Il lutto come strumento di conoscenza
il dialogo sotterraneo tra Death Howl e L’inconsolabile di Cesare Pavese
Il dolore della perdita di qualcuno a cui abbiamo voluto bene, il percorso della malattia e della dipartita nella nostra società avanzata è, ancora oggi, un tabù. Una zona d’ombra dei nostri discorsi, imbellettata da formule attenuanti come “l’ha portato un brutto male”, “si è spento questa notte”, “non penso abbia sofferto”. Eppure, il lutto, il dolore della perdita, è parte integrante dell’esperienza di ognuno di noi. Anzi, forse se c’è qualcosa che veramente ci accomuna, qui ed ora, su questa ruvida terra, è l’aver perso qualcuno, prima o dopo. Non fa differenza.
È in quest’area liminale, proibita da convenzioni che celebrano la vita e occultano la morte, che opere come Death Howl, il recente gioiello di 11Bit Studios, si inseriscono alla perfezione. Quello che, a conti fatti, è un brillante deck-builder che combina una sapiente mistura di elementi soulslike e combattimenti tattici a turni su griglia, si rivela soprattutto un modo per riflettere su queste intermittenze del cuore. La protagonista, Ro, è una sorta di riscrittura della mater dolorosa della tradizione cristiana. Ma se quest’ultima accoglie il fato e, nel dolore, rispetta l’ordine delle cose, Ro invece infrange la linea tracciata.
Ella varca i confini di un mondo che la sua società, ma anche la nostra, ha reso proibito a chi respira: il regno dei morti. Per strappare il figlio alle grinfie dell’oblio eterno, una madre compie di sua iniziativa il peccato più grande, tenta di trattenere la vita nella morte. In questo viaggio periglioso e distruttivo, che si oppone a ogni precetto dell’ordine costituito, Ro non sarà mai incrollabile. La vediamo spesso sul punto di spezzarsi, e perfino oltre: la vediamo spezzarsi e ricomporsi, in un mondo sospeso tra realtà e sogno, vita e morte. I combattimenti a turni su griglia non fanno che acuire e sottolineare la portata emotiva di questo cammino.
Il gioco è sorretto da una direzione artistica sublime, una rivisitazione del folklore mitteleuropeo e slavo filtrata attraverso tonalità malinconiche, intime e rituali. Gli ocra spenti raccontano una natura esausta, i neri compatti suggeriscono la densità dell’aldilà, mentre improvvisi bagliori dorati sembrano scolpire il cuore della protagonista: il dolore come unica luce possibile nel crepuscolo dei vivi e dei morti.
In questa vera e propria katabasi, o meglio nekuia (la discesa agli inferi), torna alla mente una delle opere più belle del secondo Novecento italiano: L’inconsolabile di Cesare Pavese, contenuto nei Dialoghi con Leucò. In questo testo Pavese si muove contro la tradizione apollinea e luminosa dell’amore sconfinato di Orfeo per Euridice; quell’amore così immenso da spingere il poeta, capace con la sua lira di ammansire perfino le fiere, a discendere nell’Ade per riportarla alla luce. Ma che poi, per troppo amore, finisce per perderla per sempre, voltandosi un attimo prima di ritrovare le stelle.
Questa è la storia che tutti conosciamo. Pavese, esattamente come Ro, rompe le regole.“L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. (…) Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.”
Ecco lo scarto decisivo: Orfeo scende nell’Ade non per cercare o ritrovare Euridice, ma per conoscere sé stesso, davvero. Nel dolore che ti squassa le membra, in mezzo ai morti che non sono più nulla, Orfeo tenta di ritrovare la parte più profonda della sua essenza. L’amata, nel momento del trapasso, è già qualcos’altro. Non è stata dimenticata, mai; il dolore fantasma ritornerà per sempre. Ma la discesa nella notte della morte è un’altra cosa: è una via per capire. Il dolore è un mezzo di conoscenza.
“Bacca: E che vuol dire che un destino non tradisce?Orfeo: Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.Bacca: Può darsi, Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com’è dunque che scendiamo all’inferno anche noi?Orfeo: Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.”
È qui che i mondi si toccano: il destino è dentro di te, più profondo del sangue, in un luogo che nessun dio può violare. Orfeo e Ro sono due persone che attraverso il proprio incommensurabile dolore scoprono il loro destino, il destino di tutti, il destino di noi esseri umani. Creature “fragili come foglie” (per citare il dialogo tra Glauco e Diomede nell’Iliade), certo, ma che nonostante questo sanno trovare dentro di sé un luogo che nessun dio può sfiorare.
E se per custodirlo occorre sfidare la morte, scendere negli inferi, perdere per sempre l’amata o devastarsi nel dolore, saremo pronti a farlo, ancora una volta, con il lutto di Ro, con il fato crudele di Orfeo, con quel destino che solo noi conosciamo. Che sia un gioco come Death Howl a rivelarcelo, nel silenzio di una semplice griglia tattica, è una di quelle epifanie che il fato concede di rado, e proprio per questo restano indimenticabili.
Pubblicato il: 17/12/2025
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