice, della scrittura irriverente e pungente, diventa campo d’azione simbolico. Quando giochi con le armi, non stai solo colpendo nemici: stai investendo memoria, interpretando il tuo passato. Quando ride della propria struttura RPG attraverso battute meta e citazioni, non disarma il genere: lo reinterpreta. E, ovviamente, gli rende omaggio.
Nei “giorni di un futuro passato”, il tempo non è mai lineare: è un loop, un’eco digitale, un tessuto di memoria che si riattiva. E in quel tempo “altro”, in quella culla del mondo “letto” dai nostri schermi, il giocatore scopre che la nostalgia può essere un gesto critico, e che il gioco — persino il gioco in 8-bit — può parlare “d’altro”.
Può parlare di noi.
Pubblicato il: 14/12/2025
Provato su: PC Windows
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